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LA LEGGE "CIRAMI" E' INCOSTITUZIONALE
Lo sostiene il prof. Paolo Ferrua, ordinario di Procedura Penale all'Universita' di Torino, in un articolo che sara' pubblicato su "Diritto e Giustizia" del 16/11/02.: lo proponiamo alla lettura perché le argomentazioni tecnico-giuridiche che vi sono contenute nei prossimi mesi sicuramente determineranno ricorsi alla Corte Costituzionale.

di Paolo Ferrua

Con il voto del 5 novembre 2002 è stata definitivamente approvata la c.d. ‘legge Cirami’ recante modifica degli artt. 45, 47, 48 e 49 c.p.p.. Tre gli aspetti più significativi della nuova disciplina, oggetto sino all’ultimo di forti polemiche in Parlamento come nel Paese: a) il ‘legittimo sospetto’, come autonoma ipotesi di rimessione del processo; b) la sospensione obbligatoria nella fase finale del dibattimento; c) il regime transitorio, ovvero l’immediata applicabilità delle nuove disposizioni ai processi in corso.

1. Quanto alla previsione del ‘legittimo sospetto’, la vicenda risale all’ordinanza 4 luglio 2002 con cui le Sezioni Unite della cassazione dichiarano «non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 45 c.p.p. in riferimento all’art. 2 n. 17 della legge 16 febbraio 1987 n. 81 nella parte in cui non prevede tra le cause di rimessione il legittimo sospetto».
A dir il vero, la cronologia sarebbe più remota, perché già una proposta di legge, presentata alla Camera dei deputati il 5 luglio 2001 dall’on. Gianfranco Anedda, prevedeva il ‘legittimo sospetto’ come causa di rimessione del processo (C/1225 recante modifiche al codice di procedura penale e al codice penale in attuazione dei principi del giusto processo): obiettivo dell’innovazione «rivitalizzare l’istituto de quo, dal momento che, in questi dieci anni di vigenza del codice di procedura penale, esso ha avuto un’applicazione pressoché irrisoria» (così testualmente la relazione illustrativa, quasi che fossero i casi di rimessione del processo a rappresentare un indice di buon funzionamento della giustizia).
Ma non v’è dubbio che ad imprimere la spinta decisiva alla riforma sia stata proprio l’ordinanza delle Sezioni unite; è a questa, infatti, che si richiama l’on. Cirami nel presentare pochi giorni dopo il suo ddl, sul presupposto che «le Sezioni unite della Corte di Cassazione hanno affermato come i casi di rimessione del processo di cui all’art. 45 del c.p.p. non siano corrispondenti né alle previsioni della legge delega ... né ai principi di cui all’art. 111 della Costituzione». Presupposto erroneo perché le Sezioni unite si sono limitate a dichiarare non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale per violazione della delega; ‘non manifesta infondatezza’ non equivale affatto a ‘fondatezza’, della quale è giudice solo la Consulta. Ma ce n’è abbastanza perché dal quel momento il disegno di legge diventi una priorità per il Paese e proceda spedito verso la sua meta, a forza di sedute notturne e voti non propriamente cristallini (come insegna il caso dei ‘pianisti’).
Sin qui i fatti. Ma, passando alle valutazioni, era davvero incostituzionale la mancata previsione del legittimo sospetto come causa di rimessione del processo? E’ un quesito di indubbio interesse, perché in tutto il corso del dibattito parlamentare i sostenitori della nuova legge insistono sull’urgenza di colmare un intollerabile vuoto di garanzie; e nella stessa chiave predicano l’immediata applicabilità ai processi in corso, come scelta necessaria per assicurare a tutti gli imputati il rispetto del principio costituzionale della imparzialità e terzietà del giudice (così la relazione delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia, presentata alla Camera dei deputati il 23 settembre 2002: C/3102-A). Può anche darsi che la Corte costituzionale si pronunci sulla disciplina originaria prima che l’entrata in vigore della legge le sottragga, per così dire, la materia del contendere. Ma enucleiamo intanto le ragioni della risposta negativa.
