Alcuni dicono che quando è detta la parola muore. Io dico invece che proprio quel giorno comincia a vivere Emily Dickinson, Silenzi: 1212
CITAZIONI "Le parole sono pietre" (Carlo Levi)
Alla radice del verbo citare troviamo questi significati: "muovere, chiamare"; "porre in movimento". La citazione è, dunque, un testo breve che punta a muovere chi ne resta colpito suo piano emotivo e intellettuale. In questa pagina scriviamo alcuni frammenti che ci hanno fatto soffermare. L'elenco è disorganico e frammentario: come dovrebbe sempre essere una intenzione in itinere. |
adattarsi Sistemare una stanza Durata: intermittente Materiale: alcune stanze Effetto: adattarsi Moquette e carta da parati, piastrelle e intonaco, impianto elettrico, fasci di luce, porte, finestre, tende, cuscini, mobili, piante... Bisogna decidere il posto degli oggetti, il colore e lo stile. Ciò che è interessante è che non si sa come fare. Imparate ad ascoltare quello che dice la stanza. Ogni luogo vuole una certa forma e una certa sistemazione. Non si può averne una conoscenza globale né razionale. È come se in ogni posto lo spirito del luogo parlasse una propria lingua, che voi dovete imparare utilizzando le vostre risorse. Bisogna quindi lasciarsi impregnare dalle caratteristiche del luogo: volume, luci, superfici, materiali, trama. E poi procedere a tentoni. Una buona sistemazione non nasce mai da una prima intuizione. Bisogna procedere per approssimazione, passo dopo passo, per tentativi ed errori. Saper tacere e dimenticare, riscoprire, agire al di là delle parole e delle rappresentazioni. Non completamente in modo teorico e astratto. Posate un colore e gli altri tutt'intorno si trasformano. Mettete un mobile e i volumi cambiano, talvolta anche i colori e le luci. Ogni cosa è sempre in stretto rapporto con il resto. Per questo non dovete lasciarvi ingannare, quando non conoscete esattamente l'itinerario da seguire. L'esperienza obbedisce a regole ogni volta diverse. Voi dovete lasciar fare e agire al tempo stesso. Siete voi al centro delle manovre, ma avrete successo se non im¬porrete nulla. D'altro canto le conseguenze di questa relativa passività saranno in ragione di quello che siete. Ciò che il luogo suggerisce, ciò che esige su misura non è evidentemente identico per tutte le persone: il luogo è la guida, ma siete voi il conducente e non qualcun altro. Non state quindi soltanto arredando una stanza, ma anche voi stessi. Questa esperienza vi insegna che siete parte integrante dell'ambiente che vi circonda. Non un attore, o un architetto, insomma una volontà esterna che decide solo delle apparenze. Siete un elemento della stanza ed essa diventa uno degli elementi del vostro essere. Se qualcuno vi dice «come è bella la tua casa», potrete percepirla come una banalità oppure pensare che la verità alla lunga produce qualche effetto.
Roger - Pol Droit, Piccola filosofia portatile. 101 esperimenti di pensiero quotidiano, Rizzoli, 2001 amicizia Quello che ci piace negli amici è la considerazione che hanno di noi. Tristan Berbard AMICIZIA EROTISMO MASCHIO FEMMINA L'amicizia fra un uomo e una donna è sempre un poco erotica, anche se inconsciamente. Jorge Luis Borges ammalarsi Con quella che sul mio polmone fu detta ombra, un'ombra era di nuovo calata sulla mia esistenza AMORE CONIUGALE John Donne
Nel letto accompagnando la sua Donna
Vieni o Signora mia, che le mie forze per te operose si faranno, e intente nel lavoro saranno, a tanto impegno. Il nemico, quando un nemico avvista si sfianca in ozio, pur senza lottare. Via quella tua cintura scintillante, stellato ciel, su cielo ancor più vago, via quel velo dai seni, che ti cela a difesa di sguardi intenti e sciocchi. E armoniosa, deponi ogni legame, che è giunto il tempo di letto d'amore. Via quel divino busto, invidia mia, perchè per sempre può averti vicino. Cada la veste e il dolcissimo corpo mi si riveli, come quando l'ombra dal colle scema e mostra i prati in fiore. Via quei fermagli dai capelli, sciogli il diadema di chiome sul tuo capo. Via quei calzari e penetra nel sacro mio letto, soffice tempio d'amore. In bianche vesti gli Angeli celesti erano attesi dagli uomini, ed Angelo anche tu sei, che mi riveli un cielo qual'è di Maometto il paradiso. E sebbene gli spettri ci confondano biancovestiti, pure agevolmente da questi Angeli noi li distinguiamo: perche quelli ci rizzano i capelli e questi invece, divini, la carne.
Consenti alle mie mani accarezzare e dietro e avanti, e in mezzo, e il sopra e il sotto. Oh tu America mia, mia Nuova Terra, mio regno tanto più difeso, quanto più da me solo, uomo a presidiare. O mia miniera di gemme, mio Impero ed io beato qui, a discoprirti! Essere liberi è legarsi in vincolo e in tal sigillo porrò la mia mano.
O nudità completa, di ogni gioia umana sei tu causa prima e vera. E come l'anima incorporea va, così il tuo corpo senza veli avrà eterna perfezione. E quei diademi con cui vaghe voi donne v'adornate aurei pomi son come d'Atalanta gettati per inganno avanti a un uomo folle, attirato più da fredde gemme che da colei che ardente li esibisce. Come pittura, o come legatura di libro è l'indumento di una donna: lei dentro, sola, è mistica scrittura che a noi degnati da divina grazia sua rivelata, ammirare possiamo. E dunque a me, affinchè possa vedere, te stessa mostra come a levatrice, lentamente spogliandoti di tutti quei bianchi lini, perchè all'innocenza mai più s'imponga alcuna penitenza.
Io nudo, amore a te insegno e perchè allora stai, più vestita di me? amore relazione «E un’altra volta, ancora in quel viaggio, durante la traversata di quello stesso oceano, anche quella volta era già notte, nel salone del ponte principale, l’esplosione di un valzer di Chopin che lei conosceva in modo segreto e intimo, perché per mesi aveva tentato di impararlo e non era mai riuscita a suonarlo bene, mai, tanto che poi sua madre le aveva permesso di non studiare più il pianoforte. Quella notte, perduta tra tante e tante notti, la ragazza, di questo era certa, l’aveva trascorsa su quella nave e c’era quando ciò era successo, quando era esplosa la musica di Chopin sotto il cielo luminescente. Non c’era un alito di vento e la musica si era propagata per tutto il piroscafo buio, come un’ingiunzione del cielo, come un ordine divino dall’ignoto significato. E la ragazza si era alzata come per andare a uccidersi a sua volta, a buttarsi a sua volta in mare e poi aveva pianto, perché aveva pensato all’uomo di Cholen e tutto a un tratto non era più sicura di non averlo amato, solo che quell’amore non l’aveva visto perché si era perso nella storia come acqua nella sabbia e lei lo ritrovava soltanto ora, nell’istante della musica sul mare». (MARGUERITE DURAS, L’amante) amore relazione Platone: «Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. E’ allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vari presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio» ANIMALI Gli animali sono amici così simpatici: non fanno domande, non muovono critiche. ANIMALI CAPRE Due capre
Capra dal muso affilato e occhi d'ambra; capra che cambia in poche ore la fisionomia di un caprifoglio, in mattinata turgido di gemme e adesso spoglio. Capra che fai la guardia a una casa che non è mai stata abitata: tu sei sorella inconsapevole di un totem - un'altra capra che veglia casa mia, però impagliata. Il naturale vigila sul vuoto, solitario; mentre l'uomo sgrana con l'artificio il suo rosario.
In Marcoaldi Franco, Animali in versi, Einaudi, 2006, p.8 ARTE MUSICA Non abbiamo altro scopo, per quanto mi riguarda, che riflettere il nostro tempo, le situazioni intorno a noi e le cose che sappiamo dire con la nostra arte, le cose che milioni di persone non sanno dire. Penso che questa sia la funzione dell'artista e, naturalmente, chi di noi è così fortunato, lascia un'eredità che sopravvivrà quando non ci saremo più". (N. Simone) ascoltare Tom Waits è uno che canta e nella sua voce ci sono le voci di tutti i barboni ubriaconi del mondo. Non è una voce, è una discarica pubblica, è una sigaretta lunga anni, è milioni di birre e chilometri, e centinaia di amori e motel. E' una voce delle più emozionanti che vi può capitare di ascoltare ascoltare Ci racconta qualcosa di Duke Ellington ? "Duke era unico perché riusciva a darti un'idea visiva della musica che bisognava seguire per meglio entrare nella composizione. Il suo spartito non conteneva soltanto note, ma anche una storia da raccontare, con cui immedesimarsi. Se per esempio bisognava eseguire un brano come African Flower, Ellington ti diceva che suonando dovevi immaginare il più bel fiore della foresta, un fiore vergine che non aveva toccato mai nessuno" ascoltare Senza musica la vita sarebbe un errore Friedrich Nietzsche ascoltare STRANGE FRUITS "Gli alberi del sud partoriscono strani frutti, sangue sulle foglie e sangue nelle radici" BELLEZZA La bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le contempla ed ogni mente percepisce una diversa bellezza. David Hume BIOGRAFIA MORTE Memorie di Adriano 555 - Adriano imperatore
L’autrice racconta, o meglio fa raccontare in prima persona, ad Adriano la propria vita e ne raccoglie le impressioni, quando l’imperatore e’ ormai prossimo alla morte e scrive al figlio adottivo Marco Aurelio. L’imperatore esprime i suoi pensieri piu’ intimi, le sue citazioni sui riti religiosi (rimase particolarmente colpito e influenzato dal culto del dio Mitra), e rivive la sua giovinezza lontano da Roma, al seguito degli eserciti Romani. Adriano sa di dover morire ed aspetta questo evento, pronto a riceverlo. La lettera che egli scrive al figlio adottivo e’ lo sfogo (comprensibile) di un uomo che non puo’ piu’ segurie gli affari dell’Impero, ormai svuotato di ogni energia, e traspare nell’imperatore , nell’uomo, la sofferenza di un malato che libera i ricordi. Adriano rivisita i momenti importanti e significativi del suo lungo regno (21 anni), partendo dai rapporti e dalla confidenza che lo legava alla amica-madre Plotinia, proseguendo con il racconto delle sue campagne militari, dei viaggi, dei luogi visitati e che lo colpirono particolarmente (Asia minore, Bitinia, la citta’ di Nicomedia, ect.). Esprime pensieri e giudizi sulla sua famiglia, sui libri, sullo “sport” allora piu’ in voga: la caccia. Ci parla delle sue dissertazioni filosofiche, dei suoi amori, dei rapporti con l’imperatore (e padre adottivo) Traiano, del suo matrimonio non felice. La Yourcenar fa raccontare la suo protagonista la sua esperienza umana, ricchissima, di un uomo che facendo tesoro di ogni esperienza vissuta nei sui 21 anni di regno diventa uno statista, arricchito dall’emergere della verita’ interiore che l’imperatore aveva conquistato. La scrittrice in questo romanzo che puo’ sembrare solo epistolare, rida’ vita a poco a poco alla personalita’ di Adriano, alla sua grandezza, all’ambiente nel quale visse piu’ di 2000 anni fa’. L’imperatore negli ultimi giorni di vita esamina le debolezze del suo spirito, fa considerazioni sulla sua esistenza, ed esprime sentimenti di gratitudine per le poche persone che gli sono sempre state vicine e che non l’abbandonano nemmeno negli ultimi dolorosi e disperati momenti della sua vita. Chiudo questa recensione ricordardo i versi composti dall’imperatore Adriano poco prima di morire: “Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora ti appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai piu’ gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che ceramente non vedremo mai piu’… cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti…”
(Marguerite Yourcenar - Memorie di Adriano - Ed. Einaudi) biografia politica storia Agli uomini senza ambizioni politiche, senza particolari doti d’ingegno, senza relazioni influenti, cioè senza possibilità di scambio o di scampo, che caddero oscuramente, mossi da elementari bisogni e da elementari ideali. A questi uomini che in morte come in vita non ebbero mai né chiesero quartiere, e di cui la storia, che pure di essi soprattutto si nutre, disperde prudentemente le tracce.
Luca Canali, in Resistenza impura, Mondadori BLOG Quindi, scrivo un diario on-line e in qualche modo mi racconto a persone che non mi conoscono. Lo facevo anche prima, ma scrivevo in quaderni che ora ho abbandonato anche perché è più facile scrivere direttamente sulla tastiera del pc. No che non ti posso spiegar tutta la tecnologia, ma conto sulla tua intelligenza e la tua capacità di comprendere, di là dalle mie righe. Insomma nonno, scrivo io, scrive un altro e un altro ancora e ci conosciamo per caso on-line. In queste situazioni ognuno fa come si sente, personalmente scrivo alle persone che mi sembrano simpatiche e che non si dimostrano troppo diffidenti. Sono due presupposti importanti per un’amicizia. No che non la capisco la diffidenza in rete, sto attenta anch’io, ma non troppo, come in tutte le cose che voglio sperimentare nella vita. BLOG sono attirato come un'ape laboriosa ai blog o post che hanno più il tono del "diario pubblico". inoltre sono interessato a questo "ragionare sullo strumento" (il blog ) mentre lo si usa. non sono in grado ancora (bisognerebbe farlo in modo più sistematico) di intravvedere i tipi di blog che le persone fanno. però qualche idea me la sono fatta. c'è il blog-diario. è quello più caldo c'è il blog -invettiva. conviene starci alla larga c'è il blog-informazione. talvolta più interessante di una enciclopedia c'è il blog-gioco. talvolta con regole così complicate che ci vorrebbero ore per giocarci ... il blog-poesia ...il blog-musica e naturalmente altri ancora. e intrecci fra i vari tipi una cosa è certa: i blog sono una espansione della nostra soggettività. sono dei modi per coltivare se stessi. per certi versi sono drammatici: parlano della nostra solitudine. esseri soli, in epoca di decadenza delle grandi aggregazioni sociali, che hanno voglia di esprimere se stessi attraverso delle identità protettive. delle maschere comunicanti. dall'altra parte espandono la comunicazione. si fanno incontri insperati. si allarga il giro delle conoscenze. la reciproca conoscenza non è più coloro che ci sono vicini. ma è l'intera italia. BLOG Sui Blog In quanto vivente nella modernità vivo non solo il politeismo dei valori, ma anche quello dei ruoli e delle situazioni. Ma se dovessi ricordare per il futuro la "cifra" di questi mesi dovrei riferirla alla mia avventura sui Blog. E alla mia vorace curiosità per questa forma di comunicazione biografica resa possibile dalle tecnologie del Web. Sull' argomento ho avuto una interessante discussione con Ruckert che vorrei fissare anche nel mio blocco degli appunti.
Paolo a Ruckert Mi è piaciuta la tua rievocazione biografica sul Blog del 14 aprile . Volevo dirti subito - in breve - perchè trovo di grandissimo interesse culturale i Blog. Perchè credo che attraverso questi scritti e nei commenti stia avvenendo una rivoluzione. Cioè la costruzione di una intelligenza associativa. Ossia l'elaborazione di nuovi modi di pensare il mondo attraverso piccoli francobolli che fanno vedere le associazioni fra gli eventi e la loro interpretazione. Qualcosa che ha un equivalente storico solo con la nascita della "opinione pubblica" che è avvenuta con l'illuminismo francese. Nei blog vedo cultura, interessi, passioni. Tutte spezzettate: ma questa è la modernità. La modernità è frammento. Solo ogni singolo individuo può tentare di "mettere assieme". Così i tuoi foglietti ne cassetti possono uscire. E magari incuriosire qualcuno .. che così incontra altri pensieri ... Una grandissima rivoluzione. Tanto più profonda perchè molecolare. Con i blog si vede vistosamante che non c'è la "massa" (il riferimento-base dei fascismi e dei comunismi) ma individui pensanti che associano le loro intelligenze e sentimenti.
Ruckert: l'idea reticolare nella diffusione delle idee è interessante, bisognerà capire se e come prenderà piede, se non c’è il rischio che la rete possa imprigionare piuttosto che liberare, magari inserendoci in piccole comunità autoreferenziali. Il rischio, inutile negarlo, esiste come la potenzialità. Come spesso accade il problema è bilnaciare le due cose e fare in modo che da questa babele di passione interessi ideali possa venir fuori una massa critica (o magari diverse masse critiche) di maggiore respiro. Anche qua il tempo ci risponderà, per ora possiamo solo immaginare... Ciao :)
Paolo: "se non c’è il rischio che la rete possa imprigionare piuttosto che liberare, magari inserendoci in piccole comunità autoreferenziali" E' vero. Allora l'unico ragionamento possibile è: qual'è il minore dei mali? LE autoreferenzialità? o il pensiero unico (insisto: quello delle culture totalitarie)? Propendo per il primo corno del dilemma. Trovo più libertà di pensiero in piccoli gruppi che condividono più comuni sentire. Il vero problema lo vedo nella possibile superficialità dei contatti. Relazioni sociali basate su "francobolli" tendono ad impoverire i significati di conoscenze più profonde e complessive. Ciao Amalteo
Ruckert: vero, ma se ci fosse la terza via? L'ideale sarebbe combattere l'aureferenzialità in modo tale da ampliare sempre di più le piccole comunità che poi interagendo tra loro riescono a fare quella massa in grado di sviluppare la circolazione delle idee, che ne pensi?
Paolo: Caro Ruck, questa volta temo che o non siamo in sintonia o non ci capiamo. E' la parola massa che mi incute timore, pensando al passato, soprattutto al secolo breve (1917-1945). Meglio infinitamente meglio individui che comunicano. Parlanti che crescono individualmente sulle normali sfide di una normale vita: nascita, crescita, espansione della personalità, fatica del lavoro, accettazione della morte. Nella massa c'è sempre bisogno di un capo. Come insegna anche la vicenda politica italiana: un popolo televisivo (non i parlanti dei blog) ha ancora acclamato un capo. Che non accetta le regole della democrazia. Ben sapendo che le televisioni sono sufficienti a creare qual "senso comune" che gli consentirà (probabilmente grazie a Bertinotti) di vincere per la terza volta. La televisone fà massa, i blog possono fare individui che trovano quei comuni sentire basati sul'intelligenza associativa. Ciao e grazie per gli stimoli a pensare
Ruckert: Non credo che non siamo in sintonia forse bisogna solo capirsi. Proviamoci magari partendo da un linguaggio comune perché bisogna intendersi sul senso delle parole. Al termine massa critica non voglio dare quel significato. Preferisco immaginare che l'insieme, anzi meglio la presenza sempre più numerosa di individui che comunicano e interagiscono tra loro crescendo individualmente, possano consentire un miglioramento qualitativo della società nelle sue diversità. Più la massa dei pensieri liberi aumenterà, più sarà possibile avere un miglioramento, a condizione però che tutti questi individui mantengano il più possibile un atteggiamento aperto verso l'esterno, in modo tale anche da far sviluppare in modo reticolare questo modello. E questa massa a differenza del passato potrebbe non avere necessità di un capo gerarchicamente sovraordinato proprio per la presenza di un reticolo che si muove orizzontalmente. Che dici? Siamo davvero così distanti? Ciao :)
Paolo: caro Ruck. Era proprio un malinteso linguistico sulla parola "massa". Sono del tutto in accordo con il tuo ragionamento. Fra l'altro, nel tuo caso, non è solo un "ragionamento" ma una pratica attiva. La tua intelligenza e capacità di pensiero la vedo sempre messa in atto nelle tue interazioni con amìci di vecchia data o occasionali. Ti sei costruito con loro un cerchio-reticolo in cui amplificate le vostre esperienze ed i vissuti. Ecco la forza dei blog: una rivoluzione attraverso il parlarsi. Insomma una volta tanto la scienza e le tecniche possono essere utilizzate in modo attivo e partecipato. Dati i tempi che continuano ad essere piuttosto crudeli è davvero molto. ciao, a presto
MariaPrivi ad agosto sarà un anno che frequento il mondo bloggaro. Tempo di consuntivi? Ma no! Non ci credo. Solo un momento per conversare. Il blog è uno specchio abbastanza fedele dei tanti pubblici "reali". Un mezzo con buone peculiarità ed inevitabili difetti. Permette rapida, ed a volte mirata circolarità delle idee, ma si rischia di ricevere informazioni errate. Eppure da Alex, con i blog, abbiamo ottenuto persino risultati concreti -vedi da me: Come muore la mia terra-. Io con il blog faccio di tutto: amicizia, lavoro, passatempo. Per alcune persone può diventare indispensabile (vecchi, persone sole, persone con bisogno ed impossibilità di comunicare altrimenti), per altre una droga (autoreferenzialità, sindrome del contatore, sostituzione impropria del virtuale con il reale), c'è chi lo adopera per raccattare sesso e chi per suscitare compassione. Un buon mezzo, un cattivo mezzo, secondo l'uso -sia attivo, sia passivo- che se ne fa. Un mezzo sicuramente in linea con il carattere del nostro tempo.
