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Massimo Fini, Non mi piace e me ne vanto

In L’Unità 4 marzo 2002

 Gentile direttore, l'altra sera alla trasmissione di Santoro, Pierluigi Battista, editorialista della Stampa, ha accusato le persone che si sono riunite al Palavobis di essere «cariche d'odio». Non era una notazione sociologica, era un'accusa politica, e morale, perché l'odio porta alla violenza, agli attentati, alle bombe. L'odio è, di per sé, eversivo.

Ero al Palavobis e non ho visto odio. Ma il punto non è questo. Poniamo pure che vi fosse. Ebbene? Un uomo ha diritto a odiare. Come a amare. O a essere geloso. Questi neoliberali vorrebbero mettere le manette ai sentimenti, ci stanno provando e, se le cose vano avanti di questo passo, ci arriveranno. Battista accusava anche quelli del Palavobis e dei «girotondi» di «non essere allegri».

Non era, anche qui, una notazione sociologica, ma un'accusa politica. E allora? Non si ha il dovere di essere allegri. Que­sto non lo pretese, credo, neppure il fascismo. Una cosa del genere è adombrata solo nell'utopia totalita­ria descritta da Aldous Huxley nel Mondo nuovo.

L'uomo ha diritto di essere triste, di odiare e - guarda un po'. Battista, dove si spinge la mia carica eversiva - anche di essere incazzato. Qual è il discrimine? Che i sentimenti, quali che siano, non travalichino le leggi. Io posso ben essere geloso di mia moglie, ma non ho diritto, per ciò, di ucciderla. Io posso odiare il mio avversario, ma non ho diritto di tor­cergli nemmeno un capello. Ci si vergogna, ci si sente umiliati, caro Direttore, a dover richiamare queste cose elementari. Ma a questo punto stiamo: nel mondo nuovo beriusconiano si fanno processi alle intenzioni, ai sentimenti, e, fra poco, anche ai pensieri. Come in «1984» di Orwell «II Grande Fratello» scruta la nostra mente e le nostre intime emo­zioni e, se non sono corrette, se non sono morali, ci condanna alla go­gna. Per ora mediatica. In seguito si vedrà. Il bello è che questo atteggia­mento inquisitorio viene da gente che bolla come «moralisti», «giacobi­ni», «forcaioli» coloro che, come al Palavobis, chiedono il rispetto della legge.

Nel mondo nuovo berlusconiano ri­spettare la legge è un optional, odia­re è proibito, è già quasi un reato. Nel mondo nuovo beriusconiano bi­sogna anche amare il tiranno. Que­sta cosa, per la verità, a differenza del «dovere di allegria», si era.già. vista nella Storia. Era la pretesa della Santa Inquisizione quando infilava i cunei fra le dita dei piedi degli ereti­ci traendo da quei corpi straziati di­chiarazioni d'amore sconfinato per Dio. Era quanto avveniva nei proces­si staliniani degli anni Trenta quan­do la vittima, fatta autocritica, si av­viticchiava piangendo di commozio­ne liberatoria, alle gambe del carnefi­ce, grata di essere mandata alla fuci­lazione. Noi dobbiamo amare Berlusconi. Altrimenti, oltre che degli in­dividui moralmente sadici, siamo dei sediziosi, dei potenziali terrori­sti.

L'uso delle categorie dell'odio» e della «invidia» è una costante del­l'onorevole Berlusconi e dei suoi Volendo mettersi sul loro piano si potrebbe dire che costoro, in termi­ni psicoanalitici, proiettano la loro ombra. Ma non è questo che interes­sa qui, eppoi è un discorso troppo ostico per teste beriusconiane o leghiste. D fatto è che l'uso delle cate­gorie dell'«odio» e dell'«invidia» ha scopi politici. Il primo è espresso da questo paradigma: se ogni critica al premier è frutto dell'odio e l'odio è eversivo, ecco che, oplà, è abolito il dirittp di criitica. Il secondo è che in tal modo non si entra nel merito della questione. Si critica il conflitto di interessi? È odio antiberlusconiano. Si critica il trust televisivo? È tutta invidia per un uomo capace, che è diventato ricco e si è comprato tre Reti. Ma il problema non è l'odio o l'invidia, u problema è il fatto, inaudito, nel senso letterale di mai udito prima, di un paese democrati­co dove il capo del governo control­la, direttamente e indirettamente, tutto il sistema televisivo. Non vo­gliamo chiamarlo un regime? Sia pu­re. Diciamo allora che è una situazio­ne totalmente antidemocratica, anti­liberale e antiliberista che dovrebbe far rizzare i capelli in testa a liberali come Piero Ostellino, il molto com­mendevole e autorevole Emesto Gal­li della Loggia, Pierluigi Battista e il cosiddetto ambasciatore Sergio Ro­mano. Invece a turbarli è il Palavo­bis, dove alcune migliala di persone si sono riunite in un luogo aperto al pubblico nemmeno in strada ne in piazza senza ambigui servizi d'ordi­ne, senza bandiere, con relative aste, a viso ovviamente scoperto, senza che avvenisse il benché minimo inci­dente, per chiedere «orribili dictu», il rispetto della legge anche da parte dei cittadini eccellenti ed eccellentis­simi. Perché al Palavobis, a loro in­sindacabile giudizio (del resto chi può misurare un sentimento, l'Abacus?) c'era l'odio. È già quasi un rea­to, sicuramente la sua anticamera. Rispetto a costoro, gli ingenui diktat del mullah Ornar sulla lunghezza delle barbe e dell'orto dei vestiti paio­no l'Eden della tolleranza. Questi vo­gliono mettere le manette non solo alle idee ma anche ai sentimenti.