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IL CASO
Quel mostro costituzionale chiamato legge Cirami
FRANCO CORDERO

 

da Repubblica - 21 ottobre 2002


SOTTO queste lune circolano piccoli mostri. Ne sta nascendo uno e avrà vita corta, tanto invalido appare. L´idea viene dall´insonne cervello giuridico d´Arcore: la inseminano vari fattucchieri; due Camere prestano l´utero; ed ecco i nuovi artt. 45, 47, 48, 49 c.p.p. Lettori attenti noteranno come gli avvenimenti governativo-parlamentari somiglino alle ipotesi storiche sub iudice: identico lo stile; qualcuno bara. Se l´accusa risultasse vera, B. sarebbe un corruttore avendo comprato sentenze in cause enormi.

Quel mostro costituzionale chiamato legge Cirami


Sul secondo tavolo niente vieta d´usare i verbi all´indicativo: impadronitosi dello Stato, mette le mani nei processi sostituendo le norme con quelle che gli riescono comode, allestite da suoi scribi. Due figure gemelle. Inutile dire quale sia più temibile: una è delinquenza fisiologica, ossia episodio da perseguire e punire, qualora consti; l´altra mistifica e perverte gli strumenti legali, corrompendo la cosa pubblica.
È l´uomo più ricco d´Italia, tra i più ricchi al mondo, grazie alla consorteria politica sotto le cui ali l´impresario edile era diventato re delle televisioni commerciali: persi i patroni, vede in pericolo il privilegio sull´etere; allora chiama alle urne masse stregate dagli schermi, presentandosi sotto varie vesti (uomo dei miracoli, restauratore, arcangelo anticomunista, ecc.); vince; cade dopo sei mesi; sfrutta le occasioni servitegli nel piatto da avversari che ogni politicante sogna, tanto danno arrecano alla loro parte; rivince e fonda una signoria. L´unico punto nero sono quei processi: 800 udienze, 98 avvocati, 32 consulenti, contavano i cronisti l´anno scorso; e avendo tentato mille espedienti, incluse due leggi ad personam (falso in bilancio e rogatorie), chiede una «translatio iudicii» volgarmente detta rimessione. L´art. 45 la contempla quando fattori locali non altrimenti eliminabili infirmino la libertà morale dei partecipanti al giudizio: i codificatori 1988 avevano definito così l´idea ricavabile dalla vecchia formula, troppo vaga, del «legittimo sospetto»; e su tali premesse la richiesta non è accoglibile. Quando se ne accorgono, le difese deducono una pretesa lacuna nell´art. 45 rispetto alla matrice (art. 2, n. 17, l. 16 febbraio 1987 n. 81, nel quale i deleganti dicono «legittimo sospetto», senza spiegare cosa sia). La Cassazione, ritenendo «non manifestamente infondata» la questione (mentre lo è), trasmette gli atti alla Consulta, senza sospendere i processi. Suppongo che B. resti deluso, e siccome non s´aspetta niente dall´altra Corte, scatta subito la contromossa. L´ordinanza era datata 4 luglio. Novantasei ore dopo un grottesco ddl riesuma il «legittimo sospetto», prevedendo la sospensione automatica reiterabile all´infinito. Come sia votato tra luglio e agosto, è storia recentissima, da esporre come esempio negativo.
Testo incostituzionale, a prima vista, e tale rimane dopo la cosmesi sotto cui lo agghinda Montecitorio, platealmente incostituzionale, qualunque salmo cantino i pacificatori profani o sapienti. Consideriamo i motivi d´invalidità. Le due parole reintrodotte nell´art. 45 non ammettono più letture correttive perché il «legittimo sospetto» figura come ipotesi autonoma: concetto vago, anzi non-concetto; vi entra qualunque cosa; non è nemmeno detto che il parametro sia l´imparzialità del giudice.