Paolo condivisione piena, cara mariaprivi. Ben ritrovata! Mi fa immenso piacere che anche tu valuti positivamenta la rivoluzione comunicativa dei Blog. Condivido tutto, ma proprio tutto, quello che dici: luogo innanzitutto di conversazione; specchio fedele (quasi un campione) della opinione pubblica; rapidità nella circolazione delle informazioni; nuovi tipi di amicizia, non basata sulla vicinanza fisica, eppure forte ed affettuosa; spazio comunicativo per le persone sole anziane (direi anche: allenamento del cervello e quindi prevenzione della decadenza della memoria); compulsività per alcuni (è vero: però meno dannosa dei telefonini, perchè è mediata dalla lingua scritta, che è sempre un esercizio di ordine); certo anche luogo per promuovere incontri sessuali (che, però se consenzienti e sicuri, sono una gioia della vita). Vero, verissimo: un mezzo, uno strumento. Non un fine. Uno strumento al servizio della personalità. Dei blog amo moltissimo le coincidenze (incrociare persone particolari che magari mai avrei potuto conoscere) e le occasioni. Per esempio in queste ore sul blog di ruckert (post Gotan project) sta avviandosi la stesura di una discografia jazz interattiva che potrebbe concludersi con un testo quasi collettivo su questo genere musicale del novecento. ciao carissima. a pres BLOG "Cosa si fa sui blog?” chiese Incredulo
"Sui blog si fa conversazione!" rispose Sperimentatore
Questo dialoghetto tra Amalteo e SurferRosa mi ha fatto ricordare alcuni frammenti e citazioni tratte dal libro di Dacia e Fosco Maraini, Il gioco dell’universo. Le lascio qui.
“Fosco era uno sperimentatore nato. Il campo dei suoi esperimenti era il linguaggio. Quasi mettendo in pratica la famosa frase di Roland Barthes: “Ogni rifiuto del linguaggio è una morte”. Con la morte lui ci giocava a rimpiattino: le parole gli rivelavano i nascondigli più sicuri, più impensabili per tenerla a bada. Ma rivela anche altro questa passione, come dice T.S. Eliot nel saggio del Bosco Sacro dedicato a Philip Massinger, ovvero che una evoluzione vitale del linguaggio è anche una evoluzione del sentimento. Quindi non gioco di superficie, fine a se stesso, ma scavo, attraverso la lingua scritta, nella terra dura del pensiero. […]
… Il linguaggio comune, salvo rari casi, mira ai significati univoci, puntuali, a centratura precisa.
Nel linguaggio metasemantico invece le parole non infilano le cose come frecce, ma le sfiorano come piume, o colpi di brezza, o raggi di sole, dando luogo a molteplici diffrazioni, a richiami armonici, a cromatismi polivalenti, a fenomeni di fecondazione secondaria, ed è facile vedere i “duomi del pensiero” che si muovono lenti spinti dai “moti più segreti”.
Nel linguaggio comune dinanzi a cose, eventi, emozioni, pensieri nuovi, o ritenuti tali, si trovano suoni che danno loro foneticamente corpo e vita, che li rendano moneta del discorso.
Nel linguaggio metasemantico, o nella poesia, avviene proprio il contrario. Si propongono dei suoni e si attende che il proprio patrimonio d’esperienze interiori, magari il proprio subconscio, dia loro significati, valori emotivi, profondità e bellezze. E’ dunque la parola come musica e come scintilla.
… La parola è come una caramella, qualcosa da rigirare tra lingua e palato con voluttà, a lungo, estraendone fiumi di sapori e delizie.
… Parole belle, parole brutte, parole misteriose, parole semplici, parole complesse, parole didascaliche, parole poetiche, parole logiche, parole in libertà… . […]
… Fosco confesserà inoltre che quasi ogni sua parola è frutto d’un lungo studio. Certe espressioni proprio non gli venivano per mesi, sapeva quello che cercava, ma il sassolino giusto la marea non glie lo gettava mai sulla spiaggia. Poi un certo giorno, magari facendosi la barba, cambiando una gomma della macchina, studiando gli ideogrammi cinesi o seduto nella neve al sole, eccoti il sassolino cercato. Adesso gli resta solo da sperare di non aver scritto in una lingua privata e segreta, come dire per lui solo; ciò che proprio gli dispiacerebbe.
… La tensione poetica accompagnerà Fosco per tutta la vita. Ma non scriverà molti versi. La sua scrittura tendeva allo scientifico e allo storico. Eppure la gioia della poesia si insinua spesso anche fra i suoi più cocciuti elenchi. La poesia come gioco verbale, la poesia come affrancamento di una fantasia troppo costretta e razionalizzante, la poesia come alta acrobazia verbale, la poesia come gioco che si gioca. Tale la troviamo in questa fànfola:
Il giorno ad urlapicchio
Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col cielo dagro e un fònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plògidan sul mondo infrangelluto,
ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi
un giorno tutto gnacchi e timparlini,
le nuvole buzzìllano, i bernecchi
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;
è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,
è il giorno a cantileni, ad urlapicchio
in cui m’hai detto “t’amo per davvero”.
Ma cosa sono le fànfole? Fosco rispondeva con una citazione da Palazzeschi.
“cosa ci hanno con noi quelle due sbrèndole, quelle ciufféche, quelle cirimbràccole?” – Palazzeschi
La fànfola è una forma dialettale, un ghirigoro linguistico, un grammelot finissimo ed esilarante che fa esplodere il linguaggio dall’interno, mostrando le sue contraddizioni, le sue povertà e le sue ricchezze. Rivelando soprattutto quanto il suono spesso prevalga sul significato, il fonema sul semantema.
… Ah, la magia delle parole! Che non smettono mai di sorprendere, di cicalare, di ridere, di manifestarsi e poi sparire nel nulla.
… E alla fine di tutte le nostre “esplorazioni” arriveremo dove abbiamo cominciato e per la prima volta conosceremo il “posto”. (T.S. Eliot)
Così Fosco accumulava parole con la pazienza di un grande camminatore della mente.”
Allora:
“Cosa si fa sui blog?” Chiese Incredulo
“Sui blog si fanno blogaloghi!” rispose Amalteo-Sperimentatore… ossia varianti dei dialoghi faccia a faccia.
Non vi sembra una “fànfola”? BLOG Recentemente l'amico musicista Enzo Nini, mi raccontava un processo creativo che ha condiviso con altri musicisti.
A me è venuto in mente che il web e, precisamente, il blog, permette una comunicazione a 260° ( mancano ancora i profumi e le texture). Certo una e-mail o un post, non hanno la magia di una lettera scritta a mano: non c'è l'inchiostro, la carta, la calligrafia, il profumo della mano che l'ha vergata, la sorpresa, i chilometri percorsi... ma compensano con la pluralità di opzioni. Per quel che mi riguarda, nettamente superiori a una telefonata in quantità di sfumature trasmesse, anche se trovo irrinunciabile la voce, direi la musica in parole. BUONI PROPOSITI Buoni propositi
* Leggere per vivere, non solo per divertirsi o imparare. * Compilare un catalogo delle banalità che ottundono il suono della vita; una volta fatto, escluderle completamente dai suoni ricevibili. * Amare la scrittura in modo discreto ma sostanziale, come un asceta il deserto o come il monaco zen la disciplina del respiro. * Cercare la felicità nell’ozio e nel silenzio. * Fare in modo che nessuno, in futuro, possa mai credere che ho vissuto.
in http://cleliamazzini.tumblr.com/post/27505687 cambiare Sai cos'è la cosa più stupenda? Che il cambiamento può essere così costante che non senti nemmeno la differenza fino a quando non cambia tutto.
Può essere un processo così lento che non ti accorgi che la tua vita è meglio o peggio finch'è non è diversa. Oppure il cambiamento può essere radicale e tutto è diverso in un attimo. campo psicoterapeutico PROGETTO E DESTINO: il «diventa ciò che sei» pindarico e la sua scomposizione nel campo psicoterapeutico
Si tratta di «AIUTARE I SINGOLI A DIVENTARE QUELLO CHE SONO», facendo bene attenzione al cambiamento che subisce il ‘campo’ sul quale si esercita l’azione terapeutica, in quanto la formula da cui siamo partiti si moltiplica nelle altre formule: «DIVENTA CIÒ CHE NON SEI», «NON DIVENTARE CIÒ CHE SEI», «NON DIVENTARE CIÒ CHE NON SEI».
In questo senso, occorrerà capire bene cosa implichi il motto DIVENTA CIÒ CHE SEI. Una persona deve essere aiutata a realizzare la propria natura, più che a passare a vivere quella che a noi sembra la forma di vita migliore. Allora, tornare a vivere ‘libera-mente’ significa imparare a riconoscere e ad accettare come un dato il proprio Sé. A questo deve conformarsi la vera o pretesa libertà dell’Io. Ogni eventuale integrazione o «riparazione» del proprio nucleo originario non comporterà mai un mutamento sostanziale o un annullamento di quella parte di sé che «non piace». Su questa base teorica e metodologica l’asserto di partenza si potrà chiarire, allora, con le espressioni popolari «SII TE STESSO», «NON TRADIRE TE STESSO». La fuoriuscita dalla tossicodipendenza coinciderà, per il resto della vita della persona, con l’accettazione del proprio DESTINO.
«DIVENTA CIÒ CHE NON SEI», ovvero la possibilità del mutamento. L’esperienza ci ha insegnato che il PROGETTO supera il destino quando si avverte come possibile la trasformazione della propria vita sotto la spinta di mete ideali, per quanto esse siano arginate dal principio di realtà. L’utopia, l’esodo, la speranza non sono esiti negati dalla psicoterapia. Rispetto al «diventa ciò che sei», il «diventa ciò che non sei» non si pone come opposto che lo esclude ma come elemento complementare. Si tratta di far interagire ‘libera-mente’ i due momenti nella relazione terapeutica, orientando l’ascolto nella direzione suggerita dalle modificazioni che intervengono nel ‘campo’ e dai ‘punti di resistenza’ che affiorano.
«NON DIVENTARE CIÒ CHE SEI» o della liberazione limitata dai condizionamenti. Sia i condizionamenti naturali che i condizionamenti culturali costituiscono una determinazione che occulta una natura più originaria che non possiamo escludere di poter realizzare nel corso della nostra vita. Non saremo noi a suggerire all’utente questa meta come senz’altro desiderabile, in quanto essa si mostrerà spontaneamente e in forme imprevedibili nello spazio terapeutico. La problematicità di quest’ultimo decide sul corso che prenderanno le cose. L’altro si dislocherà ‘libera-mente’ sotto la guida accorta dell’operatore.
«NON DIVENTARE CIÒ CHE NON SEI»: fedeltà al dato originario e perseverazione nella libertà finita. Solo apparentemente siamo ritornati al primitivo «diventa ciò che sei». In realtà, il progetto (diventare) si adegua al destino (ciò che sei) con un movimento che potremmo dire centrifugo, mentre nella forma originaria il movimento è, per così dire, centripeto. Qui si ammette la possibilità di diventare «altro», pertanto di assumere forme, norme, stereotipi e modalità forniti dai modelli storici diffusi in una determinata cultura, e questa possibilità è assunta come rischio di fuga da sé, come pericolo di infedeltà al dato originario. Tuttavia questa possibilità, per quanto astratta, comporta quella libertà senza la quale ogni imperativo non avrebbe senso. Si tratta di una libertà finita, una libertà che si esercita all’interno di condizioni sia pure non del tutto necessitanti. La possibilità di essere se stessi assume valore proprio perché viene preservata questa libertà finita. L’altro oscillerà ‘libera-mente’ dentro la personale dialettica libertà-necessità.
La scomposizione in quattro momenti, a partire dalla formula di partenza, è tipica della fondamentale problematicità che dischiude dinanzi a noi il campo psicoterapeutico: solo in questo spazio di incertezza costitutiva si manifestano sia le possibilità autentiche del diventare se stessi e del non fuggire da se stessi, sia i rischi fecondi della trasformazione del dato originario e del mutamento della direzione.
Brani liberamente tratti e adattati da
MARIO TREVI, Il lavoro psicoterapeutico. Limiti e controversie, THEORIA 1993
IN http://www.gabrielederitis.it/?p=590 Chesil Beach Ian McEwan - Chesil Beach da frailibri di francesca g. tramite Elementi condivisi di Clelia Mazzini
Einaudi *Supercoralli* (2007), 136 pagine, euro 15,50
mcewan_chesil.jpgLa passione per Ian McEwan è arrivata all’improvviso, quando “Cortesie per gli ospiti” mi ha chiamato dallo scaffale della Feltrinelli di Largo Argentina. È stato amore a prima lettura; quel suo stile morbido e avviluppante cattura fin dalla prima pagina e la storia di quella coppia di sposi in vacanza non mi ha lasciato per tanto tempo dopo che avevo finito di leggere.Protagonisti del suo ultimo romanzo, “Chesil Beach” sono ancora una coppia di novelli sposi che, a differenza dei “predecessori”, nella storia appaiono soli: Edward e Florence, a partire dalla loro prima, primissima notte di nozze. Nel periodo storico in cui è ambientato il romanzo (primi anni ’60), il matrimonio aveva un significato sociale molto forte: “Erano ancora tempi, destinati a concludersi alla fine di quel famoso decennio, in cui essere giovani costituiva un ingombro sociale, un marchio di irrilevanza, una condizione di leggero imbarazzo per la quale il matrimonio rappresentava l’inizio di una terapia. Grossomodo estranei, eccoli là, stranamente insieme su una nuova vetta dell’esistenza, lieti al pensiero che il loro status recente permettesse di sospingerli sul radioso cammino di una interminabile giovinezza: Edward e Florence, finalmente liberi!”
Una coppia di individui sembra spiccare il volo di una nuova vita, con aspettative e speranze a lungo – una carriera scintillante nella musica lei, la fama da scrittore di storia lui – e a breve termine – una libertà che non è solo sociale, ma è anche sessuale; la possibilità di concedersi liberamente l’una all’altro fuori da ogni giudizio. Proprio la naturalezza di un primo rapporto fra marito e moglie è la causa che spezza la serenità (come era successo in “Cortesie per gli ospiti”, in cui la causa era “esterna” però alla coppia). Quel sole che sembra illuminare i personaggi dei romanzi nelle prime pagine, piano piano assume il glaciale bagliore del dubbio, dell’ambiguità, della sofferenza. Florence non vuole concedersi a Edward, non ha interesse per il sesso, prova addirittura repulsione di fronte a un atto così carnale.
Si scava nel passato dei due sposi per cercare di conoscerli e capirli, attraverso le famiglie, l’infanzia. Se ne segue poi l’evoluzione in un futuro oltre una sliding door che si apre su due possibilità e su parecchie opportunità. Edward e Florence, coerenti e orgogliosi, resi poco liberi dalle loro stesse convinzioni e fermi sulle loro posizioni, passano oltre la “porta”, senza nemmeno guardare i “se” che offre e vanno dritti per le loro strade. Solo una volta si volteranno indietro e vedendosi l’un l’altro nelle proprie vite si chiederanno “e se…”; e sarà – forse – troppo tardi.