Nessuno nega che la legge possa consentire lo spostamento del processo da una sede all’altra quando questo sia il solo mezzo per garantire valori costituzionalmente protetti, a partire dall’imparzialità del giudice (risultando inadeguato l’istituto della ricusazione). Alla condizione, tuttavia, che sia parimenti garantito il valore, anch’esso costituzionalmente tutelato, della precostituzione del giudice. A tal fine, come insegna la Corte costituzionale (sent. n. 50 del 1963), non basta che sia predeterminato il nuovo giudice territorialmente competente; dev’essere analiticamente individuato dalla legge - e, quindi, empiricamente verificabile dalla Cassazione - anche il presupposto della rimessione, la vicenda che giustifica la translatio iudicii.
A quest’obbligo si era puntualmente uniformato il codice vigente, traducendo la generica previsione della legge-delega, imperniata sul ‘legittimo sospetto’ (art. 2, n. 17), nel pregiudizio alla «libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo» (art. 45 c.p.p.). Nessuna violazione della delega in questa concretizzazione. Nel contesto di una legge-quadro, che fissa principi e criteri direttivi, il richiamo al legittimo sospetto, come all’ordine pubblico, ha un valore denotativo (o referenziale), sta cioè semplicemente ad indicare l’istituto che già nel codice abrogato consentiva lo spostamento del processo per l’una o per l’altra ragione; ma la connotazione di quel referente - l’insieme dei tratti che danno corpo al legittimo sospetto o ai gravi ed oggettivi motivi di ordine pubblico - va definita in base al principio della ‘precostituzione’, che non ammette formule vaghe od elastiche per il trasferimento del processo. Da questo punto di vista il pregiudizio alla «libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo» è una formula felice, probabilmente tra le migliori che si potessero congegnare: da un lato, ha referenti abbastanza estesi (giudici, parti, testimoni, periti, ecc.), capaci di coprire, in sinergia col richiamo alla sicurezza e all’incolumità pubblica, i più gravi fattori perturbanti di un ordinato svolgimento del processo; ma, dall’altro, fornisce al giudice parametri ben definiti per la sua valutazione, scoraggiando le richieste puramente dilatorie.

2. Libero, naturalmente, il legislatore di variare la disciplina della rimessione, adottando formule diverse da quelle sinora vigenti; ma vincolato dalla garanzia del giudice precostituito a svolgere i concetti in modo altrettanto preciso e tassativo. Ed è proprio sotto questo profilo che la legge ‘Cirami’ tradisce il precetto costituzionale: non tanto perché estende i presupposti di un istituto, la cui storia, come si sa, è tutt’altro che virtuosa, quanto perché rende incontrollabile, arbitrario il loro accertamento per l’assenza stessa di esatti riferimenti normativi.
E’ vero che l’emendamento approvato dalla Camera dei deputati il 10 ottobre scorso tenta in qualche modo di irrobustire i «motivi di legittimo sospetto», precisando che a determinarli sono «gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili». Ma sino a che resta indeterminato l’esito - il legittimo sospetto che giustifica la rimessione - serve a poco individuare i prodromi, dato che nella lettura complessiva della norma il primo interagisce coi secondi, determinandone l’effettiva estensione. In altri termini, quelle stesse turbative allo svolgimento del processo che, riferite alla ‘libertà di determinazione delle persone’ o alla ‘sicurezza’ o ‘incolumità pubblica’, acquistano contorni ben precisi, cadono inevitabilmente nel vago se assunte come fonti di ‘legittimo sospetto’. Il rischio della circolarità sarà qui sempre in agguato: a determinare il legittimo sospetto sono gravi situazioni, tali da turbare lo svolgimento del processo. Ma cos’è che può turbare lo svolgimento del processo? Ciò che determina ... legittimo sospetto. Non sarà facile in concreto garantire autonomia ai due concetti: la prova di un fattore perturbante del processo è, al tempo stesso, prova di legittimo sospetto e viceversa, con incessante riflessività.