Inutile averlo ricondotto a «situazioni locali»: ovvio che debbano esservene; sarebbe stupido spostare i processi quando l´effetto perturbante fosse universale. Formule vuote generano competenze fluide, manipolabili ad libitum, contro l´art. 25 Cost., c. 1 («nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge»), né servirebbe un riferimento allo stato emotivo dei chiamati a giudicare. I consulenti pro divo Berluscone confondono due idee che ogni scolaro serio distingue: rimessione e ricusazione; dove influssi ambientali turbino irrimediabilmente i processi, bisogna dislocarli, ma supponendo rapporti particolari d´una parte col giudice, donde sospette parzialità, basta sostituire la persona fisica. A Milano sono 6 i presenti nei due collegi: a occhio e croce, 1/65 degli addetti al tribunale; e qui la translatio iudicii viola l´art. 25 Cost., non essendo motivabile con interessi prevalenti nella scala costituzionale.
Contro l´automatismo della sospensione (artt. 47 sg.) restano fermi gli argomenti sviluppati da Corte cost. 22 ottobre 1996 n. 353. S´illude chi crede d´avere combinato meraviglie tecniche. un mostriciattolo inglobato nel piccolo mostro: il presidente assegna i ricorsi alle sezioni; se rileva cause d´inammissibilità (tale essendo anche la «manifesta infondatezza»), lo manda a quella che sbriga tale lavoro (ruotano ogni 2 anni); se no, a una delle altre o alle sezioni unite; e chi procedeva, informatone, sospende il processo. Tale il vantato «filtro», ma siamo fuori del quadro giurisdizionale: il presidente comanda l´apparato nella fase precognitiva; non accerta né dichiara niente l´atto con cui, ravvisando una causa d´inammissibilità, assegna il ricorso alla sezione prevista all´art. 169-bis att.; può darsi che risulti ammissibile, nel qual caso gli torna affinché decida un´altra a cui l´assegna; o l´inverso (risultando inammissibile, sarebbe dichiarato tale senza superflui passi all´indietro). Se mai il presidente esercitasse da solo poteri giurisdizionali, il fenomeno violerebbe norme sottintese nella Carta: è come introdurre il voto plurimo; o stabilire che su dati punti decida insindacabilmente un componente N del collegio.
Lo sguardo delibativo della «non manifesta infondatezza» passa attraverso una lettura del ricorso, e pochi ricorrenti sono così malaccorti da esporre aneddoti futili: ad esempio, che un cantastorie nominasse l´imputato; sulla carta gli «exposita» suonano sempre più o meno plausibili. Restano da fissare due punti: se i fatti de quibus siano avvenuti; indi, nell´ipotesi affermativa, se e quanto modifichino l´atmosfera del giudizio, ed è lavoro istruttorio, poi induttivo, non esperibile dal presidente. Notiamo ancora come nessuno sia tanto cretino da riesporre tali e quali i motivi della richiesta respinta.
Ancora due norme invalide in poche frasi e siamo a 4, un record. Solo mani d´orafo potevano riuscirvi. L´art. 48, c. 5, prevede che gli atti compiuti siano rinnovati nella nuova sede, se una parte lo chiede: qualcuno lo chiederà; e svaniscono cose avvenute nel pieno contraddittorio. Questo micidiale ordigno perditempo ignora almeno tre norme costituzionali: art. 3, c. 1 (razionalità obiettiva); art. 97, c. 1 («buon andamento» dell´ufficio); art. 111, c. 2 (ragionevole durata). Infine, l´art. 48, c. 5, estendendo lo ius superveniens ai processi pendenti, modifica la competenza, che l´art. 25 àncora a leggi ante factum (sarebbe diverso se il vecchio art. 45 fosse dichiarato invalido).
Enumerati i motivi d´invalidità, mi domando se la Corte possa investirsene ex officio. Doveva risolvere questioni sollevate dall´ordinanza 4 luglio sull´art. 45, versione 1988: il quale negl´intenti del Sire d´Arcore non esiste più, sostituito dal nuovo; i suoi strateghi presuppongono che, caduto il thema decidendum, gli atti tornino alle S.U. Non ne sarei tanto sicuro.