Romanzo forse meno “ansiogeno” di “Cortesie per gli ospiti”, lontano dai thriller che ti fanno venire i brividi alla schiena, gioca sulla tenerezza e sulla apparente “linearità” dei personaggi, che si scoprono invece complessi e spiazzanti man mano che si procede a scavare nel passato, ma soprattutto a seguirli in questo post-matrimonio che è la spina dorsale del romanzo. CICLO DI VITA SENECA: De brevitate vitae
I. La maggior parte dei mortali, o Paolino, si lagna per la cattiveria della natura, perché siamo messi al mondo per un esiguo periodo di tempo, perché questi periodi di tempo a noi concessi trascorrono così velocemente, così in fretta che, tranne pochissimi, la vita abbandoni gli altri nello stesso sorgere della vita. Né di tale calamità, comune a tutti, come credono, si lamentò solo la folla e il dissennato popolino; questo stato d’animo suscitò le lamentele anche di personaggi famosi. Da qui deriva la famosa esclamazione del più illustre dei medici, che la vita è breve, l’arte lunga; di qui la contesa, poco decorosa per un saggio, dell’esigente Aristotele con la natura delle cose, perché essa è stata tanto benevola nei confronti degli animali, che possono vivere cinque o dieci generazioni, ed invece ha concesso un tempo tanto più breve all’uomo, nato a tante e così grandi cose. Noi non disponiamo di poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto. La vita è lunga abbastanza e ci è stata data con larghezza per la realizzazione delle più grandi imprese, se fosse impiegata tutta con diligenza; ma quando essa trascorre nello spreco e nell’indifferenza, quando non viene spesa per nulla di buono, spinti alla fine dall’estrema necessità, ci accorgiamo che essa è passata e non ci siamo accorti del suo trascorrere. È così: non riceviamo una vita breve, ma l’abbiamo resa noi, e non siamo poveri di essa, ma prodighi. Come sontuose e regali ricchezze, quando siano giunte ad un cattivo padrone, vengono dissipate in un attimo, ma, benché modeste, se vengono affidate ad un buon custode, si incrementano con l’investimento, così la nostra vita molto si estende per chi sa bene gestirla. II. Perché ci lamentiamo della natura delle cose? Essa si è comportata in maniera benevola: la vita è lunga, se sai farne uso. C’è chi è preso da insaziabile avidità, chi dalle vuote occupazioni di una frenetica attività; uno è fradicio di vino, un altro languisce nell’inerzia; uno è stressato da un’ambizione sempre dipendente dai giudizi altrui, un altro è sballottato per tutte le terre da un’avventata bramosia del commercio, per tutti i mari dal miraggio del guadagno; alcuni tortura la smania della guerra, vogliosi di creare pericoli agli altri o preoccupati dei propri; vi sono altri che logora l’ingrato servilismo dei potenti in una volontaria schiavitù; molti sono prigionieri della brama dell’altrui bellezza o della cura della propria; la maggior parte, che non ha riferimenti stabili, viene sospinta a mutar parere da una leggerezza volubile ed instabile e scontenta di sé; a certuni non piace nulla a cui drizzar la rotta, ma vengono sorpresi dal destino intorpiditi e neghittosi, sicché non ho alcun dubbio che sia vero ciò che vien detto, sotto forma di oracolo, nel più grande dei poeti: “Piccola è la porzione di vita che viviamo”. Infatti tutto lo spazio rimanente non è vita, ma tempo. I vizi premono ed assediano da ogni parte e non permettono di risollevarsi o alzare gli occhi a discernere il vero, ma li schiacciano immersi ed inchiodati al piacere. Giammai ad essi è permesso rifugiarsi in se stessi; se talora gli tocca per caso un attimo di tregua, come in alto mare, dove anche dopo il vento vi è perturbazione, ondeggiano e mai trovano pace alle loro passioni. Pensi che io parli di costoro, i cui mali sono evidenti? Guarda quelli, alla cui buona sorte si accorre: sono soffocati dai loro beni. Per quanti le ricchezze costituiscono un fardello! A quanti fa sputar sangue l’eloquenza e la quotidiana ostentazione del proprio ingegno! Quanti sono pallidi per i continui piaceri! A quanti non lascia un attimo di respiro l’ossessionante calca dei clienti! Dunque, passa in rassegna tutti costoro, dai più umili ai più potenti: questo cerca un avvocato, questo è presente, quello cerca di esibire le prove, quello difende, quello è giudice, nessuno rivendica per se stesso la propria libertà, ci si consuma l’uno per l’altro. Infòrmati di costoro, i cui nomi si imparano, vedrai che essi si riconoscono da questi segni: questo è cultore di quello, quello di quell’altro; nessuno appartiene a se stesso. Insomma è estremamente irragionevole lo sdegno di taluni: si lamentano dell’alterigia dei potenti, perché questi non hanno il tempo di venire incontro ai loro desideri. Osa lagnarsi della superbia altrui chi non ha tempo per sé? Quello almeno, chiunque tu sia, benché con volto arrogante ma qualche volta ti ha guardato, ha abbassato le orecchie alle tue parole, ti ha accolto al suo fianco: tu non ti sei mai degnato di guardare dentro di te, di ascoltarti. Non vi è motivo perciò di rinfacciare ad alcuno questi servigi, poiché li hai fatti non perché desideravi stare con altri, ma perché non potevi stare con te stesso. III. Per quanto siano concordi su questo solo punto gli ingegni più illustri che mai rifulsero, mai abbastanza si meraviglieranno di questo appannamento delle menti umane: non tollerano che i propri campi vengano occupati da nessuno e, se sorge una pur minima disputa sulla modalità dei confini, si precipitano alle pietre ed alle armi: permettono che altri invadano la propria vita, anzi essi stessi vi fanno entrare i suoi futuri padroni; non si trova nessuno che sia disposto a dividere il proprio denaro: a quanti ciascuno distribuisce la propria vita! Sono avari nel tenere i beni; appena si giunge alla perdita di tempo, diventano molto prodighi in quell’unica cosa in cui l’avarizia è un pregio. E così piace citare uno dalla folla degli anziani: “Vediamo che sei arrivato al termine della vita umana, hai su di te cento o più anni: suvvia, fa un bilancio della tua vita. Calcola quanto da questo tempo hanno sottratto i creditori, quanto le donne, quanto i patroni, quanto i clienti, quanto i litigi con tua moglie, quanto i castighi dei servi, quanto le visite di dovere attraverso la città; aggiungi le malattie, che ci siamo procurati con le nostre mani, aggiungi il tempo che giacque inutilizzato: vedrai che hai meno anni di quanti ne conti. Ritorna con la mente a quando sei stato fermo in un proposito, quanti pochi giorni si sono svolti così come li avevi programmati, a quando hai avuto la disponibilità di te stesso, a quando il tuo volto non ha mutato espressione, a quando il tuo animo è stato coraggioso, che cosa di positivo hai realizzato in un periodo tanto lungo, quanti hanno depredato la tua vita mentre non ti accorgevi di cosa stavi perdendo, quanto ne ha sottratto un vano dispiacere, una stupida gioia, un’avida bramosia, una piacevole discussione, quanto poco ti è rimasto del tuo: capirai che muori anzitempo”. Dunque qual è il motivo? Vivete come se doveste vivere in eterno, mai vi sovviene della vostra caducità, non ponete mente a quanto tempo è già trascorso; ne perdete come da una rendita ricca ed abbondante, quando forse proprio quel giorno, che si regala ad una certa persona od attività, è l’ultimo. Avete paura di tutto come mortali, desiderate tutto come immortali. Udirai la maggior parte dire: “Dai cinquant’anni mi metterò a riposo, a sessant’anni mi ritirerò a vita privata”. E che garanzia hai di una vita tanto lunga? Chi permetterà che queste cose vadano così come hai programmato? Non ti vergogni di riservare per te i rimasugli della vita e di destinare alla sana riflessione solo il tempo che non può essere utilizzato in nessun’altra cosa? Quanto tardi è allora cominciare a vivere, quando si deve finire! Che sciocca mancanza della natura umana differire i buoni propositi ai cinquanta e sessanta anni e quindi voler iniziare la vita lì dove pochi sono arrivati! IV. Vedrai sfuggire di bocca agli uomini più potenti e più altolocati parole con le quali aspirano al tempo libero, lo lodano e lo antepongono a tutti i loro beni. Talvolta desiderano scendere giù da quel loro piedistallo, se la cosa potesse avvenire in tutta sicurezza; infatti, anche se niente preme e turba dall’esterno, la fortuna crolla su se stessa. Il divo Augusto, al quale gli dei concessero più che a chiunque altro, non cessò di augurarsi il riposo e di chiedere di essere sollevato dagli impegni pubblici; ogni suo discorso ricadeva sempre su questo, la speranza del tempo libero: alleviava le sue fatiche con questo conforto, per quanto illusorio tuttavia piacevole, che un giorno sarebbe vissuto per se stesso. In una lettera inviata al senato, dopo aver promesso che il suo riposo sarebbe stato non privo di decoro ne in contrasto con la sua gloria passata, ho trovato queste parole: “Ma queste cose sarebbe più bello poterle mettere in pratica che prometterle. Tuttavia il desiderio di quel tempo tanto desiderato mi ha condotto, poiché finora la gioia della realtà si fa attendere, a pregustare un po’ di piacere dalla dolcezza delle parole.” Così grande cosa gli sembrava il tempo libero, che, poiché non poteva goderne, se lo pregustava con l’immaginazione. Colui che vedeva tutto dipendere da lui solo, che stabiliva il destino per gli uomini e i popoli, pensava a quel felicissimo giorno in cui avrebbe abbandonato la propria grandezza. Conosceva per esperienza quanto sudore costano quei beni rifulgenti per tutta la terra, quante nascoste fatiche celano. Costretto a combattere con armi dapprima con i concittadini, poi con i colleghi, infine con i parenti, versò sangue per terra e per mare: dopo essere passato in guerra attraverso la Macedonia, la Sicilia, l’Egitto, la Siria e l’Asia e quasi tutte le coste, volse contro gli stranieri gli eserciti stanchi di strage romana. Mentre pacificava le Alpi e domava i nemici mischiati in mezzo alla pace e all’impero, mentre spostava i confini oltre il Reno, l’Eufrate ed il Danubio, proprio a Roma si affilavano contro di lui i pugnali di Murena, di Cepione, di Lepido, di Egnazio e di altri. Non era ancora sfuggito alle insidie di costoro e la figlia e tanti giovani nobili legati dal vincolo dell’adulterio come da un giuramento ne atterrivano la stanca età e ancor più e di nuovo una donna era da temere con un Antonio. Aveva tagliato via queste ferite con le stesse membra: altre ne rinascevano; come un corpo pieno di troppo sangue, sempre si crepava in qualche parte. E così anelava al tempo libero, nella cui speranza e nel cui pensiero si placavano i suoi affanni: questo era il voto di colui che poteva render gli altri paghi dei loro voti. V. Marco Cicerone, sballottato tra i Catilina e i Clodii e poi tra i Pompei e i Crassi, quelli avversari manifesti, questi amici dubbi, mentre fluttuava assieme allo Stato e lo sorreggeva mentre andava a fondo, alla fine sopraffatto, non calmo nella buona sorte e incapace di sopportare quella cattiva, quante volte impreca contro quel suo stesso consolato, lodato non senza ragione ma senza fine! Che dolenti parole esprime in una lettera ad Attico, dopo aver vinto Pompeo padre, mentre in Spagna il figlio rimetteva in sesto le armate scompaginate! “Mi domandi” dice “cosa faccio qui? Me ne sto mezzo libero nel mio podere di Tuscolo”. Poi aggiunge altre parole, con le quali rimpiange il tempo passato, si lamenta del presente e dispera del futuro. Cicerone si definì semilibero: ma perdiana giammai un saggio si spingerà in un aggettivo così mortificante, giammai sarà mezzo libero, sarà sempre in possesso di una libertà totale e assoluta, svincolato dal proprio potere e più in alto di tutti. Cosa infatti può esserci sopra uno che è al di sopra della fortuna? VI Livio Druso, uomo rude ed impulsivo, avendo rimosso le nuove leggi e i disatri dei Gracchi, pressato da una grande aggregazione dell’Italia intera, non prevedendo l’esito degli avvenimenti, che non poteva gestire e ormai non era libero di abbandonarli una volta iniziati, si dice che maledicendo la sua vita, irrequieta fin dagli inizi, abbia detto che solo a lui neppure da bambino erano toccate vacanze. Infatti osò ancor minorenne e poi adolescente raccomandare gli imputati ai giudici e interporre i suoi buoni uffici nel foro con tanta efficacia che alcune sentenze siano risultate da lui estorte. Dove non sarebbe sfociata una così prematura ambizione? Capiresti che una così precoce audacia sarebbe andata a finire in un grave danno sia pubblico che privato. Perciò tardi si lamentava che non gli fossero state concesse vacanze fin da piccolo, litigioso e di peso per il foro. Si discute se si sia tolto la vita; infatti, ferito da un improvviso colpo all’inguine, si accasciò, e vi è chi dubita che la sua morte sia stata volontaria, ma nessuno che essa sia stata opportuna. È del tutto inutile ricordare i tanti che, pur apparendo felicissimi agli occhi degli altri, testimoniarono in se stessi il vero ripudiando ogni azione della loro vita; ma con tali lamentele non cambiarono né gli altri né se stessi: infatti, una volta che le parole siano volate via, gli affetti ritorneranno secondo il consueto modo di vivere. Perdiana, ammesso pure che la vostra vita superi i mille anni, si ridurrebbe ad un tempo ristrettissimo: questi vizi divoreranno ogni secolo; in verità questo spazio che, benché la natura faccia defluire, la ragione dilata, è ineluttabile che presto vi sfugga: infatti non afferrate né trattenete o ritardate la più veloce di tutte le cose, ma permettete che vada via come una cosa inutile e recuperabile. VII. Tra i primi annovero senz’altro coloro che per nessuna cosa hanno tempo se non per il vino e la lussuria; nessuno infatti è occupato in maniera più vergognosa. Gli altri, anche se sono ossessionati da un effimero pensiero di gloria, tuttavia sbagliano con garbo; elencami pure gli avari, gli iracondi o coloro che perseguono ingiusti rancori o guerre, tutti costoro peccano più virilmente: la colpa di coloro che sono dediti al ventre e alla libidine è vergognosa. Esamina tutti i giorni di costoro, vedi quanto tempo perdano nel pensare al proprio interesse, quanto nel tramare insidie, quanto nell’aver timore, quanto nell’essere servili, quanto li tengano occupati le proprie promesse e quelle degli altri, quanto i pranzi, che ormai sono diventati anch’essi dei doveri: vedrai in che modo i loro mali o beni non permettano loro di respirare. Infine tutti convengono che nessuna cosa può esser ben gestita da un uomo affaccendato, non l’eloquenza, non le arti liberali, dal momento che un animo intento a più cose nulla recepisce più in profondità, ma ogni cosa respinge come se fossa introdotta a forza. Nulla è di minor importanza per un uomo affaccendato che il vivere: di nessuna cosa è più difficile la conoscenza. Dappertutto vi sono molti insegnanti delle altre arti, e alcune di esse sembra che i fanciulli le abbiano così assimilate da poterle anche insegnare: tutta la vita dobbiamo imparare a vivere e, cosa della quale forse ti meraviglierai, tutta la vita dobbiamo imparare a morire. Tanti uomini illustri, dopo aver abbandonato ogni ostacolo e aver rinunziato a ricchezze, cariche e piaceri, solo a questo anelarono fino all’ultima ora, di saper vivere; tuttavia molti di essi se ne andarono confessando di non saperlo ancora, a maggior ragione non lo sanno costoro. Credimi, è tipico di un uomo grande e che si eleva al di sopra degli errori umani permettere che nulla venga sottratto dal suo tempo, e la sua vita è molto lunga per questo, perché, per quanto si sia protratta, l’ha dedicata tutta a se stesso. Nessun periodo quindi restò trascurato ed inattivo, nessuno sotto l’influenza di altri; e infatti non trovò alcunché che fosse degno di essere barattato con il suo tempo, gelosissimo custode di esso. Perciò gli fu sufficiente. Ma è inevitabile che sia venuto meno a coloro, dalla cui vita molto tolse via la gente. E non credere che essi una buona volta non capiscano il proprio danno; certamente udirai la maggior parte di quelli, sui quali pesa una grande fortuna, tra la moltitudine dei clienti o la gestione delle cause o tra le altre dignitose miserie esclamare di tanto in tanto: “Non mi è permesso vivere.” E perché non gli è permesso? Tutti quelli che ti chiamano a sé, ti allontanano da te. Quell’imputato quanti giorni ti ha sottratto? Quanti quel candidato? Quanti quella vecchia stanca di seppellire eredi? Quanti quello che si è finto ammalato per suscitare l’ingordigia dei cacciatori di testamenti? Quanti quell’influente amico, che vi tiene non per amicizia ma per esteriorità? Passa in rassegna, ti dico, e fai un bilancio dei giorni della tua vita: vedrai che ne sono rimasti ben pochi e male spesi. Quello, dopo aver ottenuto le cariche che aveva desiderato, desidera abbandonarle e ripetutamente dice: “Quando passerà quest’anno?” Quello allestisce i giochi, il cui esito gli stava tanto a cuore e dice: “Quando li fuggirò?” Quell’avvocato è conteso in tutto il foro e con grande ressa tutti si affollano fin oltre a dove può essere udito; dice: “Quando verranno proclamate le ferie?” Ognuno consuma la propria vita e si tormenta per il desiderio del futuro e per la noia del presente. Ma quello che sfrutta per se stesso tutto il suo tempo, che programma tutti i giorni come una vita, non desidera il domani né lo teme. Cosa vi è infatti che alcuna ora di nuovo piacere possa apportare? Tutto è noto, tutto è stato assaporato a sazietà. Per il resto la buona sorte disponga come vorrà: la vita è già al sicuro. Ad essa si può aggiungere, ma nulla togliere, e aggiungere così come del cibo ad uno ormai sazio e pieno, che non ne desidera ma lo accoglie. Perciò non c’è motivo che tu ritenga che uno sia vissuto a lungo a causa dei capelli bianchi o delle rughe: costui non è vissuto a lungo, ma è stato in vita a lungo. E così come puoi ritenere che abbia molto navigato uno che una violenta tempesta ha sorpreso fuori dal porto e lo ha sbattuto di qua e di là e lo ha fatto girare in tondo entro lo stesso spazio, in balia di venti che soffiano da direzioni opposte? Non ha navigato molto, ma è stato sballottato molto. VIII. Mi stupisco sempre quando vedo alcuni chiedere tempo e quelli, a cui viene richiesto, tanto accondiscendenti; l’uno e l’altro guardano al motivo per il quale il tempo viene richiesto, nessuno dei due alla sua essenza: lo si chiede come se fosse niente, come se fosse niente lo si concede. Si gioca con la cosa più preziosa di tutte; (il tempo) invece li inganna,poiché è qualcosa di incorporeo, perché non cade sotto gli occhi, e pertanto è considerato cosa di poco conto, anzi non ha quasi nessun prezzo. Gli uomini accettano assegni annui e donativi come cose di caro prezzo e in essi ripongono le loro fatiche, il loro lavoro e la loro scrupolosa attenzione: nessuno considera il tempo: ne fanno un uso troppo sconsiderato, come se esso fosse (un bene) gratuito. Ma guarda costoro (quando sono) ammalati, se il pericolo della morte incombe molto da vicino, avvinghiati alle ginocchia dei medici, se temono la pena capitale, pronti a sborsare tutti i loro averi pur di vivere: quanta contraddizione si trova in essi. Che se si potesse in qualche modo mettere davanti (a ciascuno) il numero di anni passati di ognuno, così come quelli futuri, come trepiderebbero coloro che ne vedessero restare pochi, come ne risparmierebbero! Eppure è facile gestire ciò che è sicuro, per quanto esiguo; si deve invece curare con maggior solerzia ciò che non sai quando finirà. E non v’è motivo che tu creda che essi non sappiano che cosa preziosa sia:: sono soliti dire, a coloro che amano più intensamente, di essere pronti a dare parte dei loro anni. Li danno e non capiscono: cioè li danno in modo da sottrarli a se stessi senza peraltro incrementare quelli. Ma non si accorgono proprio di toglierli; perciò per essi è sopportabile la perdita di un danno nascosto. Nessuno (ti) restituirà gli anni, nessuno ti renderà nuovamente a te stesso; la vita andrà per dove ha avuto principio e non muterà né arresterà il suo corso; non farà alcun rumore, non lascerà nessuna traccia della propria velocità: scorrerà silenziosamente; non si estenderà oltre né per ordine di re né per favor di popolo: correrà così come ha avuto inizio dal primo giorno, non cambierà mai traiettoria, mai si attarderà. Cosa accadrà? Tu sei tutto preso, la vita si affretta: nel frattempo si avvicinerà la morte, per la quale, volente o nolente, bisogna avere tempo. IX. Cosa potresti immaginare di più insensato di quegli uomini che menano vanto della propria lungimiranza? Sono affaccendati in modo molto impegnativo: per poter vivere meglio organizzano la vita a scapito della vita. Fanno progetti a lungo termine; d’altra parte la più grande sciagura della vita è il suo procrastinarla: innanzitutto questo fatto rimanda ogni giorno, distrugge il presente mentre promette il futuro. Il più grande ostacolo al vivere è l’attesa, che dipende dal domani, (ma) perde l’oggi. Disponi ciò che è posto in grembo al fato e trascuri ciò che è in tuo potere. Dove vuoi mirare? Dove vuoi arrivare? Sono avvolti dall’incertezza tutti gli avvenimenti futuri: vivi senza arrestarti. Ecco, grida il sommo poeta [Virgilio, Georgiche] e come ispirato da bocca divina eleva un carme salvifico: “I primi a fuggire per gli infelici mortali sono i giorni migliori della vita.” Dice: “Perché esiti? Perché indugi? Se non te ne appropri, (i giorni migliori) fuggono.” E pure quando te ne sarai