Qualcuno osserva che anche il pregiudizio alla «libertà di determinazione delle persone [...]» può in molti casi riuscire indecifrabile, di difficile accertamento. Senza dubbio, ma questo attiene al tema della prova, non alla costruzione della fattispecie che è semanticamente ben definita (assumiamo qui la chiarezza del linguaggio come un ideale regolativo, sapendo che a un certo livello tutte le espressioni sono vaghe). C’è un’abissale differenza tra una fattispecie, di cui sia arduo fornire la prova sino all’ultima molecola, e una fattispecie dai contorni indefiniti, fuzzy, o il cui senso resti incerto. ‘Legittimo sospetto’ appartiene alla seconda categoria, in quanto può significare tutto e niente; è l’equivalente, sul terreno processuale, di una fattispecie incriminatrice imperniata sul concetto di ‘nemico del popolo’. Con simili parametri il giudice si trova investito, suo malgrado, del potere di assumere opposte decisioni davanti allo stesso materiale probatorio; la nuova disciplina non si cura nemmeno di precisare l’oggetto, ciò su cui dovrebbe vertere il legittimo sospetto.
Non solo. La circostanza che la categoria del legittimo sospetto non sostituisca, ma si aggiunga a quella del pregiudizio alla ‘libera determinazione delle persone che partecipano al processo’, aggrava la lesione costituzionale; proprio il permanere di questa ipotesi di rimessione, analiticamente individuata, svela per contrasto una mens legis palesemente orientata a mantenere indeterminata la nozione di legittimo sospetto. Beninteso, è possibile che la giurisprudenza riesca in sede interpretativa ad agganciarla a schemi più precisi, secondo l’indirizzo già espresso dalla Corte costituzionale; ma si possono facilmente immaginare le polemiche che si scateneranno ad ogni tentativo di concretizzazione (ne offre un eloquente saggio la mozione approvata il 5 dicembre 2001 dal Senato, in rapporto all’interpretazione della legge sulle rogatorie).
Suona grottesca in questo quadro l’accusa che spesso si rivolge ai critici della ‘Cirami’, di mostrare un’ingiustificata diffidenza verso la Cassazione chiamata a decidere sulla dislocazione del processo. Quel che deplorano costoro non è certo la libertà di valutazione del giudice; è il singolare capovolgimento di rapporti tra legislatore e giudice che si registra nei progetti presentati da esponenti dell’attuale maggioranza. Sul terreno della fattispecie da provare, dove sarebbe auspicabile la massima precisione delle formule legislative, la disciplina qui in esame lascia vago ed indeterminato il presupposto per la rimessione; per converso, nella valutazione delle prove sui fatti da accertare, dove il legislatore dovrebbe astenersi dall’intervenire, il progetto Pittelli appesantisce di nuovi criteri legali il già variegato testo dell’art. 192 c.p.p., a scapito di un razionale convincimento giudiziario.

3. Altrettanto eccepibile la disciplina della sospensione obbligatoria, per effetto della quale «il giudice deve comunque sospendere il processo prima dello svolgimento delle conclusioni e della discussione e non possono essere pronunciati il decreto che dispone il giudizio o la sentenza». Qui le ragioni di perplessità derivano dalla sentenza costituzionale n. 353 del 1996 che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 47 comma 2 c.p.p. «nella parte in cui fa divieto al giudice di pronunciare la sentenza sino a che non sia intervenuta l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta di rimessione».
Non pare sufficiente ad attenuarle il fatto che, nella versione definitiva della legge, l’effetto sospensivo abbia luogo solo quando il giudice di merito «ha avuto notizia dalla Corte di cassazione che la richiesta di rimessione è stata assegnata alle sezioni unite ovvero a sezione diversa dall’apposita sezione di cui all’articolo 610 comma 1»; né la circostanza «che il giudice non dispon[ga] la sospensione quando la richiesta non è fondata su elementi nuovi rispetto a quelli di altra già rigettata o dichiarata inammissibile».
