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L'ECLISSI DELLE REGOLE
ANDREA MANZELLA

da Repubblica - 12 febbraio 2002

 CI SONO tre affermazioni rilevanti nel rendiconto del presidente della Corte costituzionale. La grave denuncia del ritardo parlamentare nella elezione di due giudici. La necessaria supplenza della Corte nella definizione del nuovo equilibrio federale dello Stato. La precisa difesa dell´autonomia dei giudici ordinari nell´interpretazione di quelle sentenze costituzionali che entrano "come le leggi" nell´ordinamento.

Tre affermazioni che, a prima vista sembrano slegate fra loro. Ma che in realtà sono solidamente connesse dal filo che, in uno Stato moderno, passa tra unità e pluralismo istituzionale. Dalla chiara idea insomma che il nostro Stato può funzionare, ed esprimersi compiutamente come volontà unitaria, solo se capace di percorrere prima i processi del pluralismo. E di rispettare cioè l´autonomia di tutte e di ciascuna le sue istituzioni.
Il Parlamento che lascia così a lungo incompleta la Corte ha visto l´incapacità di maggioranze e di minoranze, da una legislatura all´altra, di accordarsi su scelte di persone idonee a dare a tutti, visibilmente, la garanzia di "tenere" il ruolo con dignità di scienza e comportamenti non faziosi. Questa paralisi parlamentare è di per sé preoccupante perché attesta una crisi civile. Con la difficoltà delle due coalizioni di riconoscersi reciprocamente in persone, magari di diverso orientamento culturale, ma di indiscusso personale prestigio. Ma la cosa più grave è la ferita che così il Parlamento arreca ad un´altra istituzione della Repubblica, con un turbamento non più a lungo sopportabile dei suoi delicati meccanismi di funzionamento interno. È in questo disordine dello Stato - una istituzione oggettivamente contro un´altra - che si crea la negazione dell´equilibrio pluralistico della vita pubblica. In definitiva, quell´eclissi delle garanzie che, in un sistema parlamentare iper-maggioritario come il nostro, è avvertita come un rischio crescente dalle opinioni più attente. Contro questo rischio la responsabilità delle Camere e dei suoi presidenti è ora nuda.
La Corte che, così ridotta, affronta i problemi di attuazione del federalismo fa i conti con un altro ritardo. Meno lungo dell´altro ma non meno deplorevole. Dal referendum del 7 ottobre sono infatti passati già più di quattro mesi e si sono registrati solo confusi propositi attuativi: su cui torreggia il più confuso di tutti, quello della devolution. Anche qui la morosità di governo e di Parlamento (che deve modificare i suoi regolamenti per fare "entrare" i rappresentanti dei governi territoriali nel processo legislativo) si pone oggettivamente contro le istituzioni territoriali plurali. Ma si pone anche contro quel bisogno di nuova unità e di nuova cooperazione tra i vari livelli decisionali della Repubblica: che è il punto su cui si gioca l´efficienza di ogni moderno Stato federale. Dove l´esclusivismo delle competenze appartiene alla mitologia del passato.
E dove, invece, solo i difficili congegni della sussidiarietà e delle competenze concorrenti possono creare, nel rispetto delle diversità, l´unica forma possibile di unità repubblicana. Il contenzioso tra Stato e regioni che già si è aperto poteva forse essere evitato da una chiara e tempestiva definizione di criteri d´attuazione bene orientati. Ci sarà ora inevitabilmente una via giurisprudenziale al federalismo. Sarà però, almeno, la via attraverso la quale la Corte costituzionale potrà dimostrare, difendendo insieme le ragioni dell´unità e del pluralismo, l´assurdità del progetto di snaturare il suo carattere nazionale.
La difesa della completa autonomia della magistratura nell´interpretare le sentenze della Corte costituzionale - fatta dal presidente della stessa Corte - è ancora una nitida affermazione di garanzia reciproca fra le istituzioni.
Contro la marmellata di ogni giorno, la sciatteria di un confusionismo istituzionale proclamato in nome dell´ignaro "popolo sovrano", sta l´orgoglio della Corte di dire che le sue sentenze hanno valore di leggi. Ma anche, subito dopo, l´umiltà di accettare di quelle "sue" leggi l´interpretazione che ne darà il libero convincimento dei magistrati, dal giudice di pace alla Cassazione, come è giusto secondo Costituzione. E come invece certe pratiche di avvocati e di imputati parlamentari tendono a negare.
A ben vedere, il presidente della Corte ha detto cose del tutto normali. Ma per certe distorsioni e anomalie e conflitti dei nostri giorni, sembra che sia risuonata ancora una volta la tranquilla sfida del mugnaio di Potsdam al sovrano che caracollava sul suo terreno: «Ci sono dei giudici!». Da qualche parte.