impossessato, essi fuggiranno: pertanto bisogna combattere con il farne rapidamente uso (lett.: la rapidità del farne uso) contro la velocità del tempo e attingerne rapidamente come da un torrente impetuoso e che non scorre per sempre. Anche ciò è molto bello, che per rimproverare un indugio senza fine, dica non “il tempo migliore”, ma “i giorni migliori.” Perché tu, tranquillo e indifferente in tanto fuggire del tempo prefiguri per te una lunga serie di mesi e di anni, a seconda che appaia opportuno alla tua avidità? (Virgilio) ti parla di un giorno e di un giorno che fugge. Vi è dunque dubbio che i migliori giorni fuggano ai mortali sventurati, cioè affaccendati? Sui loro animi ancora infantili preme la vecchiaia, alla quale giungono impreparati ed indifesi; nulla infatti fu previsto: improvvisamente e senza aspettarselo si imbatterono in essa, non si accorgevano che essa si avvicinava giorno dopo giorno. Allo stesso modo che un discorso o una lettura o un pensiero alquanto intenso trae in inganno chi percorre un cammino e si accorge di essere giunto prima di essersi avvicinato (alla meta), così questo viaggio della vita, costante e velocissimo, che percorriamo con la stessa andatura da svegli e da addormentati, non si manifesta agli affaccendati se non alla fine. X Se volessi dividere ciò che ho esposto e le argomentazioni, mi verrebbero in aiuto molte cose attraverso le quali posso dimostrare che la vita degli affaccendati è molto breve. Soleva affermare Fabiano [Papirio Fabiano, filosofo neopitagorico, molto stimato da Seneca], il quale non fa parte di questi filosofi cattedratici ma di quelli genuini e vecchio stampo, che contro le passioni bisogna combattere d’istinto, non di sottigliezza, e respingerne la schiera (delle passioni) non con piccoli colpi ma con un assalto: infatti esse devono essere pestate, non punzecchiate. Tuttavia, per rinfacciare ad esse il loro errore, bisogna non tanto rimproverarle ma ammaestrarle. La vita si divide in tre tempi: passato, presente e futuro. Di questi il presente è breve, il futuro incerto, il passato sicuro. Solo su quest’ultimo, infatti, la fortuna ha perso la sua autorità, perché non può essere ridotto in potere di nessuno. Questo perdono gli affaccendati: infatti non hanno il tempo di guardare il passato e, se lo avessero, sarebbe sgradevole il ricordo di un fatto di cui pentirsi. Malvolentieri pertanto rivolgono l’animo a momenti mal vissuti e non osano riesaminare cose, i cui vizi si manifestano ripensandole, anche quelli che vengono nascosti con qualche artificio del piacere presente. Nessuno, se non coloro che hanno sempre agito secondo la propria coscienza, che mai si inganna, si rivolge volentieri al passato; chi ha desiderato molte cose con ambizione, ha sprezzato con superbia, si è imposto senza regola né freno, ha ingannato con perfidia, ha sottratto con cupidigia, ha sprecato con leggerezza, ha paura della sua memoria. Eppure questa è la parte del nostro tempo sacra ed inviolabile, al di sopra di tutte le vicende umane, posta al di fuori del regno della fortuna, che non turba né la fame, né la paura, né l’assalto delle malattie; essa non può essere turbata né sottratta: il suo possesso è eterno e inalterabile. Soltanto a uno a uno sono presenti i giorni e momento per momento; ma tutti (i giorni) del tempo passato si presenteranno quando tu glielo ordinerai, tollereranno di essere esaminati e trattenuti a tuo piacimento, cosa che gli affaccendati non hanno tempo di fare. È tipico di una mente serena e tranquilla spaziare in ogni parte della propria vita; gli animi degli affaccendati, come se fossero sotto un giogo, non possono piegarsi né voltarsi. La loro vita dunque precipita in un baratro e come non serve a nulla, qualsiasi quantità tu possa ficcarne dentro, se non vi è sotto qualcosa che la raccolga e la contenga [come un recipiente senza fondo], così non importa quanto tempo è concesso, se non vi è nulla dove posarsi: viene fatto passare attraverso animi fiaccati e bucati. Il presente è brevissimo, tanto che a qualcuno sembra inesistente; infatti è sempre in corsa, scorre e si precipita; smette di esistere prima di giungere, e non ammette indugio più che il creato o le stelle, il cui moto sempre incessante non rimane mai nello stesso luogo. Dunque agli affaccendati spetta solo il presente, che è così breve da non poter essere afferrato e che si sottrae a chi è oppresso da molte occupazioni. XI. Vuoi dunque sapere quanto poco tempo (gli affaccendati) vivano? Vedi quanto desiderano vivere a lungo. Vecchi decrepiti mendicano con suppliche l’aggiunta di pochi anni: fingono di essere più giovani; si lusingano con la bugia e illudono se stessi così volentieri come se ingannassero al tempo stesso il destino. Però quando qualche infermità (li) ammonisce del loro stato mortale, come muoiono terrorizzati, non come uscendo dalla vita, ma come se ne fossero tirati fuori! Van gridando di essere stati stolti, tanto da non aver vissuto e se in qualche modo vengono fuori da quella malattia, di voler vivere in pace; allora pensano a quante cose si siano procurate invano, e delle quali non avrebbero fatto uso, come nel vuoto sia caduta ogni loro fatica. Ma per chi la vita trascorre lungi da ogni faccenda, perché non dovrebbe essere di lunga durata? Nulla di essa è affidato (ad altri), nulla è sparpagliato qua e là, nulla perciò è affidato alla fortuna, nulla si consuma per noncuranza, nulla si dissipa per prodigalità, nulla è superfluo: tutta (la vita), per così dire, produce un reddito. Per quanto breve, dunque, è abbondantemente sufficiente, e perciò, quando che venga il giorno estremo, il saggio non esiterà ad andare incontro alla morte con passo fermo. XII. Chiedi forse chi io definisco affaccendati? Non pensare che io bolli come tali solo quelli che soltanto cani aizzati riescono a cacciar fuori dalla basilica [il centro degli affari], quelli che vedi esser stritolati o con maggior lustro nella propria folla [di clienti] o più vergognosamente il quella [dei clienti] altrui, quelli che gli impegni spingono fuori dalle proprie case per schiacciarli con gli affari altrui, o che l’asta del pretore fa travagliare con un guadagno disonorevole e destinato un giorno ad incancrenire [si riferisce alla vendita all’asta dei bottini di guerra e degli schiavi, il cui commercio era ritenuto disonorevole]. Il tempo libero di alcuni è tutto impegnato: nella loro villa o nel loro letto, nel bel mezzo della solitudine, benché si siano isolat da tutti, sono fastidiosi a se stessi: la loro non deve definirsi una vita sfaccendata ma un inoperoso affaccendarsi. Puoi chiamare sfaccendato chi dispone in ordine con minuziosa pignoleria bronzi di Corinto, pregiati per la passione di pochi, e spreca la maggior parte dei giorni tra laminette rugginose? Chi in palestra (infatti, che orrore!, neppur romani sono i vizi di cui soffriamo) siede come spettatore di ragazzi che lottano? Chi divide le mandrie dei propri giumenti in coppie di uguale età e colore? Chi nutre gli atleti (giunti) ultimi? E che? Chiami sfaccendati quelli che passano molte ore dal barbiere, mentre si estirpa qualcosa che spuntò nell’ultima notte, mentre si tiene un consulto su ogni singolo capello, mentre o si rimette a posto la chioma in disordine o si sistema sulla fronte da ambo i lati quella rada? Come si arrabbiano se il barbiere è stato un po’ disattento, come se tosasse un uomo! Come si irritano se viene tagliato qualcosa dalla loro criniera, se qualcosa è stato mal acconciato, se tutto non ricade in anelli perfetti! Chi di costoro non preferisce che sia in disordine lo Stato piuttosto che la propria chioma? Che non sia più preoccupato della grazia della sua testa che della sua incolumità? Che non preferisca essere più elegante che dignitoso? Questi tu definisci sfaccendati, affaccendati tra il pettine e lo specchio? Quelli che sono dediti a comporre, sentire ed imparare canzoni, mentre torcono in modulazioni di ritmo molto modesto la voce, di cui la natura rese il corretto cammino il migliore e il più semplice, le cui dita cadenzanti suonano sempre qualche carme dentro di sé, e di cui si ode il silenzioso ritmo quando si rivolgono a cose serie e spesso anche tristi? Costoro non hanno tempo libero, ma occupazioni oziose. Di certo non annovererei i banchetti di costoro tra il tempo libero, quando vedo con quanta premura dispongono l’argenteria, con quanta cura sistemano le tuniche dei loro amasi [giovani che si vendevano per libidine], quanto siano trepidanti per come il cinghiale vien fuori dalle mani del cuoco, con quanta sollecitudine i glabri [schiavi che si facevano depilare per assumere un aspetto femmineo] accorrono ai loro servigi ad un dato segnale, con quanta maestria vengano tagliati gli uccelli in pezzi non irregolari, con quanto zelo infelici fanciulli detergano gli sputi degli ubriachi: da essi si cerca fama di eleganza e di lusso e a tal punto li seguono le loro aberrazioni in ogni recesso della vita, che non bevono né mangiano senza ostentazione. Neppure annovererai tra gli sfaccendati coloro che vanno in giro sulla portantina o sulla lettiga e si presentano all’ora delle loro passeggiate come se non gli fosse permesso rinunziarvi, e che un altro deve avvertire quando si devono lavare, quando devono nuotare o cenare: e a tal punto illanguidiscono in troppa fiacchezza di un animo delicato, da non potersi accorgere da soli se hanno fame. Sento che uno di questi delicati - se pure si può chiamare delicatezza il disimparare la vita e la consuetudine umana - , trasportato a mano dal bagno e sistemato su una portantina, abbia detto chiedendo: “Sono già seduto?”. Tu reputi che costui che ignora se sta seduto sappia se è vivo, se vede e se è sfaccendato? Non è facile dire se mi fa più pena se non lo sapeva o se fingeva di non saperlo. Certamente di molte cose soffrono in realtà la dimenticanza, ma di molte anche la simulano; alcuni vizi li allettano come oggetto di felicità; sembra che il sapere cosa fai sia tipico dell’uomo umile e disprezzato; ora va e credi che i mimi inventano molte cose per biasimare il lusso. Certo trascurano più di quanto rappresentano ed è apparsa tanta abbondanza di vizi incredibili in questo solo secolo, che ormai possiamo dimostrare la trascuratezza dei mimi. Vi è qualcuno che si consuma a tal punto nelle raffinatezze da credere ad un altro se è seduto! Dunque costui non è sfaccendato, dagli un altro nome: è malato, anzi è morto; sfaccendato è quello che è consapevole del suo tempo libero. Ma questo semivivo, a cui è necessaria una spia che gli faccia capire lo stato del suo corpo, come può costui essere padrone di alcun momento? XIII. Sarebbe lungo enumerare uno ad uno coloro la cui vita consumarono gli scacchi o la palla o la cura del corpo con il sole. Non sono sfaccendati quelli i cui piaceri costano molta fatica.. Infatti di essi nessuno dubiterà che non fanno nulla con fatica, che si tengono occupati in studi di inutili opere letterarie, le quali ormai anche presso i Romani sono un cospicuo numero. Fu malattia dei Greci questo domandarsi quanti rematori abbia avuto Ulisse, se sia stata scritta prima l’Iliade o l’Odissea e inoltre se fossero dello stesso autore, e poi altre cose di questo genere che, se le tieni per te per nulla sono utili ad una silenziosa conoscenza, se le divulghi non sembrerai più istruito ma più importuno. Ecco che ha invaso anche i Romani un vano desiderio di apprendere cose superflue. In questi giorni ho sentito un tizio che andava dicendo quali cose ognuno dei generali romani ha fatto per primo: per primo Duilio vinse in una battaglia navale, per primo Curio Dentato introdusse gli elefanti nella sfilata del trionfo. Ancora queste cose, anche se non mirano ad una vera gloria, almeno trattano esempi di opere civili: questa conoscenza non sarà di utilità, perlomeno è tale da tenerci interessati dalla splendida vanità delle cose. Perdoniamo anche ciò a chi si chiede chi per primo convinse i Romani a salire su una nave - è stato Claudio, proprio per questo chiamato Codice [”caudica” era una barca, ricavata in un tronco, detto “caudex”], perché l’aggregato di parecchie tavole era chiamato “codice” presso gli antichi, per cui i pubblici registri si dicono “codici” e anche ora le navi, che trasportano le derrate lungo il Tevere, per antica consuetudine vengono chiamate “codicarie” - ; certamente anche ciò ha importanza, che Valerio Corvino per primo debellò Messina e fu il primo della gente Valeria ad esser chiamato Messana, avendo trasferito nel suo nome quello della città conquistata, e poi fu detto Messalla avendone il popolo poco alla volta alterato le lettere: ma permetterai anche che qualcuno si occupi del fatto che Lucio Silla per primo presentò nel circo leoni sciolti, quando normalmente venivano esibiti legati, essendo stati inviati dal re Bocco [re della Mauritania] degli arcieri per ucciderli? E si perdoni pure questo: forse che serve a qualcosa di buono che Pompeo per primo abbia allestito nel circo una battaglia di diciotto elefanti opposti come in combattimento a dei condannati? Il primo della città e tra i primi degli antichi, come si tramanda, di eccezionale bontà, considerò un genere di spettacolo degno di esser ricordato il far morire degli uomini in una maniera nuova. “Combattono all’ultimo sangue? È poco. Sono dilaniati? È poco: vengano schiacciati dall’enorme mole degli animali!”. Era meglio che queste cose andassero nel dimenticatoio, affinché in seguito nessun potente imparasse ed invidiasse una cosa del tutto disumana. Quanta nebbia mette avanti alle nostre menti una grande fortuna! Egli allora ritenne di essere al di sopra della natura, esponendo a bestie nate sotto un cielo straniero tante schiere di infelici, organizzando combattimenti tra animali tanto dissimili, spandendo molto sangue al cospetto del popolo Romano, che presto lo avrebbe costretto a versarne di più [si riferisce alla guerra civile di Pompeo contro Cesare]; ma poi, ingannato dalla perfidia alessandrina [il tradimento del faraone Tolomeo, fratello di Cleopatra], si offrì per essere ucciso dall’ultimo schiavo [l’eunuco Achillas, che pugnalò Pompeo a tradimento], capendo solo allora l’inutile vanagloria del proprio soprannome [Magno]. Ma per tornar lì da dove principiai e per dimostrare nella stessa materia il vacuo zelo di certuni, quello stesso narrava che Metello, dopo aver sconfitto in Sicilia i Cartaginesi, fu il solo tra quelli che ottennero il trionfo tra tutti i Romani ad aver condotto davanti al cocchio centoventi elefanti prigionieri; che Silla fu l’ultimo dei Romani ad aver ampliato il pomerio [spazio di terreno, consacrato e lasciato libero, all’interno e all’esterno della cinta muraria di Roma], che mai fu esteso, per antica consuetudine, con l’acquisizione di terreno provinciale, ma italico. Sapere ciò è più utile (che sapere) che il monte Aventino si trova fuori dal pomerio, come quegli asseriva, per uno dei due motivi: o perché la plebe da lì aveva fatto la secessione [nel 494 a.C.], o perché mentre in quel luogo Remo prendeva gli auspici, gli uccelli non avevano dato buoni presagi, e via dicendo altre cose innumerevoli, che o sono farcite di bugie o sono simili a bugie. Infatti, anche ammesso che essi dicano tutto ciò in buona fede, che scrivano cose che sono in grado di dimostrare, tuttavia di chi queste cose faranno diminuire gli errori? Di chi freneranno le passioni? Chi renderanno più saldo, chi più giusto, chi più altruista? Talora il nostro Fabiano diceva di dubitare se fosse meglio non accostarsi a nessuno studio piuttosto che impelagarsi in questi. XIV Soli tra tutti sono sfaccendati coloro che si dedicano alla saggezza, essi soli vivono; e infatti non solo custodiscono bene la propria vita: aggiungono ogni età alla propria; qualsiasi cosa degli anni prima di essi è stata fatta, per essi è cosa acquisita. Se non siamo persone molto ingrate, quegli illustrissimi fondatori di sacre dottrine sono nati per noi, per noi hanno preparato la vita. Siamo guidati dalla fatica altrui verso nobilissime imprese, fatte uscire fuori dalle tenebre verso la luce; non siamo vietati a nessun secolo, in tutti siamo ammessi e, se ci aggrada di venir fuori con la grandezza dell’animo dalle angustie della debolezza umana, vi è molto tempo attraverso cui potremo spaziare. Possiamo discorrere con Socrate, dubitare con Carneade, riposare con Epicuro, vincere con gli Stoici la natura dell’uomo, andarvi oltre con i Cinici. Permettendoci la natura di estenderci nella partecipazione di ogni tempo, perché non (elevarci) con tutto il nostro spirito da questo esiguo e caduco passar del tempo verso quelle cose che sono immense, eterne e in comune con i migliori? Costoro, che corrono di qua e di là per gli impegni, che non lasciano in pace se stessi e gli altri, quando sono bene impazziti, quando hanno quotidianamente peregrinato per gli usci gli tutti e non hanno trascurato nessuna porta aperta, quando hanno portato per case lontanissime il saluto interessato [del cliente verso il patrono, ricompensato in cibarie], quanto e chi hanno potuto vedere di una città tanto immensa e avvinta in varie passioni? Quanti saranno quelli di cui il sonno o la libidine o la grossolanità li respingerà! Quanti quelli che, dopo averli tormentati a lungo, li trascureranno con finta premura! Quanti eviteranno di mostrarsi per l’atrio zeppo di clienti e fuggiranno via attraverso uscite segrete delle case, come se non fosse più scortese l’inganno che il non lasciarli entrare! Quanti mezzo addormentati e imbolsiti dalla gozzoviglia del giorno precedente, a quei miseri che interrompono il proprio sonno per aspettare quello altrui, a stento sollevando le labbra emetteranno con arroganti sbadigli il nome mille volte sussurrato! Si può ben dire che indugiano in veri impegni coloro che vogliono essere ogni giorno quanto più intimi di Zenone, di Pitagora, di Democrito e degli altri sacerdoti delle buone arti, di Aristotele e di Teofrasto. Nessuno di costoro non avrà tempo, nessuno non accomiaterà chi viene a lui più felice ed affezionato a sé, nessuno permetterà che qualcuno vada via da lui a mani vuote; da tutti i mortali possono essere incontrati, di notte e di giorno. XV. Nessuno di essi ti costringerà a morire, tutti (te lo) insegneranno; nessuno di essi logorerà i tuoi anni o ti aggiungerà i propri; di nessuno di essi sarà pericoloso il parlare, di nessuno sarà letale l’amicizia, di nessuno sarà dispendiosa la considerazione. Otterrai da loro qualsiasi cosa vorrai; non dipenderà da essi che tu non assorba quanto più riceverai. Che gioia, che serena vecchiaia attende chi si rifugia in seno alla clientela di costoro! Avrà con chi riflettere sui più piccoli è sui più grandi argomenti, chi consultare ogni giorno su se stesso, da chi udire il vero senza oltraggio, da chi esser lodato senza servilismo, a somiglianza di chi conformarsi. Siamo soliti dire che non era in nostro potere scegliere i genitori che ci sono toccati in sorte: ma ci è permesso nascere secondo la nostra volontà. Vi sono famiglie di eccelsi ingegni: scegli in quale (di esse) vuoi essere accolto; non solo sarai adottato nel nome, ma anche negli stessi beni, che non dovranno essere custoditi né con avarizia né con grettezza: (i beni) diverranno più grandi quanto a più li distribuirai. Costoro ti indicheranno il cammino verso l’eternità e ti eleveranno in quel luogo dal quale nessuno viene cacciato via. Questo è il solo modo di estendere lo stato mortale, anzi di mutarlo in stato immortale. Onori, monumenti, tutto ciò che l’ambizione ha stabilito con decreti o ha costruito con le opere, presto va in rovina, nulla non distrugge e trasforma una lunga vecchiaia; ma non può nuocere a quelle cose che la saggezza ha consacrato; nessuna età (le) cancellerà o (le) sminuirà; quella seguente e poi quelle sempre successive apporteranno qualcosa in venerabilità, poiché appunto da vicino domina l’invidia, più schiettamente ammiriamo quando (l’invidia) e situata in lontananza. Dunque molto si estende la vita del saggio, non lo angustia lo stesso confine che (angustia) gli altri: lui solo è svincolato dalle leggi della natura umana, tutti i secoli gli sono soggetti come a un dio. Passa un certo tempo: lo tiene legato col ricordo; è pressante: se ne serve; sta per arrivare: lo anticipa. Gli rende lunga la vita la raccolta di ogni tempo in uno solo. XVI. Molto breve e travagliata è la vita di coloro che sono dimentichi del passato, trascurano il presente, hanno timori sul futuro: quando saranno giunti all’ultima ora, tardi comprendono, infelici, di essere stati a lungo affaccendati, pur non avendo combinato nulla. E non vi è motivo di credere che si possa provare che essi abbiano una lunga vita col fatto che invochino spesso la morte: li tormenta l’ignoranza in sentimenti incerti, che incorrono in quelle stesse cose che temono; perciò invocano spesso la morte, perché (la) temono. Non è neppure prova credere che vivano a lungo il fatto che spesso il giorno sembri ad essi eterno, che mentre arriva l’ora convenuta per la cena si lamentino che le ore scorrano lentamente; difatti, se talora le occupazioni li abbandonano, ardono abbandonati nel tempo libero e non sanno come disporne e come impiegarlo. E così si rivolgono a qualsiasi occupazione e tutto il tempo che intercorre è per essi gravoso, proprio così come, quando è stato fissato un giorno per uno spettacolo di gladiatori, o quando si attende il momento stabilito di qualche altro spettacolo o piacere, vogliono saltare i giorni di mezzo. Per essi è lungo ogni rinvio di una cosa sperata: ma è breve e rapido quel tempo che amano, e molto più breve per colpa loro; infatti passano da un posto all’altro e non possono fermarsi in un’unica passione. Per essi non sono lunghi i giorni, ma odiosi; ma invece come sembrano brevi le notti che trascorrono nel vino o nell’amplesso delle meretrici! Dsi qui anche la follia dei poeti, che alimentano con le (loro) favole gli errori umani: secondo loro pare che Giove, sedotto dall’amplesso [lett.: addolcito dal piacere], abbia raddoppiato (il tempo di) una notte [è il mito di Alcmena, cui Giove si era presentato sotto le sembianze del marito Anfitrione: raddoppiò la durata della notte, frutto della quale sarebbe stato poi Ercole]. Cosa altro è alimentare i nostri vizi che attribuire ad essi gli dei quali autori e dare al male giustificata licenza mediante l’esempio della divinità? Possono a costoro non sembrare brevissime le notti che acquistano a caro prezzo? Perdono il giorno nell’attesa della notte, la note per paura del giorno. XVII. Gli stessi loro piaceri sono ansiosi ed inquieti per vari timori e subentra l’angosciosa domanda di chi è al massimo del piacere [lett.: di chi massimamente gioisce]: “Fino a quanto ciò (durerà)?”