Anzitutto, è censurabile che si colleghi ad un provvedimento puramente organizzativo del Presidente della cassazione una conseguenza sulla giurisdizione, come la sospensione del processo (cfr. il comunicato dell’ANM dell’11 ottobre 2002). Sul piano poi dell’efficacia dei rimedi, tanto il vaglio di ammissibilità del Presidente, quanto il controllo del giudice sulla ‘novità’ della richiesta sono ben lungi dal rappresentare una solida barriera di fronte a richieste puramente dilatorie o pretestuose. Non occorre grande perizia per allestire un’istanza formalmente ineccepibile, seppure in concreto destituita di ogni fondamento; né la parte sarà così stolta da riproporre la domanda sulla base di identici motivi.
In un simile contesto, non è azzardato pronosticare un notevole incremento delle richieste di rimessione, a causa della sinergia tra la previsione del legittimo sospetto e la sospensione obbligatoria nella fase finale del dibattimento; inevitabili le ripercussioni negative sulla ragionevole durata dei processi, valore costituzionalmente tutelato dall’art. 111.

4. Veniamo al regime transitorio. «La presente legge si applica anche ai processi in corso e le richieste di rimessione, che risultano già presentate alla data di entrata in vigore della legge, conservano efficacia». Chiaro il senso della prima parte, alquanto oscuro quella della seconda, su cui rifletteranno i cultori dello slogan ‘la legge non si interpreta, si applica’. Due le letture sinora prospettate: per l’una, l’effetto della norma è di ancorare il giudizio sulle richieste già presentate al regime vigente al momento della presentazione (quindi agli originari presupposti della rimessione, salva restando la possibilità di presentare una nuova richiesta); per l’altra, al contrario, l’effetto è di estendere i nuovi parametri di valutazione anche alle richieste già presentate.
E’ difficile sostenere che la clausola aggiunga qualcosa a ciò che risulta dalla frase precedente, ma altrettanto pretendere che ne riduca gli effetti. Più plausibile, a nostro avviso, che sia semplicemente vuota. E’ del tutto ovvio, infatti, che le richieste già presentate conservino efficacia, essendosi ampliato l’ambito della rimessione. Il problema riguarda i criteri da seguire per la loro valutazione. Se la legge si applica ai processi in corso, significa che dal momento della sua entrata in vigore ogni atto è regolato dalle nuove disposizioni, salvo espresse deroghe; e in questa chiave è ragionevole concludere che la valutazione delle richieste già presentate debba svolgersi secondo i canoni vigenti al tempo della valutazione stessa (quindi, secondo la nuova disciplina).
Problematica anche la parte finale della disposizione transitoria. «Il Presidente della Corte di cassazione, salvo che per esse [le richieste già presentate] non rilevi una causa d’inammissibilità e non disponga quindi procedersi applicando l’art. 610, comma 1, del codice di procedura penale, dispone per l’immediata comunicazione di cui all’articolo 48, comma 3, del codice di procedura penale». Nulla quaestio per le richieste non ancora assegnate alle sezioni unite o a una singola sezione; a meno che rilevi una causa di inammissibilità, il Presidente darà immediatamente al giudice del merito la comunicazione dell’avvenuta assegnazione alle sezioni unite o alla singola sezione, con l’effetto sospensivo di cui si è detto. Ma per le richieste già assegnate, quale il regime? Qui non ha senso postulare un vaglio di ammissibilità da parte del Presidente, come predica quel ‘salvo che…’. Bisogna allora concludere, come qualcuno ha sostenuto, che non debba avere luogo né l’immediata comunicazione né la relativa sospensione?
E’ una tesi suggestiva, conforme al principio del tempus regit actum, perché riconduce il regime sospensivo a quello vigente al momento del vaglio di ammissibilità; dunque, pienamente in linea con l’esordio della disposizione transitoria che recepisce quel principio. Ma la perentorietà della frase conclusiva - il Presidente «dispone per l’immediata comunicazione di cui all’articolo 48, comma 3, del codice di procedura penale» - suggerisce un’inedita efficacia retroattiva, con l’obbligo della comunicazione anche per le richieste già assegnate alle sezioni unite o a una sezione diversa dall’apposita sezione ex art. 610 comma 1 c.p.p.