Leggano piuttosto l´art. 27 l.c. 11 marzo 1953 n. 87: gli accertamenti positivi stanno nei limiti della domanda; la Corte dichiara invalida la legge impugnata ma anche se ne cadano altre e quali, affette da invalidità conseguente (un corollario). Inversa-simmetrica è l´ipotesi della norma A, non impugnata, sul presupposto della cui invalidità la sentenza colpisce B: in lingua tecnica, questioni pregiudiziali; e la Corte v´interloquisce ex officio, senza che gliele abbiano sottoposte. Ora, era questione pregiudiziale se sia valido l´art. 2, n. 17, l. delega contemplante il «legittimo sospetto» (nel senso lato in cui lo intendono le S.U.): sarebbe assurdo affondare l´art. 45, perché non attua una direttiva incostituzionale. Veniamo al cosiddetto ius superveniens: può darsi che, diversa essendo la norma nuova, non vi sia più niente da decidere; ma non è così se la questione rimane nello ius superventum (ad esempio, legislatori garruli ridicono la stessa cosa variando le parole).
Abbiamo sotto gli occhi quest´ultima ipotesi: l´art. 45, nuovo testo, ripete l´art. 2, n. 17, l. delega: in peggio, perché la formula vaga era interpretabile secondo l´art. 25 Cost. (come raccomandava la Corte); la nuova rifiuta ogni lettura correttiva, a meno d´intenderla come puro pleonasmo, ignorandola.
Economia processuale e «favor costitutionis» spiegano la deroga al principio della domanda nell´art. 27 l. cost. 1953. Il nostro caso coinvolge entrambi i valori. Primo: la questione sarebbe risollevata dopo pochi giorni dal tribunale nel medesimo processo, quando dovesse sospenderlo applicando l´art. 4, c. 2; perché non scioglierla subito? Secondo: è un trucco lo ius superveniens; gl´interessati alla fuga da Milano speravano una risposta benevola dalle S.U.; delusi, eccepiscono l´invalidità dell´art. 45; guadagnano tempo ma vogliono eludere il giudizio sulla relativa questione, sapendola poco seria; e sostituiscono il testo sub iudice con uno che li favorisca, predisponendo meccanismi viziosi. La furberia sta nel cambiare le carte sul tavolo, sperando che la Consulta, abbagliata dalla mossa, restituisca gli atti: virtuosismi da ioculator; o gioco delle tre tavolette, se vogliamo dirlo nel lessico familiare ai berluscones. L´Italia 2002 riaffoga nella procedura malfamata, ma allora il difetto era intellettuale, definibile come ignoranza e dialettica sconnessa, oneste nella misura in cui possono esserlo tali lacune o storture, mentre adesso splende una disinvoltura noncurante del malaffare o, peggio, aperta allo stesso. Strenuo barzellettiere, ogni tanto B. consuma gaffes, anche triviali, e pesca volentieri nello humour macabro: questa legge era «assolutamente dovuta agl´italiani», blatera senza arrossire («Corriere della Sera», 12 ottobre); non s´accorge d´insultarli. Il teatro d´Arcore manda in onda una pochade dove non manca nemmeno l´incidente buffo.
Re Sole voleva sull´unghia i nuovi articoli, da esibire alla Consulta martedì 22 ottobre, promulgati e pubblicati sul tamburo, né i famigli hanno perso tempo: nessuno dirà che rubino i salari; li sudano, ma alle pentole del diavolo ogni tanto manca il coperchio. Tutto va de plano, meno una svista da fretta convulsa nell´art. 47, comma 4: l´idea era che, quando l´instante sia un imputato sotto custodia, i termini massimi della stessa non decorrano nel tempo della sospensione; e i riformatori rinviano all´art. 303, comma 1, anziché 304, dov´è regolata la materia; banale lapsus calami, esclamano quando salta fuori l´errore, atterriti dallo scudiscio padronale, se occorresse un quarto voto. Non perdano il sonno. La cosiddetta mens legis risulta chiara dal séguito. Al posto del Sire d´Arcore, però, ordinerei che la Camera alta voti l´aureo ddl qual è, lapsus incluso, perché ogni ritocco sarebbe emendamento.
Così l´«art. 303» resta come la cicatrice d´una gloriosa ferita. Esistono teste più fini ma, poveri figlioli, lavoravano con tanto zelo.