. Da questo stato d’animo dei re piansero la propria potenza, né li consolò la grandezza della propria fortuna, ma li atterrì la fine imminente. Avendo dispiegato l’esercito attraverso enormi spazi di territori e non abbracciandone il numero ma la dimensione, l’orgogliosissimo re dei Persiani [Serse] versò lacrime, perché di lì a cento anni nessuno di tanta gioventù sarebbe sopravvissuto: ma ad essi stava per affrettare il destino proprio lui che (li) piangeva e che ne avrebbe perduti altri in mare, altri in terra, altri in battaglia, altri in fuga ed in breve tempo avrebbe portato alla rovina quelli per i quali temeva il centesimo anno. E pure le loro gioie non sono forse ansiose? Non appoggiano infatti su solide basi, ma sono turbate dalla stessa nullità dalla quale traggono origine. Quali perciò credi che siano i periodi tristi per loro stessa ammissione, quando anche questi (periodi), nei quali si inorgogliscono e si pongono al di sopra dell’umanità, sono poco veritieri? Tutti i beni più grandi sono ansiogeni e non bisogna fidarsi di nessuna fortuna meno che di quella più favorevole: è necessaria nuova felicità per preservare la felicità e si devono fare voti proprio per i voti che si sono esauditi. Infatti tutto quel che avviene per caso è instabile; ciò che assurgerà più in alto, più facilmente (cadrà) in basso. Certamente le cose caduche non fanno piacere a nessuno: è dunque inevitabile che sia penosissima e non solo brevissima la vita di coloro che si procacciano con grande fatica cose da possedere con fatica maggiore. Faticosamente ottengono ciò che vogliono, ansiosamente gestiscono ciò che hanno ottenuto; mentre nessun calcolo si fa del tempo che non tornerà mai più: nuove occupazioni subentrano a quelle vecchie, una speranza risveglia la speranza, un’ambizione l’ambizione. Non si cerca la fine delle sofferenze, ma si cambia la materia. Le nostre cariche ci hanno tormentato: ci tolgono più tempo quelle altrui; abbiamo smesso di penare come candidati: ricominciamo come elettori; abbiamo rinunziato al fastidio dell’accusare: cadiamo (in quello) del giudicare; ha cessato di essere giudice: diventa inquisitore; è invecchiato nell’amministrazione a pagamento dei beni altrui: è tenuto occupato dai propri averi. Il servizio militare ha congedato Mario: (lo) affatica il consolato. Quinzio [Cincinnato] si affanna ad evitare la carica di dittatore [lett.: la dittatura]: sarà richiamato dall’aratro. Scipione marcerà contro i Cartaginesi non ancora maturo per tanta impresa; vincitore di Annibale [a Zama, nel 202 a.C.], vincitore di Antioco [re di Siria, a Magnesia nel 190 a.C.], orgoglio del proprio consolato, garante di quello fraterno [Lucio], se non vi fosse stata opposizione da parte sua, sarebbe collocato accanto a Giove [Scipione rifiutò che la sua statua fosse posta nel tempio di Giove Capitolino]: sommosse civili coinvolgeranno (lui) salvatore dei cittadini e dopo gli onori pari agli dei, rifiutati da giovane, ormai vecchio (lo) compiacerà l’ostentazione di un orgoglioso esilio. Non mancheranno mai motivi lieti o tristi di preoccupazione; la vita si trascinerà attraverso le occupazioni: giammai si vivrà il tempo libero, sempre verrà desiderato. XVIII. Allontànati dunque dalla folla, carissimo Paolino, e ritirati alfine in un porto più tranquillo, spintovi non a causa della durata della vita. Pensa quanti flutti hai affrontato, quante tempeste private hai sopportato, quante (tempeste) pubbliche ti sei attirato; già abbastanza il tuo valore è stato dimostrato attraverso faticosi e pesanti esempi: sperimenta cosa (il tuo valore) può fare senza impegni. La maggior parte della vita, di certo la migliore, sia pur stata dedicata alla cosa pubblica: prenditi un pò di tempo pure per te. E non sto ad invitarti ad una pigra ed inerte inattività, non perché tu immerga quanto c’è in te di vigorosa indole nel torpore e nei piaceri cari al volgo: questo non è riposare; troverai attività più importanti di tutte quelle finora valorosamente trattate, che portai compiere appartato e tranquillo. Tu di certo amministrerai gli affari del mondo tanto disinteressatamente come (di) altri, tanto scrupolosamente come tuoi, con tanto zelo come pubblici. Ti guadagni la stima in un incarico in cui non è facile evitare il malvolere: ma tuttavia, credimi, è meglio conoscere il calcolo della propria vita che (quello) del grano statale. Allontana questa vigoria dell’animo, capacissima delle cose più grandi, da un ufficio sì onorifico ma poco adatto ad una vita serena e pensa che non ti sei occupato, fin dalla tenera età, di ogni cura degli studi liberali perché ti fossero felicemente affidate molte migliaia (di moggi) di grano: avevi aspirato per te a qualcosa di più grande e di più elevato. Non mancheranno uomini di perfetta sobrietà e di industriosa attività: tanto più adatte a portar pesi sono lente giumente che nobili cavalli, la cui generosa agilità chi mai ha oppresso con una gravosa soma? Pensa poi quanto affanno sia il sottoporti ad un onere così grande: ti occupi del ventre umano; il popolo affamato non sente ragioni, non è placato dalla giustizia né piegato dalla preghiera. Or ora, entro quei pochi giorni in cui morì Caio Cesare [Caligola] - se vi è una qualche sensibilità nell’aldilà, sostenendo ciò con animo molto grato, perché calcolava che al popolo Romano superstite rimanessero certamente cibarie per sette o otto giorni -, mentre egli congiunge ponti di navi [Caligola fece costruire un ponte di navi da Baia a Pozzuoli, come ci tramanda Svetonio] e gioca con le risorse dell’impero, si avvicinava il peggiore dei mali anche per gli assediati, la mancanza di viveri; consistette quasi nella morte e nella fame e, conseguenza della fame, la rovina di ogni cosa e l’imitazione di un re dissennato e straniero e tristemente orgoglioso [il re Serse, che costruì un porto sullo stretto dei Dardanelli per la sfortunata spedizione in Grecia]. Che animo ebbero allora quelli a cui era stata affidata la cura del grano pubblico, soggetti alle pietre, al ferro, alle fiamme, a Gaio? Con enorme dissimulazione coprivano un male così grande nascosto tra le viscere e a ragion veduta; infatti alcuni mali vanno curati all’insaputa degli ammalati: per molti causa di morte è stato il conoscere il proprio male. XIX. Rifugiati in queste cose più tranquille, più sicure, più grandi! Credi che sia la stessa cosa se curi che il frumento venga travasato nei granai integro sia dalla frode che dall’incuria dei trasportatori, che non sia madido di umidità accumulata e non fermenti, che sia conforme alla misura e al peso, o se ti accosti a queste cose sacre e sublimi per conoscere quale sia la materia di Dio, quale la volontà, la condizione, la forma; quale condizione attenda il tuo spirito; dove la natura ci disponga una volta usciti dai (nostri) corpi; cosa sia che sostenga ogni cosa più pesante al centro di questo mondo, sospenda al di sopra quelle leggere, sollevi il fuoco in cima, ecciti gli astri nei loro percorsi; e via via le altre cose colme di strabilianti fenomeni? Vuoi, una volta abbandonata la terra, rivolgere l’attenzione a queste cose? Ora, finché il sangue è caldo, pieni di vigore dobbiamo tendere a cose migliori. Ti aspettano in questo genere di vita molte buone attività, l’amore e la pratica delle virtù, l’oblio delle passioni, il saper vivere e il saper morire (lett.: la conoscenza del vivere e del morire), una profonda quiete delle cose. XX. Certamente miserevole è la condizione di tutti gli affaccendati, ma ancor più misera (quella) di coloro che non si danno da fare nemmeno per le loro faccende, dormono in relazione al sonno altrui, camminano secondo il passo altrui, a cui viene prescritto (come) amare e odiare, cose che sono le più spontanee di tutte. Se costoro vogliono sapere quanto sia breve la loro vita, considerino quanto esigua sia la loro quota parte. Perciò quando vedrai una toga pretesta già più volte indossata o un nome famoso nel foro, non provare invidia: queste cose si ottengono a scapito della vita. Affinché un solo anno si dati da loro, consumeranno tutti i loro anni [gli anni si datavano dal nome dei consoli]. Prima di inerpicarsi in cima all’ambizione, alcuni la vita abbandonò mentre si dibattevano tra le prime (difficoltà); ad alcuni, essendo passati attraverso mille disonestà per il raggiungimento della posizione, venne in mente l’amara considerazione di essersi dannati per l’epitaffio; di certuni venne meno l’estrema vecchiaia, mentre come la gioventù attendeva a nuove speranze, indebolita tra sforzi enormi e gravosi. Vergognoso colui che il fiato abbandonò in tribunale, in età avanzata, difendendo litiganti del tutto sconosciuti e cercando l’assenso di un uditorio ignorante; infame colui che stanco del vivere più che del lavorare, crollò tra i suoi stessi impegni; infame colui che l’erede, a lungo trattenuto, deride mentre egli muore dedicandosi ai suoi conti. Non posso tralasciare un esempio che mi sovviene: Sesto Turranio è stato un vecchio di accurata coscienziosità, che dopo i novant’anni, avendo ricevuto inaspettatamente da Caio Cesare [Caligola] l’esonero dalla procura, diede disposizioni di essere composto sul letto e di esser pianto come morto dalla famiglia attorno a lui. Piangeva la casa l’inattività del vecchio padrone e non cessò il lutto prima che gli fosse restituito il suo lavoro. A tal punto è piacevole morire affaccendato? Lo stesso stato d’animo ha la maggior parte: in essi vi è più a lungo il desiderio che la capacità del lavoro; combattono contro la decadenza del corpo, la stessa vecchiaia giudicano gravosa e con nessun altro nome, perché li mette da parte. La legge non chiama sotto le armi a partire dai cinquant’anni, non convoca il senatore dai sessanta: gli uomini ottengono il riposo più difficilmente da se stessi che dalla legge. Nel frattempo, mentre sono rapinati e rapinano, mentre vicendevolmente si tolgono la pace, mentre sono reciprocamente infelici, la vita è senza frutto, senza piacere, senza nessun progresso dello spirito: nessuno ha la morte davanti agli occhi, nessuno non proietta lontano le speranze, alcuni poi organizzano pure quelle cose che sono oltre la vita, grandi moli di sepolcri e dediche di opere pubbliche e giochi funebri (lett.: presso il rogo) ed esequie sfarzose. Ma sicuramente i funerali di costoro, come se avessero vissuto pochissimo, devono celebrarsi alla luce di fiaccole e ceri. CICLO DI VITA
La vita è un'avventura con un'inizio deciso da altri, una fine non voluta da noi, e tanti intermezzi scelti a caso dal caso. Roberto Gervaso CICLO DI VITA INFANZIA SAROYAN WILLIAM, LA COMMEDIA UMANA,
OVERSEAS EDITIONS, Inc New York, 1945
IL PICCOLO Ulisse Macauley stava un giorno tutto intento ad osservare il nuovo buco di talpa, che c'era nel giardinetto dietro casa, a Santa Giara Avenue, in Itaca, cittadina della California. La talpa di questo nuovo buco buttava fuori gran quantità di terriccio fresco e spiava il ragazzine, che era certamente un estraneo, ma non forse proprio un nemico. Prima che Ulisse avesse finito di godersi questo miracolo, uno dei tanti uccelli di Itaca volò dietro il fogliame del vecchio noce, e, preso posto su un ramo, dette la stura alla sua gioia, richiamando così l'attenzione del ragazzo dalla terra all'albero. Un treno merci rombava e sbuffava da lontano. Il ragazzine stette a sentire: la corsa del treno gli faceva tremare la terra sotto ai piedi. B allora scappò di gran corsa, e gli parve di andar più svelto di tutte le cose del mondo. Arrivò proprio in tempo per vedere tutto il treno al passaggio al livello, dalla locomotiva all'ultimo carro. Fece segno con la mano al macchinista, ma quello non si smosse. Fece segno a cinque o sei altri passeggeri, e anche quelli niente. Avrebbero potuto benissimo ricambiar il gesto, ma non lo fecero. E in ultimo, vide un negro che si sporgeva da un carro merci: il suo canto gli giunse sopra il fracasso del treno. «Oh, non piangere, mia cara. Oh, non pianger tutto il dì ! Canteremo una canzone — la canzone della casa, Della nostra vecchia casa — nel lontano Kentucky. » Ulisse fece segno anche al negro, e allora si vide una gran cosa straordinaria, che nessuno mai se la sarebbe aspettata: quell'uomo nero e diverso da tutti gli altri fece segno a lui e gridò: «Vado a casa, ragazzo! Me ne torno a casa mia!» E continuarono a salutarsi con gran gesti, finché il treno quasi non sì vedeva più. A questo punto Ulisse si guardò intorno, ed ecco, vide lì proprio intorno a sé questo suo mondo strano, pieno di gramigne e rottami, meraviglioso, illogico, eppure bellissimo. Un vecchio con un sacco sulle spalle veniva giù lungo la ferrovia. Anche a lui Ulisse mandò un saluto con la mano, ma quello era troppo vecchio e stanco per gradire le espansioni di un ragazzino. Lo guardò come fossero già morti tutti e due. E così Ulisse andò pian piano verso casa, e dentro di sé ascoltava ancora quel treno, e il canto dì quel negro e le allegre parole: «Vado a casa, ragazzo! Me ne torno a casa mia.» Si fermò vicino a un nespolo per ripensarci meglio, prendendo a calci le nespole marce e giallastre, che stavano in terra. E, passato un momento, fece il sorriso specialissimo dei Macauley, quel sorriso gentile, saggio e riservato che dice di sì a tutte le cose. Quando voltò all'angolo e scorse la casa dei Macauley, Ulisse cominciò a saltellare su un piede e poi sull'altro; inciampò e cadde dalla gioia, ma si rimise in piedi e riprese la corsa. La mamma era nel giardinetto a dar da mangiare ai polli, e guardava il suo bambino correre, cascare, rialzarsi, inciampare di nuovo. Svelto ma tranquillo, le venne vicino, e poi andò a cercare le uova nel cesto delle galline. Ne trovò uno. Lo guardò ben bene per \in momento, lo prese, lo portò alla mamma, e glielo porse cautamente; e con questo intendeva dire una cosa che nessun uomo può indovinare e nessun bambino può ricordare per raccontarla poi. CICLO DI VITA INFANZIA SAROYAN WILLIAM, LA COMMEDIA UMANA,
OVERSEAS EDITIONS, Inc New York, 1945
Che cos'è che tieni in mano? Una lettera? Ho finito di parlare. Via, leggi la tua lettera, ragazzo.» «E una lettera di mio fratello Marco,» disse Omero". «Non ho ancora avuto un momento per aprirla.» «Aprila dunque,» disse il vecchio telegrafista. «Leggi la lettera di tuo fratello. Leggila ad alta voce.» «Vuoi sentire quello che dice, signor Grogan?» disse Omero. «Sì, se non ti dispiace, mi farebbe molto piacere di sentirla, » disse il vecchio telegrafista, e fece un'altra bevuta. Omero lacerò la busta, tirò fuori la lettera di suo fratello Marco, la spiegò, e cominciò a leggere molto lentamente. «Caro Omero» — lesse. «Prima di tutto, ogni cosa che mi appartiene in casa è tua ormai — da dare poi a Ulisse quando tu non saprai più che fartene: i miei libri, il grammofono, i dischi, i miei vestiti quando ti staranno, la bicicletta, il microscopio, gli arnesi da pesca, la collezione di minerali e tutte le altre cose che mi appartengono son tue. Le cedo a te, piuttosto che a Bellina, perché ora sei tu l'uomo della famiglia Macauley di Itaca. Quello che ho guadagnalo l'anno scorso alla fabbrica, l'ho dato alla Mamma, naturalmente, per essere d'aiuto in casa. So però che non può minimamente bastare, e presto la mamma e Bellina penseranno di mettersi a lavorare. Non ti posso chiedere di impedirglielo, ma spero che penserai da te a non permetterglielo. Credo che lo farai, perché io pure farei così. Certo la Mamma vorrà andare a lavorare e Bellina pure. Ma questa sarà per te una ragione di più per opporti. Non so come farai tu a mandare avanti la baracca e a, studiare nello stesso tempo, ma ho fiducia che troverai la maniera. La Mamma riceve la mia paga di soldato, salvo qualche dollaro che devo tenere per me, ma questi quattrini non possono bastare. M'è difficile chiedere tanto a te, quando io stesso non ho cominciato a lavorare prima di diciannove anni; ma ho una strana fiducia che tu sarai capace di fare quello che non è riuscito di fare a me. Tu mi manchi molto, si capisce, e penso a te costantemente. Sono sereno, e anche se non ho mai creduto nelle guerre, — e so che sono assurde, anche quando sono necessarie, — sono orgoglioso di servire il mio paese, che per me significa Itaca, la nostra casa e tutti i Macauley. Non riconosco nemici al mondo, perché nessun essere umano può essere mio nemico. Chiunque esso sia, di qualunque colore abbia la pelle, per quanto errate possano essere le sue opinioni, mi è amico, e non nemico, perché egli non è diverso da me. Io non ce l'ho con lui, ma con quella parte di lui che prima di tutto cerco di distruggere in me stesso. Non mi sento un eroe. Non sono portato a sentimenti di questo genere. Non odio nessuno. Non mi sento neanche patriottico, perché è naturale per me amare il mio paese, i suoi abitanti, le sue città, la mia casa e la mia famiglia. Preferirei non essere soldato. Preferirei che non ci fossero guerre, ma siccome sono soldato e siccome una guerra c'è, è da un pezzo che mi sono proposto di fare il possibile per essere un buon soldato. Non so affato che cosa mi aspetti, ma qualunque cosa sia, sono umilmente pronto ad accettarla. Ho una gran paura — te lo devo dire; ma so che quando verrà il momento, farò il mio dovere, e forse anche un po' più del mio dovere; ma voglio che tu sappia che io non obbedisco a nessun comando, ma solo a quello che mi comanda il cuore. Mi faranno compagnia ragazzi di tutta l'America, di migliaia di città come Itaca. Potrei morire in questa guerra. Devo farmi coraggio e dirtelo. Non mi piace per niente l'idea di morire. Più di ogni altra cosa al mondo desidero tornare a Itaca, e vivere molti, molti anni con te, con mia madre, mia sorella e mio fratello. Desidero tornare per Maria e per la casa e la famiglia che metteremo su insieme. E probabile che si parta presto — per il fronte. Non si sa quale fronte, ma è sicuro che partiremo presto. Può darsi quindi che tu non riceva più lettere mie per un pezzo. Spero però che questa non sia la mia ultima lettera. Se così fosse, sentimi vicino lo stesso. Non credere che io sia andato via per sempre. Fa che gli altri rron lo credano. Ho un amico qui che è orfano — un trovatello; è strano che fra tutti i ragazzi proprio lui sia diventato mio amico. Si chiama Tobey George. Gli ho parlato di Itaca e della nostra famiglia. Un giorno lo porterò a Itaca con me. Quando leggerai questa lettera, non essere triste. Sono contento di essere io quello dei Macauley che è in guerra, perché sarebbe peccato, e non sarebbe giusto, che fossi tu. Posso scriverti ora quello che non ti ho mai potuto dire a voce. Tu sei il migliore dei Macauley. Devi seguitare ad essere il migliore. Niente te lo deve impedire. Hai quattordici anni, ora, ma devi vivere fino a venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta. E negli anni della tua vita, devi vivere per l'eternità. Credo che lo farai. Io ti guarderò sempre. Tu rappresenti quello per cui noi combattiamo. Sì, tu, mio fratello. Come potrei dirti queste cose, se fossimo insieme? Tu mi salteresti addosso e ti metteresti a far la lotta con me, e diresti che son pazzo; ma malgrado tutto, quello che ho detto è vero. Ora scriverò qui il tuo nome, perché tu te ne ricordi: Omero Macauley. Ecco quello che sei. Mi manchi molto. Non vedo l'ora di rivederti. Quando questo si avvererà, quando saremo di nuovo insieme, faremo la lotta, e mi lascerò buttare a terra da te in salotto, davanti alla Mamma e a Bettina e. a Ulisse, e forse anche a Maria; ti lascerò vincere, perché sarò tanto felice di rivederti. Dio ti benedica. Addio. Tuo fratello, Marco. » cinema film La cinematografia è un nuovo modo di scrivere, e quindi ha una sensibilità altra, un altro movimento interiore. Non si tratta di "arte di serie B" o di sintesi succedanea rispetto a teatro, letteratura o pittura, ma della scoperta di altri mondi dentro di noi. CINEMA LETTERATURA Non è un paese per vecchi: "Joel & Ethan Coen: così hanno tradito un grandissimo libro e ne hanno fatto un grandissimo film" da Biblioteca di Garlasco di Silvana "Non è un paese per vecchi è il primo verso di una poesia di William Butler Yeats intitolata Sailing to Byzantium, in cui il poeta irlandese immortala le generazioni destinate a scomparire e parla di 'ciò che è passato, sta passando e sta per venire'.