Quanto all’inciso - «salvo che per esse non rilevi una causa d’inammissibilità ...» - non pare che questa ipotesi interpretativa lo contraddica, fermo restando il rapporto altamente problematico tra le due componenti della disposizione, davvero sibillina. Più semplicemente, per le richieste già assegnate, non si realizza il presupposto applicativo della clausola di salvezza. Il presidente ‘non rileva’ l’inammissibilità perché non è più autorizzato a rilevarla, essendo già stata assegnata la richiesta. Né sembra significativo che l’inciso non aggiunga parole come «o abbia rilevato una causa d’inammissibilità …»; superfluo dirlo, essendo la comunicazione incompatibile, per il suo stesso contenuto, con l’avvenuta assegnazione della richiesta all’apposita sezione per l’inammissibilità. Si ripropone così, esaltata all’ennesima potenza, l’anomalia già denunciata di una sospensione del processo collegata ad un atto puramente organizzativo del Presidente della cassazione.

5. Resta da chiedersi se sia legittima l’applicazione della legge ai processi in corso. Per intanto escludiamo che a giustificarla possa essere l’incostituzionalità della disciplina sinora vigente, di cui si è già sottolineata la piena conformità alla regola del giudice precostituito; illegittime, nella prospettiva qui seguita, sarebbero semmai, alcune disposizioni della nuova legge. Ma assumiamo a titolo di ipotesi che tanto la vecchia quanto la nuova disciplina siano in sé costituzionalmente ineccepibili o, per lo meno, entrambe riconducibili alla sfera di ciò che tollera la costituzione (indipendentemente da quale risulti preferibile); e rinnoviamo su questa base il quesito di legittimità sull’immediata applicazione.
Sono note le divergenti posizioni della giurisprudenza costituzionale e della dottrina dominante. Quest’ultima riferisce, a nostro avviso con pieno fondamento, la pre-costituzione al tempus commissi delicti, con la conseguenza che ogni legge che alteri il sistema delle competenze – e, a maggior ragione, i presupposti della rimessione, strutturalmente operativa nel corso del processo - dovrebbe applicarsi solo ai procedimenti relativi a reati commessi successivamente alla data di entrata in vigore della legge medesima (così, ad esempio, l’art. 8 della l. 2 dicembre 1998 n. 240 "Disposizioni per i procedimenti riguardanti i magistrati", che ha sostituito l’art. 11 c.p.p.). Meno severa, la giurisprudenza della Corte costituzionale tollera l’immediata applicazione delle leggi modificatrici delle competenze, purché non si tratti di giudice individuato «in vista di singole controversie».
La domanda cruciale diventa allora questa. La legge Cirami ha modificato i presupposti della rimessione e, quindi, il sistema delle competenze, in vista di singoli processi? In un certo senso, lo dicono anche i suoi sostenitori: la legge nasce dalle ‘anomalie’ dei processi milanesi; e nella stessa relazione al ddl Cirami il collegamento è chiaro, seppure mediato dall’esigenza di colmare un vuoto di garanzie denunciato dalla Cassazione. Ma è sufficiente tutto ciò a provare che il sistema delle competenze sia stato modificato ‘in vista di singoli processi’, pur essendo la legge operativa per tutti gli imputati? Assumeranno rilievo a questi fini le febbrili tappe dell’iter legislativo, le dichiarazioni dei parlamentari, la cronologia delle istanze difensive nei processi milanesi?
Seppure investita della questione, è difficile pensare che la Corte censuri per simili ragioni il regime transitorio; il divario tra verità storica e formale probabilmente rimarrà abissale. Si può, semmai, sperare che i giudici costituzionali rivedano il proprio insegnamento sul rapporto tra precostituzione e immediata applicabilità delle leggi modificatrici delle competenze. Restano infine - sorrette, come si è visto, da solidi argomenti - le censure relative alla vaghezza della formula ‘legittimo sospetto’ e al meccanismo di sospensione obbligatoria del processo; è auspicabile che siano al più presto sollevate le eccezioni di legittimità costituzionale.

Paolo Ferrua