Quando lo ha scelto come titolo del suo penultimo romanzo, Cormac McCarthy ha utilizzato il verso per commentare lo stato d'animo del suo protagonista, lo sceriffo Ed Tom Bell, un uomo prossimo alla vecchiaia, che parla ripetutamente del tempo passato e pronuncia frasi come: 'Ero sceriffo di questa contea quando avevo venticinque anni'. Chiamati da Scott Rudin a dirigere l'adattamento cinematografico del romanzo, Joel ed Ethan Coen hanno immaginato subito per il ruolo dello sceriffo un attore carismatico come Tommy Lee Jones, ma hanno modificato il personaggio: il libro, che racconta il violentissimo inseguimento di un cacciatore che si imbatte in una valigia con due milioni di dollari, da parte di un assassino psicopatico, un bounty killer e vari narcotrafficanti, è punteggiato dal diario dello sceriffo, che riflette sul male e sulla sua misteriosa natura. Il film è molto fedele al libro sul piano del plot, ma minimizza le riflessioni filosofiche del protagonista, che compaiono in una voce off iniziale e sono integrate in alcuni dialoghi. Non si tratta solo di una scelta tesa a spettacolarizzare l'adattamento cinematografico (il primo nella carriera dei Coen): a differenza di McCarthy, i due registi non sono interessati a riflettere sul perché esista la violenza, ma ne sembrano, invece, affascinati e risolvono la storia sul piano delle immagini forti e dei dettagli apparentemente insignificanti che risultano però rivelatori, degli effetti sorprendenti. Fanno, in altre parole, del grande, grandissimo cinema, che esalta le potenzialità drammaturgiche di una caccia all'uomo avvincente dal primo all'ultimo fotogramma, ma rischia di tradire l'essenza più intima e dolente del romanzo del grande scrittore americano. Non è un paese per vecchi, che ha ottenuto meritatamente otto candidature all'Oscar, è stato girato nei luoghi descritti nel romanzo, tra il New Mexico e il confine meridionale del Texas. E' l'area semidesertica dove è già stata ambientata la trilogia della frontiera di McCarthy e in cui, sulla montagna più alta, campeggia enorme la scritta 'La Bibbia è la verità, leggila'. E' un mondo in cui gli abitanti vivono costantemente alla presenza della morte e i Coen immortalano questa condizione negli sguardi disincantati dei protagonisti, nell'ironia senza speranza e nelle esplosioni di crudeltà senza senso. Una battuta chiave è: 'Non puoi fermare quello che sta arrivando'. [...] Ma l'invenzione più affascinante e azzardata è quella relativa al personaggio di Anton Chigurh. Fedeli all'insegnamento di Hitchcock, secondo cui più è riuscito il cattivo più è riuscito il film, i Coen hanno dedicato la massima attenzione a questo assassino psicopatico, che hanno trasformato nel vero protagonista. [...] Chigurh è una raffigurazione del male assoluto e risulta spaventoso proprio grazie alla scelta di farlo agire goffamente: il totale distacco con cui uccide, che si alterna a lampi di furia assassina, ne fanno uno dei malvagi più memorabili della storia del cinema. Il film ha un altro elemento vincente: non ha alcun commento musicale. I Coen non hanno mai fatto un cinema realistico, e anche in questo caso non cercano l'effetto verità: è la natura a parlare, con i suoi suoni esterni, e insieme a essa il fragore delle armi. Il panorama che si estende sconfinato intorno ai protagonisti, filmato con colori solenni da Roger Deakins, sembra identico a quello di milioni di anni fa, ma l'intervento dell'uomo porta costantemente volgarità e degrado. In quella vasta area bruciata dal sole, dove un flusso di clandestini attraversa ogni giorno il Rio Grande, gli uomini si massacrano per una volontà di dominio che nega la dimensione del sogno e dell'emancipazione sociale. In un universo così degradato non può che trionfare il diabolico Anton Chigurh: lui non ha né sogni, né ambizioni, e testimonia l'ineluttabilità del male in un mondo che ha scelto le tenebre. E' questo il motivo per cui 'non è un paese per vecchi': chiunque abbia a cuore valori o sentimenti è destinato a soccombere, e solo lo sceriffo Bell sa che il passato non è necessariamente migliore del presente, ma porta almeno con sé la dignità del vissuto." (da Antonio Monda, Joel & Ethan Coen: così hanno tradito un grandissimo libro e ne hanno fatto un grandissimo film, "Il Venerdì di Repubblica", 15/02/'08) "No Country for Old Men: Texas Noir" (da NYTimesBooks) "No Country For Old Men: Are the Coens finally growing up?" (da Telegraph.co.uk) CITARE "ripetere gli scritti gli uni degli altri, servono da strumenti a questo Spirito per dare al mondo opere sempre nuove. E se le anime sapessero sottoporsi a quest'azione, la loro vita non sarebbe che una continuazione delle divine scritture, le quali si esprimono fino alla fine del mondo non più con l'inchiostro e sulla carta, ma nei cuori."
J.P. de Caussade, L'abbandono alla divina provvidenza, (proposta da Prisma) citare Perché citare? I motivi sono due: la modestia e l'orgoglio. Si cita per modestia, riconoscendo che la giusta convinzione che condividiamo è stata originata da altri e che noi siamo arrivati dopo. Si cita per orgoglio, poiché è più dignitoso e più cortese, secondo quanto disse Borges (mi perdoneranno la citazione?), andare orgogliosi delle pagine che si sono lette che non di quelle che si sono scritte […] citare è un altro modo di dire "non ho vissuto invano" (in questo caso "non ho letto invano") e anche "stavo pensando a te" citazioni Citazione: motivo linguistico, figurativo o sonoro tratto da un contesto estraneo, quindi facilmente riconoscibile, e inserito in un contesto attuale. La citazione è uno dei concetti con cui convenzionalmente si indica la memoria intertestuale dei testi nella filologia tradizionale. Un altro "interlocutore", assente, viene destato ed evocato nel proprio discorso. Nel Medioevo e nell'Antichità si citava "a senso", non letteralmente - e quindi propriamente in modo "errato" - invece, a partire dal XVI secolo, le virgolette indicano la letteralità dell'estratto. Attraverso la citazione un testo dichiara di richiamarsi all'autorità di un altro e interpreta un presente trascorso come tuttora efficace. La citazione è una modalità di formazione della memoria attraverso la ripetizione. Essa è attestata e messa a disposizione in raccolte o antologie di citazioni, i "luoghi", in cui la circolazione della citazione si sedimenta ed emerge la tensione tra ripetitività e ricercatezza. Nella misura in cui la citazione fa tornare presente il passato inserendolo in un nuovo contesto essa può fungere da caso paradigmatico, o addirittura da modello del ricordo in generale. La facile citabilità e la dignità di citazione indicano due aspetti della citazione come modalità di trasmissione culturale.
Il primo aspetto corrisponde alla forma con cui qualcosa si insinua nella memoria. Si indica con essa una sorta di posteriorità di ciò che viene ricordato: tale posteriorità non è un presupposto, ma piuttosto un effetto della citazione
Il secondo aspetto è un modo dell''auctoritas, di quell'autorità che attraverso la citazione viene chiamata in causa e così trasferita sulla citazione stessa. L'atto di citare esibisce e dimostra il suo presupposto: la disponibilità di ciò che viene richiamato e ripetuto e l'autorità del discorso citato. Ciò che viene presentificato nella citazione racchiude un presente che solo la citazione conquista e che non è dato prima della ripetizione in essa: una presenza che si da a posteriori, postuma. Nella citazione l'evocazione del ricordo è un "travisare", il contesto da cui la citazione è tratta viene spezzato e la citazione ne viene estrapolata per poter essere conservata e quindi poter tornare in uso. W. Benjamin ha proposto una formula per indicare questo nesso di distruzione e permanenza: «alcuni tramandano le cose rendendole intangibili e conservandole, altri le situazioni, mettendole a disposizione e liquidandole» (in II carattere distruttivo). In quanto citazioni le parole o le frasi sono svincolate dal contesto in cui generano senso. Trasferito e inserito in un'altra costellazione ciò che viene citato diviene leggibile tramite il testo in cui è citato, stabilendo nuove connessioni e acquisendo un nuovo contesto. Anche la scrittura della storia può essere definita - in senso lato - come una forma di «citazione» attraverso cui «quello che di volta in volta è l'oggetto storico viene strappato al suo contesto» (Benjamin, I passages di Parigi) e in tal modo conservato per divenire finalmente leggibile. La dignità di citazione e la facile citabilità impostano la differenza fra la consacrazione di un nome attraverso la citazione e l'anonimità della citazione. Come topos, fra l'attribuzione di autorità attraverso la voce di una personalità del passato e l'anonimato di ciò che viene semplicemente ripetuto. Ciò che viene citato abbastanza di frequente non esige più alcuna autorità alle spalle, ma piuttosto una ricorrenza, che lo rende un luogo comune, e una ripetibilità (meme). Il "detto proverbiale" può anche aver conservato nel lessico delle citazioni il riferimento alla fonte originaria , tuttavia, più è proverbiale, meno fa riferimento a quest'origine. La citazione è una cerniera fra passato e presente nella misura in cui interrompe il discorso presente per richiamare il passato e inserirlo come frammento. La condizione interessa il discorso attuale, ma mantiene lo stesso la possibilità, che le aleggia intorno come uno spettro, di un'ulteriore penetrazione del testo attraverso altri discorsi.
In: Nicolas Pethes, Jens Ruchatz (edizione italiana a cura di Andrea Borsari, Dizionario della memoria e del ricordo, Bruno Mondadori, 2002, pagg. 87-89 città amsterdam Amsterdam
A portarmi fu il caso tra le nove e le dieci d’una domenica mattina svoltando a un ponte, uno dei tanti, a destra lungo il semigelo d’un canale. E non questa è la casa, ma soltanto – mille volte già vista – sul cartello dimesso: “Casa di Anna Frank”.
Disse più tardi il mio compagno: quella di Anna Frank non dev’essere, non è privilegiata memoria. Ce ne furono tanti che crollarono per sola fame senza il tempo di scriverlo. Lei, è vero, lo scrisse. Ma a ogni svolta a ogni ponte lungo ogni canale continuavo a cercarla senza trovarla più ritrovandola sempre. Per questo è una e insondabile Amsterdam nei suoi tre quattro variabili elementi che fonde in tante unità ricorrenti, nei suoi tre quattro fradici o acerbi colori che quanto è grande il suo spazio perpetua, anima che s’irraggia ferma e limpida su migliaia d’altri volti, germe dovunque e germoglio di Anna Frank. Per questo è sui suoi canali vertiginosa Amsterdam.
Vittorio Sereni CLASSICI PERCHE' LEGGERE I CLASSICI
Nel 1981 Calvino pubblicò un breve saggio sul perchè leggere i classici (e su cosa si debba intendere per un "classico").
1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito "sto rileggendo..." e non "sto leggendo..."
2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli
3. I classici sono libri che esercitano un'influenza particolare sia quando s'impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale
4. D'un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima
5. D'un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura
6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire
7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume)
8. Un classico è un'opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso
9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscere per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti
10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani
11. Il "tuo" classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui
12. Un classico è un libro che viene prima degli altri classici; ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia
13. E' classico tutto ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno
14. E' classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l'attualità più incompatibile fa da padrona.
Italo Calvino. Da "Perchè leggere i classici", 1981
==================== Sulla lettura: Il decalogo dei diritti del lettore Non l'ho letto e non mi piace Contorsioni di una lettrice Tecniche di sopravvivenza di una lettrice comune L'arte di non leggere complotto contro l'America di PattyBruce
"Il complotto contro l'America" - Philip Roth - Einaudi ET - pagg. 410 - €. 12,80
Philp Roth si cimenta nel romanzo ucronico, quel genere che si potrebbe chiamare "fantastoria" perché reinventa la Storia tramite la modificazione di alcuni avvenimenti, che danno il via ad una catena di conseguenze possibili, che nella realtà non si sono mai verificate (un altro esempio famoso di romanzo ucronico è "La svastica sul sole" di P.K.Dick).
Stati Uniti 1940: alle elezioni presidenziali C.A. Lindbergh, noto isolazionista e filonazista (nonché eroe dell'aeronautica che trasvolò per primo l'oceano a bordo dello "Spirit of St.Louis") ottiene una vittoria schiacciante contro F.D. Roosevelt, che si candida per il suo terzo mandato presidenziale. Da questo momento inizia il calvario per gli ebrei americani, e la famiglia del piccolo Philip viene travolta da una serie di tragedie a catena.
Tutto plausibile, tutto possibile, narrato dal punto di vista di un bambino e della sua comunissima famiglia di ebrei americani, che sono e si sentono americani come chiunque altro e vivono la loro semplice esistenza strettamente legata ai loro vicini a Newark, in un quartiere quasi totalmente abitato da ebrei. Riflettendo, ho pensato che se non avessi saputo nulla della Storia degli ultimi 68 anni, avrei creduto che questa fosse una storia vera, testimonianza di chi ha vissuto un periodo particolarmente cupo e pericoloso. Come sempre, la capacità di Roth di creare e descrivere personaggi straordinari nella loro semplicità, mi incanta, e il suo stile di scrittura mi trasporta letteralmente in altri luoghi ed in altri tempi. comunicare "Parliamoci chiaro" Ho sempre temuto questa frase, che non è mai un invito alla trasparenza, ma l'apertura delle ostilità comunicare asimmetria comunicativa Ad rivum eundem Lupus et Agnus venerant siti compulsi: superior stabat Lupus, longeque inferior Agnus: tunc fauce improba latro incitatus jurgii causam intulit. Cur, inquit, turbulentam fecisti mihi istam bibenti? Laniger contra timens, qui possum, quaeso, facere quod quereris, Lupe? A te decurrit ad meos haustus liquor. Repulsus ille veritatis viribus, ante hos sex menses male, ait, dixisti mihi. Respondit Agnus: equidem natus non eram. Pater hercle tuus, inquit, maledixit mihi. Atque ita correptum lacerat injusta nece. Haec popter illos scripta est homines fabula, qui ficti caussi innocentes opprimunt.
Un lupo e un agnello, spinti dalla sete, si ritrovarono a bere nello stesso ruscello. Il lupo era più a monte, mentre l'agnello beveva a una certa distanza, verso valle. La fame però spinse il lupo ad attaccar briga e allora disse: "Perché osi intorbidarmi l'acqua?" L'agnello tremando rispose: "Come posso fare questo se l'acqua scorre da te a me?" "E' vero, ma tu sei mesi fa mi hai insultato con brutte parole". "Impossibile, sei mesi fa non ero ancora nato". "Allora" riprese il lupo "fu certamente tuo padre a rivolgermi tutte quelle villanie". Quindi saltò addosso all'agnello e se lo mangiò. Questo racconto è rivolto a tutti coloro che opprimono i giusti nascondendosi dietro falsi pretesti.
Il lupo e l'agnello Lupus et agnus di Fedro comunicare film Fare un film significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa prolungare i giochi dell'infanzia comunicare film Il senso di un film è incorporato al suo ritmo come il senso di un gesto è immediatamente leggibile nel gesto, e il film non vuoi dire nient'altro che se stesso. [...] È la felicità dell'arte di mostrare come qualcosa diventi significato [...] grazie alla disposizione temporale o spaziale degli elementi. comunicare lingue straniere non utilizzare mai un'espressione straniera, un termine scientifico o una parola difficile se puoi trovare l'equivalente nel linguaggio quotidiano comunicare TELEVISIONE La televisione è un'invenzione che vi permette di farvi divertire nel vostro soggiorno da gente che non vorreste mai avere in casa COMUNICAZIONE E’ facile dire: “Eccomi!” - Bisogna anche esserci.
Stanisław Jerzy Lec, Pensieri spettinati comunicazione ascolto Barthes ha distinto tra tipi di ascolto: quello degli indizi sonori, dei nostri progenitori, animali e primati: l'ascolto come allarme. L'ascolto come decifrazione: è l'ascolto dell'uomo, decifra e interpreta. E l'ascolto «applicato»: l'atto intenzionale dell'ascolto, fenomeno del tutto moderno. Questo tipo di ascolto, quello contemporaneo, è tuttavia ancora un ascolto panico: aperto a tutte le forme di ascolto. Qui siamo vicini all'ascolto delle spie, delle talpe. Parlando di questo terzo ascolto Barthes ha scritto che non c'è più da una parte chi si confida, confessa, e dall'altra chi ascolta, tace, sanziona, valuta: ciascuno è nello stesso tempo ascoltato e a sua volta ascolta. La contemporaneità è dunque il paradiso delle spie? Barthes parla di «ascolto libero», un ascolto che circola e scambia, quindi disgrega con la sua mobilità la rete rigida degli antichi luoghi d'ascolto: il carcere, il confessionale, la camera da letto. COMUNICAZIONE CONVERSAZIONE le discussioni pacate sono quelle che prediligo perchè sono certamente più costruttive. Si può pensare in maniera opposta ma discutere in modo civile, così si riesce a trovare sempre un punto di contatto.
Come posso evito le polemiche fini a se stesse perchè non aggiungono niente, di solito. COMUNICAZIONE CONVERSAZIONE CONFLITTI "Per esercitare la nostra umiltà e pazienza Dio si serve di persone che ci fanno male. Un giorno vedremo quanto ci sono utili coloro che ci crocifiggono."
Jacques Bénigne Bossuet COMUNICAZIONE internet RETE Milano, 5 giugno 2007
Nell’era delle tecnologie il 52% degli italiani non usa ancora Internet. E parliamo di qualcosa come 26.6 milioni di italiani. Se poi si analizza quel 31% che rappresenta la reale “avanguardia tecnologica” si assiste ad un’ulteriore suddivisione: a fronte di un 14% della popolazione (qualcosa come 7.4 milioni di italiani) che abbina un uso consapevole, interattivo ed evoluto delle tecnologie con un’elevata propensione al consumo di contenuti culturali (sono i cosiddetti Eclettici), troviamo un 17%, pari a 8.9 milioni di italiani (i cosiddetti Technofan) che utilizzano le tecnologie per lo più in modo passivo, come svago o per comunicare. Dai dati che emergono dall’indagine probabilmente questo gap rischia nel futuro di aumentare.
E’ questa la fotografia (in allegato la sintesi) tracciata da ACNielsen nell’indagine “Liquidi e mutanti. Industrie dei contenuti & consumatori digitali” commissionata dall’Osservatorio permanente sui contenuti digitali, presentata oggi a Roma. La ricerca è stata realizzata su un campione rappresentativo della popolazione italiana di 8.500 individui con più di 14 anni per la parte quantitativa e su specifici focus group per cinque tipologie di utilizzatori di contenuti (dai 13 ai 50enni) per la parte qualitativa. Cosa ne è emerso?
Gli italiani un popolo con bassa propensione alla cultura e tecnologicamente poco evoluti? Ad orientare gli utenti verso un utilizzo evoluto e interattivo delle nuove tecnologie (più cultura=uso più consapevole ed evoluto delle tecnologie) non è tanto la disponibilità o l’uso frequente delle tecnologie nuove e di tendenza: la tecnologia di per sé costituisce uno strumento neutro. Quello che fa la differenza è l’abitudine alla fruizione di consumi culturali. Maggiore è il consumo di cultura e maggiore è la propensione all’uso di tecnologie innovative: sono gli Eclettici, forti lettori, alti acquirenti di musica e DVD e consumatori di cinema, i più forti utilizzatori delle potenzialità offerte dal Web 2.0.
I forti fruitori di programmi TV tendono invece a un consumo tecnologico ridotto: più che di digital divide è quindi più corretto parlare di cultural divide. Non emergono nemmeno grandi differenze tra Nord e Sud, conta invece molto di più se si vive in una grande città o in un piccolo centro.
E il futuro? Uso evoluto delle tecnologie e forti consumi culturali sono strettamente legati: dall’indagine emerge chiaramente però che - ed è questo il segnale più preoccupante - anche i genitori tecnologicamente più avanzati, non riescano a trasmettere la passione per la cultura ai figli, che, di conseguenza sempre di più, utilizzeranno le tecnologie come puro gadget. Anche i figli di genitori Eclettici, legati cioè alle tecnologie e alla cultura, stanno migrando nel gruppo dei Technofan, sicuramente emancipati in fatto di tecnologia, ma poco dotati di strumenti culturali che permettano loro di controllarla e gestirla.
Le ragazze hanno più confidenza con le tecnologie? Un segnale positivo viene dalle più giovani: non solo le 14- 24enni usano Internet quanto i loro colleghi maschi ma l’utilizzo settimanale di forum e blog vede un’incidenza superiore tra le donne giovani (14-24 anni) rispetto ai loro coetanei maschi (43% vs 35% tra le 14-19enni e 28% vs 19% tra le 20-24enni, base utilizzatori internet), probabilmente per maggior bisogno confronto e condivisione. A partire dai 25 anni sono invece i maschi ad essere maggiori utilizzatori. Al contrario l’utilizzo di sistemi di file sharing risulta un “fatto maschile” in tutte le fasce d’età.
Le piattaforme più utilizzate: (almeno una volta alla settimana) il PC con DVD (39%) e il cellulare conMP3/video/fotocamera (33%), seguito dal lettore DVD (26%). Lettore MP3/i-Pod e TV LCD/al plasma seguono con il 15%. Sistemi di messaggistica istantanea (Messenger, Skype) e forum/blog sono i servizi Internet più frequentemente utilizzati: lo usano almeno una volta la settimana rispettivamente il 27% e il 22% degli utilizzatori di internet.
Gli acquisti di contenuti online: fenomeno emergente. L’acquisto di CD, DVD e libri avviene ancora massicciamente offline. L’online è un fenomeno ancora contenuto che interessa ad oggi circa il 10% degli heavy user di internet, coloro che si connettono da casa tutti i giorni o quasi (e il 3% se riportato alla popolazione italiana nel suo complesso). Il ruolo di internet è ancora solo emergente con la parziale eccezione del P2P per la musica (15% della popolazione) e i video (11% della popolazione) ok. Il free download per la musica si attesta all’8% della popolazione.
“L’indagine evidenzia in modo chiaro che l’utilizzo consapevole ed evoluto delle tecnologie dipende in gran parte dagli strumenti culturali di cui gli utilizzatori sono dotati – ha sottolineato il presidente del Gruppo Editoria Digitale di AIE, Fernando Folini – Solo creando condizioni per il loro sviluppo sarà possibile sfruttare e sviluppare al meglio le opportunità che le innovazioni man mano presenteranno. Per questo AIE, AIDRO, FIMI, UNIVIDEO e CINECITTÁ HOLDING hanno scelto di dare vita ad un osservatorio permanente. Da questi dati ripartiamo, non solo per avvicinare la cultura e i contenuti culturali in digitale ai giovani e meno giovani, ma anche per capire come sensibilizzare al meglio gli italiani su temi delicati per noi irrinunciabili come la tutela del diritto d’autore”.
IN http://www.acnielsen.it/news/Osservatorio.shtml comunicazione nemico Diffama sempre il tuo nemico. Vedrai che qualcosa resta nella memoria della gente. Francis Bacon comunicazione parole amare le parole col gusto che il musicista ha per i suoni ed i timbri, il pittore per i colori e gli impasti, lo scultore per le forme e la pelle della materia COMUNICAZIONE SCRITTURA AFORISMA L’aforisma è una breve frase che esprime in modo conciso e sostanzioso riflessioni e considerazioni personali, basate su una lunga esperienza di vita e un’attenta osservazione della realtà (dal greco aphorizein, delimitare). Fa parte, sin dall’epoca classica, di una famiglia di forme brevi del modo «gnomico» o moraleggiante: il proverbio, la sentenza, la massima, l’epigramma. Si distingue dalle forme più vicine, come il proverbio, perché non vuol essere espressione di un’esperienza generale, e la sentenza (o massima), perché è più sciolto, arguto, soggettivo. Fra le sue caratteristiche stilistiche: l’uso di figure come l’antitesi, il paradosso, l’enfasi, l’iperbole. Spesso presenta anche una certa ambiguità e allusività; il che significa che l’aforisma si presenta al lettore non come forma chiusa in sé, ma sollecitandolo a lasciarsi coinvolgere, a contribuire con una propria riflessione. Gli aforismi sono a volte raccolti per temi (come avviene nelle opere di Kraus e di Nietzsche), oppure senza nessun ordine, come «frammenti di pensieri» posti l’uno accanto all’altro. Già praticati nella letteratura classica e in quella europea del passato (hanno spesso un carattere aforistico, per esempio, i Ricordi di Guicciardini, i Saggi di Montaigne, i Pensieri di Pascal), gli aforismi sono divenuti un modo d’espressione tipico di quegli scrittori moderni che privilegiano l’esperienza soggettiva e intuitiva del pensiero, preferiscono la penetrazione al sistema, rifiutano i valori stabiliti e chiusi e le grandi costruzioni filosofiche (F.Schlegel, A. Schopenauer, F.Nietzsche, S.Kierkegaard, P.Valéry, K.Kraus, R.Musil, W.Benjamin, T.W.Adorno).
da REMO CESERANI - LIDIA DE FEDERICIS, Il materiale e l’immaginario. Laboratorio di analisi dei testi e di lavoro critico, 8 tomo primo, LOESCHER EDITORE 1982, pag.434 COMUNICAZIONE SILENZIO Parole sceme, orecchie sorde
proverbio sardo ricordato da Beppe Pisanu CONCETTI I regimi di funzionamento delle opposizioni concettuali (cfr. concetto) sono differenti nel mito (cfr. natura/cultura e anthropos, maschile/femminile, caos/cosmo, natura e mythos/logos), nelle filosofie (cfr. essere, identità/differenza, filosofia/filosofie) e nel pensiero scientifico (cfr. astratto/concreto, qualità/quantità conoscenza, scienza), e si diversificano ancora in rapporto alle configurazioni storiche del sapere. Ma, in quanto forma fondamentale del pensiero categoriale (cfr. categorie/categorizzazione e sistematica e classificazione), le opposizioni concettuali informano nello stesso tempo quelle configurazioni. La loro classificazione, dalle simmetrie (cfr. simmetria) fino alle contraddizioni (cfr. opposizione/contraddizione), deve tener conto di quest’ambiguità che è loro costitutiva; essa si forma da un lato a partire dalla logica della negazione e dalle corrispondenti figure di mediazione (cfr. dialettica), dall’altro collegando le opposizioni a coppie di intuizioni semantiche soggiacenti al discorso e alla cognizione (cfr. semantica), in particolare: continuo/discreto, analogico/digitale, metaforia/metonimia, analisi/sintesi, integrazione e differenziamento, uno/molti.
[ Sintesi della voce Coppie filosofiche, curata da Fernando Gil, Enciclopedia 3, pp.1050-1095 ] CONOSCENZA SINTESI DELLA VOCE CONOSCENZA, CURATA DA FERNANDO GIL
Volume 3° dell’Enciclopedia Einaudi, pp.778-805
La problematicità della conoscenza è associata alle modalità della sua trasmissione: così, le forme della conoscenza possono essere disposte attorno alla grande opposizione orale/scritto, alla luce della quale si descriverà il passaggio storico da una conoscenza basata sulla parola (magari consegnata in un libro sacro: un libro che parla) a un sapere socialmente mediato attraverso la scrittura (cfr. anche esoterico/essoterico). La conoscenza moderna si basa sulla produzione di un sapere cumulativo e sistematico (cfr. sistematica e classificazione), universale ed astratto (cfr. in generale astratto/concreto, analisi/sintesi) ben diverso da quello consegnato nelle antiche discipline (cfr. disciplina/discipline). Preannunziata dalla ricerca medievale e rinascimentale di un metodo la conoscenza moderna ha trovato la sua figura più propria nella scienza, e il suo veicolo di trasmissione nella scuola (cfr. insegnamento). La scienza è artefattuale (cfr. naturale/artificiale, convenzione) sia nel modo di produzione dei suoi concetti (cfr. concetto), sia nei suoi procedimenti (cfr. esperimento, osservazione), sia infine nei suoi oggetti (cfr. empiria/esperienza). Trasportata da un movimento senza fine in vista della corroborazione delle sue teorie (cfr. teoria, verificabilità/falsificabilità), la scienza ha come ideale un sapere obiettivo (cfr. soggetto/oggetto) e formalizzato (cfr. formalizzazione), peraltro sempre legato a determinate pratiche sociali (cfr. teoria/pratica).Complementare ad essa sul piano psicologico è una teoria della cognizione che vede l’apprendimento come un processo di socializzazione, col passaggio dalla soggettività individuale a una razionalità condivisa (cfr. ragione, razionale/irrazionale). Sul piano filosofico (cfr. filosofia/filosofie), il confronto fra le teorie aristotelica e cartesiana dell’errore, la distinzione tra qualità primarie e secondarie, permettono di cogliere simultaneamente aspetti epistemologici e psicologici, e la scienza appare in tal modo come uno strumento privilegiato per assicurare una comunicazione tra soggetti «normalizzati». controllare PARSONS T.descrive tre metodi di controllo sociale: -isolamento scopo di tenere il deviante lontano dagli altri -allontanamento limita i contatti del deviante con gli altri ma non lo segrega completamente dalla società e gli consente,dopo un certo tempo, di ritornare ad accettare le norme della società
-riabilitazione processo attraverso il quale molti devianti vengono aiutati a riassumere il loro ruolo nella società (anche la psicoterapia) controllare I modi del controllo sociale. Mezzi: 1) controllo diretto (fisico): violenza
2) controllo organizzativo: apparati burocratici
3) controllo dei risultati: competizione economica
4) controllo ideologico: manifestazione dell'adesione
5) controllo d'amore: identificazione totale o espressione della fiducia
6) controllo per saturazione: diffusione di un solo testo indefinitivamente ripetuto
7) controllo per dissuasione: instaurazione di un sistema di schedatura e di un apparato poliziesco che metta in rotta ogni tentativo di contestazione conversare la conversazione è feconda soltanto fra spiriti dediti a consolidare le proprie perplessità la conversation n'est féconde qu'entre esprits attachés à consolider leurs perplexités
Cioran Emil CONVERSAZIONE "una buona conversazione ha presa: ci apre gli occhi su qualcosa, ci fa drizzare le orecchie. una buona conversazione lascia degli echi: più tardi, nel corso della giornata, nella nostra mente si continua a parlare; e il giorno dopo ci si ritrova ancora a conversare con quello che è stato detto. ... e' necessario ripensare a cosa è la conversazione. Il termine significa 'cambiare direzione con', tornare indietro, invertire il movimento, e probabilmente ha a che fare con l'andare avanti e indietro con qualcuno o qualcosa, voltandosi e dirigendosi verso lo stesso terreno dalla direzione opposta. Una conversazione fa cambiare direzione alle cose e per ogni conversazione esiste un 'verso' un rovescio, un lato opposto. ... per questo lo stile delle nostre conversazioni deve essere un po' sconcertante, cambiando la direzione prevista di un pensiero o di un sentimento. Ed è per questo che dobbiamo parlare con ironia, e perfino con scherno, con sarcasmo. magari scioccando anche: perché la coscienza arriva attraverso un piccolo shock di consapevolezza, tenendoci sul filo, acuti, desti, e un pochino di traverso."
James Hillman, Cent'anni di psicanalisi. E il mondo va sempre peggio, Rizzoli Bur CORPO Lady Lazarus
L’ho rifatto. Un anno ogni dieci ci riesco – Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle splendente come un paralume Nazi, un fermacarte il mio piede destro, la mia faccia un anonimo, perfetto lino ebraico. Via il drappo, o mio nemico! Faccio forse paura? – Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti? Il fiato puzzolente in un giorno svanirà. Presto, ben presto la carne che il sepolcro ha mangiato si sarà abituata a me e io sarò una donna che sorride. Non ho che trent’anni. E come il gatto ho nove vite da morire. Questa è la numero tre. Quale ciarpame da far fuori ogni decennio. Che miriade di filamenti. La folla sgranocchiante noccioline si accalca per vedere che mi sbendano mano e piede – Il grande spogliarello. Signori e signore, ecco qui le mie mani, i miei ginocchi. Sarò anche pelle e ossa, ma pure sono la stessa identica donna. La prima volta successe che avevo dieci anni. Fu un incidente. Ma la seconda volta ero decisa a insistere, a non recedere assolutamente. Mi dondolavo chiusa come conchiglia. Dovettero chiamare e chiamare e staccarmi via i vermi come perle appiccicose. Morire è un’arte, come ogni altra cosa. Io lo faccio in modo eccezionale. Io lo faccio che sembra come inferno. Io lo faccio che sembra reale. Ammettete che ho la vocazione. E’ facile abbastanza da farlo in una cella. E’ facile abbastanza farlo e starsene lì. E’ il teatrale ritorno in pieno giorno a un posto uguale, uguale viso, uguale urlo divertito e animale: “Miracolo!” E’ questo che mi ammazza. C’è un prezzo da pagare per spiare le mie cicatrici, per auscultare il mio cuore – eh sì, batte. E c’è un prezzo, un prezzo molto caro, per una toccatina, una parola, o un po’ del mio sangue o di capelli o un filo dei miei vestiti. Eh sì, Herr Doktor. Eh sì, Herr Nemico. Sono il vostro opus magnum. Sono il vostro gioiello, creatura d’oro puro che a uno strillo si liquefà. Io mi rigiro e brucio. Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà. Cenere, cenere – Voi attizzate e frugate. Carne, ossa, non ne trovate – Un pezzo di sapone, una fede nunziale, una protesi dentale. Herr dio, Herr Lucifero, attento. Attento. Dalla cenere io rivengo Con le mie rosse chiome E mangio uomini come aria di vento.
Sylvia Plath CORPO VOLTO PSICHE Il volto è la parte privilegiata del corpo umano; è ciò che ci comunica l'essenza di una persona. Ma il volto è anche una "forma" dotata di una determinata superficie; è faccia su cui si rivelano le emozioni, i sentimenti, i pensieri segreti. Il volto è "lo specchio dell'anima". Nel mondo fisico, ha scritto Simmel, non c'è nessuna struttura "che come il volto umano riesca a convogliare una così gran varietà di forme e superfici in un'incondizionata unità di senso". [Marco Belpoliti - Doppio Zero] crescere Non ho mai raccontato a nessuno questa storia, e non ho mai pensato di doverlo fare - non perché temessi di non essere creduto, ma esattamente perché mi vergognavo... e perché era mia. crescere Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e come è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte queste baggianate alla David Copperfield, ma a me non va proprio di parlarne crescere L'amicizia è una trovata di Dio per farsi perdonare l'istituto della famiglia. crescere Mark aveva undici anni e fumava saltuariamente già da due anni crescere Sono un trovatello. crescere Nell'ombra della casa, sulle rive soleggiate del fiume presso le barche, nell'ombra del bosco di Sal, all'ombra del fico crebbe Siddharta, il bel figlio del Brahmino, il giovane falco, insieme all'amico suo, Govinda, anch'egli figlio di Brahmino. Sulla riva del fiume, nei bagni, nelle sacre abluzioni, nei sacrifici votivi il sole bruniva le sue spalle lucenti. Ombre attraversavano i suoi occhi neri nel boschetto di mango, durante i giochi infantili, al canto di sua madre, durante i santi sacrifici, alle lezioni di suo padre, così dotto, durante le conversazioni dei saggi. Già da tempo Siddharta prendeva parte alle conversazioni dei saggi, si esercitava con Govinda nell'arte oratoria, nonché nell'esercizio delle facoltà di osservazione e nella pratica della concentrazione interiore. Già egli sapeva come si pronuncia impercettibilmente l'Om, la parola suprema, sapeva assorbirla in se stesso pronunciandola silenziosamente nell'atto di inspirare, sapeva emetterla silenziosamente nell'atto di espirare, con l'anima raccolta, la fronte raggiante dello splendore che emana da uno spirito luminoso. Già egli sapeva, nelle profondità del proprio essere, riconoscere l'Atman, indistruttibile, uno con la totalità del mondo. Il cuore del padre balzava di gioia per quel figlio così studioso, così avido di sapere; era un grande sapiente, un sommo sacerdote quello ch'egli vedeva svilupparsi in lui: un principe fra i Brahmini. crescere Nell'Aprile del 1831, Clementina Sanvitale entrò insieme alle sorelle minori, Paolina e Virginia, nel Collegio Lasagna di Parma. Aveva quattordici anni crescere Il mondo aveva i denti e in qualsiasi momento ti poteva morsicare. Questo Trisha McFarland scoprì a nove anni crescere Tra i vari edifici pubblici di una certa città che per molte ragioni evito di nominare e a cui non voglio dare alcun nome fittizio, ve n'è uno comune da tempo a molte città grandi e piccole, voglio dire l'ospizio di mendicità crescere Quello della svolta era un bel giorno, una bella mattina di maggio crescere C'era una volta … "Un re!" diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno crescere A quattordici anni ero educanda in un collegio dell'Appenzell. Luoghi dove Robert Walser aveva fatto molte passeggiate quando stava in manicomio, a Herisau, non lontano dal nostro istituto. E’ morto nella neve. Fotografìe mostrano le sue orme e la positura del corpo nella neve. Noi non conoscevamo lo scrittore. E non lo conosceva neppure la nostra insegnante di letteratura. A volte penso sia bello morire così, dopo una passeggiata, lasciarsi cadere in un sepolcro naturale, nella neve dell'Appenzell, dopo quasi trent'anni di manicomio, a Herisau. E un vero peccato che non sapessimo dell'esistenza di Walser, avremmo colto un fiore per lui. crescere Stavo per superare Salvatore quando ho sentito mia sorella che urlava. Mi sono girato e l'ho vista sparire inghiottita dal grano che copriva la collina.
Non dovevo portarmela dietro, mamma me l'avrebbe fatta pagare cara.
Mi sono fermato. Ero sudato. Ho preso fiato e l'ho chiamata. - Maria? Maria?
Mi ha risposto una vocina sofferente. - Mi- chele !
- Ti sei fatta male ?
- Si, vieni.
- Dove ti sei fatta male ?
- Alla gamba.
Faceva finta, era stanca. Vado avanti, mi sono detto. E se si era fatta male davvero?
Dov'erano gli altri?
Vedevo le loro scie nel grano. Salivano piano, in file parallele, come le dita di una mano, verso la cima della collina, lasciandosi dietro una coda di steli abbattuti. crescere In un college del New England arriva a insegnare un professore, Kitting, molto diverso dagli altri - siamo negli anni cinquanta -. Le lezioni sono strane e vive, e del tutto anticonformiste: una volta l'insegnante fa strappare dai libri di poesia tutte le critiche iniziali. L'idea è quella di viver secondo le proprie attitudini e non secondo quelle ereditate. Uno degli studenti - che adorano l'insegnante -, in conflitto col padre, si uccide. Il preside e il "sistema" cercano di attribuirne la responsabilità all'insegnante, che deve lasciare la scuola. Film fondamentale dell'era moderna del cinema, dove è molto difficile portare qualcosa di nuovo.
Sono presenti gli studenti Todd e Knox che si alzano in piedi, il preside Nolan e Kitting. TODD Professor Kitting, mi hanno costretto a firmare. La prego, deve credermi, è vero! PRESIDE NOLAN Si sieda, signore. PROF. KITTING Certo che ci credo Todd. PRESIDE NOLAN Ho detto: si sieda signor Anderson: un'altra intemperanza sua o di chiunque altro e sarà espulso dalla scuola. Se ne vada professore! Ho detto: se ne vada Kitting! TODD Capitano, mio capitano. PRESIDE NOLAN Si sieda immediatamente Anderson. Mi ha sentito vero? Si sieda. Guardi è l'ultima volta che glielo dico: come si permette? Mi ha sentito Anderson? KNOX Capitano, mio capitano. PRESIDE NOLAN Signor Anderson l'avverto: si sieda immediatamente. Seduti ho detto. A sedere: dico a tutti, voglio che vi sediate. Tutti a sedere! Capito? Lei se ne vada Kitting. Scendete, avanti! Scendete tutti! Mi avete capito? Se- du-ti! PROF. KITTING Grazie figlioli, grazie!
(tratto da: Daniela Farinotti, Domani è un altro giorno: sessanta finali di sessanta film leggendari …, La Tartaruga Edizioni, Milano 1995) crescere adolescenza L'adolescenza non è solo una stagione della vita, ma una modalità ricorsiva della psiche dove i tratti dell'incertezza, l'ansia per il futuro, l'irruzione delle istanze pulsionali, il bisogno di rassicurazione e insieme di libertà si danno talvolta convegno per celebrare, in una stagione, tutte le possibili espressioni in cui può cadenzarsi la vita. Per questo di fronte agli adolescenti siamo ansiosi. Essi ci testimoniano tutto il possibile che in noi non è divenuto reale. crescere formazione Direi volentieri (e non è una battuta) che il primo obiettivo dell'educatore è quello di formare degli autodidatti, perché dopo il periodo di formazione, ognuno sarà portato tutti i giorni a rispondere alla domanda "che cosa devo fare? e come devo farla?", e difficilmente ci sarà qualcuno di fianco per dirgli quello che deve fare e come. Questa è la scuola. Il bravo allievo, a scuola, chiede al professore: "Che cosa devo fare, e come devo farlo?". Ma quando sarà anch'egli alle prese con la vita personale, professionale, familiare, amorosa, affettiva ecc., è lui che dovrà scoprire ciò che dovrà fare e come dovrà farlo. Il problema della conoscenza è tutto qui. Penso che la conoscenza abbia due versanti. C'è il sapere acquisito, quello che gli altri hanno trovato, ed è quello che si impara a scuola, ciò che hanno scoperto gli altri, che è importante sapere, ma è solo la metà. L'altra metà si deve scoprire da soli; del resto, quello che si impara a scuola è quanto altri hanno scoperto senza che si sia detto loro che cosa dovevano scoprire, e dunque esiste tutta quella dialettica tra ciò che si è imparato dagli altri e ciò che si deve trovare da soli per comunicarlo agli altri. Il rapporto tra gli altri e se stessi, tra ciò che si è imparato dagli altri e ciò che dobbiamo insegnare loro, è dunque al centro della nozione di formazione, di educazione. Penso che per formare qualcuno alle sue responsabilità sul piano della scoperta, della creazione, occorre fargli scoprire che cosa sia la sua propria libertà; che non è la libertà di fare qualunque cosa, ma la libertà responsabile. CRIMINI VITTIME Quello che mi disturba e mi dispiace è che la società contemporanea tende alla deresponsabilizzazione (per usare un termine che non ho mai usato perché astratto), alla cancellazione della responsabilità personale, della colpa. Ecco, noto che c'è la tendenza a svuotare molti reati, anche i più gravi, della responsabilità morale che implicano, a preoccuparsi esclusivamente della pronta riabilitazione anziché del giusto risarcimento per quello che hanno patito le vittime. C'è un profondo squilibrio: è molto importante la riabilitazione dei colpevoli, infatti sono contrario alla pena di morte e alle forme punitive che offendono la persona, ma lo è altrettanto la sicurezza della pena. Se un individuo ha commesso una colpa grave è giusto anche che paghi e questo va considerato sia come strumento di riabilitazione per il colpevole, sia come risarcimento per la società; per questo la pena ma non va cancellata. Invece c'è la gravissima tendenza a dimenticare questo secondo aspetto e la cosa genera nei cittadini un senso di frustrazione e di angoscia.
Ci spieghi meglio questo concetto.
Quando uno ha la casa devastata dai ladri e sa che i ladri non saranno puniti, quando ha un parente che è stato investito da una macchina pirata e sa che il colpevole se la caverà con poco o niente, allora la vittima prova un senso di abbandono e di angoscia. Penso che questa società, indebolendo la certezza della pena, tolga alla giustizia una delle sue funzioni più importanti cioè quella di deterrente: molte persone sicure dell'impunità commettono reati. Pensiamo a quello che è successo recentemente alla Malpensa, per parlare di un reato non dei più atroci ma comunque grave: il crimine è stato commesso da persone che erano state scagionate o comunque non punite in un precedente processo. Domina purtroppo l'idea assurda che usando l'indulgenza si agevoli l'esercizio della giustizia, invece si offende la vittima, privandola del giusto risarcimento, si favorisce la replica del reato, anzi la sua moltiplicazione matematica, e si genera uno stato di angoscia nei cittadini.
da "Alice.it", 27 giugno 2003 CULTURE A conclusione di questo itinerario nel rancore, incontriamo un elemento che riconnette quanto detto ora sulla situazione italiana con il significato più generale del "populismo globale". E che ci consente di individuare i segni tangibili di un percorso che non ha un solo luogo d'elezione: ha infatti a disposizione il mondo intero. Si tratta dei temi evocati dal sociologo tedesco Hans Magnus Enzensberger ne Il perdente radicale (Einaudi, 2007). Enzensberger segue le tracce di quella scia di sangue che attraversa l'orizzonte contemporaneo e che dalle nostre piccole barbarie domestiche ci conduce fino a incontrare la figura dei terroristi kamikaze. Dal caso degli adolescenti assassini nei college americani fino all'11 settembre c'è – suggerisce Enzensberger – un filo di disperazione e di rabbia, di cieca violenza e di studiata esaltazione del rancore che finisce per legare gli assassini di provincia ai killer delle Twin Towers. I primi indicano una tendenza, una possibilità che si cela nelle contraddizioni manifeste di un modello culturale in crisi, i secondi fanno parte dell'esercito di coloro che socializzano questa crisi e ne fanno la bandiera di una guerra planetaria. In comune, questi due esempi apparentemente così lontani tra loro, hanno il senso della sconfitta, la percezione di una inadeguatezza che si trasforma in furia omicida, in uno sterminato desiderio di morte e di distruzione. In entrambi i casi siamo di fronte a quelli che lo studioso tedesco presenta come "i perdenti radicali". Definizione riferibile non tanto a coloro che si possono percepire come gli sconfitti della globalizzazione o delle trasformazioni culturali insite nella modernità, quanto a quelli che non sono stati o non sono in grado di elaborare un vocabolario del cambiamento, un lessico emozionale con cui rispondere alle modifiche di breve o di lungo corso che attraversano il loro spazio di vita. «In ogni momento — scrive Enzensberger — il perdente può esplodere. Questa è l'unica soluzione del problema che riesce a immaginare: il parossismo del disagio che lo fa soffrire».
Il vero problema nasce però quando dalla follia individuale si passa a ciò che il sociologo definisce come la "socializzazione del rancore". «Che cosa accade quando il perdente radicale supera il suo isolamento, quando si socializza, quando trova una patria dei perdenti, da cui si ripromette non solo comprensione, ma riconoscimento, un collettivo di simili che lo accoglie a braccia aperte e ha bisogno di lui?», si chiede Enzensberger. È questo, ad esempio, l'orizzonte nel quale il terrorista kamikaze diventa una figura centrale, il simbolo di una cultura di morte che «progetta il suicidio di un'intera società». Qualcosa, conclude lo studioso tedesco, che l'Europa ha già conosciuto, proprio in Germania nel periodo tra le due guerre mondiali: quel vasto movimento all'insegna della frustrazione patriottica e del risentimento dei giovani maschi tornati dal fronte e non più esaltati come eroi, che fu lo scenario dell'ascesa del nazismo. CULTURE «L'Occidente non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione ma attraverso la sua superiorità nell'uso della violenza organizzata (il potere militare). Gli occidentali lo dimenticano spesso, i non occidentali mai. (...) Alcuni occidentali hanno sostenuto che l'Occidente non ha alcun problema con l'Islam, ma solo con gli estremisti islamici violenti. Millequattrocento anni di storia dimostrano tuttavia il contrario. I rapporti tra Islam e cristianesimo sono stati spesso burrascosi. Per entrambi, la parte opposta ha sempre rappresentato "l'Altro" (...) Le cause di questa costante conflittualità non vanno ricercate in fenomeni transitori quali il fervore cristiano del XII secolo o il fondamentalismo musulmano del XX, bensì nella natura stessa di queste due religioni e delle civiltà su di esse fondate, nelle loro differenze e nelle loro similitudini». Perciò, «una guerra planetaria che coinvolga gli stati guida delle maggiori civiltà del mondo è altamente improbabile ma non impossibile. Un simile conflitto potrebbe scaturire dall'escalation di una guerra (locale) tra musulmani e non musulmani».
Sono passati più di dieci anni da quando Samuel Phillips Huntington propose questa lettura delle future relazioni internazionali alla luce di una netta contrapposizione tra ciò che definiva come "Islam" e ciò che definiva come "Occidente". L'11 settembre non c'era ancora stato, l'amministrazione statunitense non aveva ancora dichiarato la "guerra permanente al terrorismo", il dibattito internazionale ruotava in larga misura intorno alle promesse annunciate dal pieno dispiegarsi dei processi di globalizzazione. Eppure, era proprio muovendo da un'analisi del "nuovo" mondo globalizzato, che questo docente di Harvard – stimato specialista di studi strategici e direttore del John T. Olin Institute for Strategic Studies – aveva pubblicato, già nel 1993, sulla rivista da lui fondata, Foreign Affairs, un articolo intitolato "The Clash of Civilizations?" che sarebbe poi stato sviluppato nell'omonimo saggio del 1996, edito dall'importante editore Simon and Schuster e tradotto in tutto il mondo (in Italia la prima edizione è del 1997, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti).
Da allora, le tesi di Huntington che annunciavano come possibile, prossimo e in qualche misura inevitabile lo "scontro di civiltà" tra gli occidentali e i musulmani – i primi rappresentati come i depositari della filosofia dei diritti dell'uomo e i secondi più o meno come dei "barbari" – hanno non solo caratterizzato il dibattito politico e culturale internazionale, ma, come una sorta di terribile profezia, sono apparse come il drammatico annuncio di quanto poi si sarebbe concretamente verificato. Questo almeno in apparenza. In realtà, Lo scontro delle civiltà è diventato la bandiera dietro la quale buona parte delle culture di destra dell'Occidente hanno ridefinito la propria identità. Dalla dottrina neoconservatrice sbarcata alla Casa Bianca fin dalla prima elezione di George W. Bush alla guida degli Stati Uniti nel 2000, ai tanti paladini dell'identità occidentale apparsi negli ultimi anni in Europa, da Orfana Fallaci a Pym Fortuyn, solo per citare due esempi, tutti sembrano aver fatto proprie le parole di Huntington. Così, come sottolinea Mondher Kilani, docente di Atropologia culturale dell'Università di Losanna, in Niente sarà più come prima (Medusa, 2002): «Sono parecchi i commentatori occidentali che, dopo l'11 settembre, hanno tenuto a ricordare l'origine occidentale dei diritti dell'uomo, contribuendo così (...) a sostenere la profezia autorealizzantesi della tesi di Huntington sullo "scontro di civiltà". Una tesi che, come è noto, ha la particolarità di scambiare la conseguenza (i conflitti e le contraddizioni che risultano da rapporti di forza storici e congiunturali) con la causa (una irriducibilità di valori tra l'"Occidente cristiano" e il "mondo arabo-musulmano")».
Le tesi di Huntington, un conservatore vicino ma non assimilabile tout-court all'ambiente neocon americano, hanno così finito per assumere il significato di una via d'uscita da destra di fronte alla crisi dello Stato-nazione e all'avvento dell'era globale. «La mia ipotesi – spiegava infatti l'autore di Lo scontro delle civiltà – è che la fonte di conflitto fondamentale nel mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica. Le grandi divisioni dell'umanità saranno legate alla cultura (...) I conflitti più importanti avranno luogo tra gruppi di diverse civiltà». «Questo perché – aggiungeva Huntington – nel mondo post-Guerra fredda, la cultura è una forza al contempo disgregante e aggregante. Popolazioni divise dall'ideologia ma culturalmente omogenee vengono a unificarsi, come hanno fatto le due Germanie (...) Società unite dall'ideologia o da circostanze storiche ma appartenenti a differenti civiltà finiscono viceversa con lo sgretolarsi, com'è accaduto all'Unione Sovietica».
La rinascita identitaria, le tendenze comunitaristiche, "la rivincita di Dio" – come lo stesso Huntington definiva il prepotente ritorno della religione nella politica e nella sfera pubblica di molte società – più che essere presentate come altrettante possibili derive assunte dall'umanità in una condizione di crisi, diventavano "la risposta" alle trasformazioni introdotte dalla globalizzazione. Al punto che lo scienziato politico di Harvard annunciava già all'epoca quelli che sarebbero stati i temi delle sue riflessioni successive, raccolti nel 2004 in La nuova America. Le sfide della società multiculturale (Garzanti, 2005), un violento manifesto contro il modello di melting pot statunitense e in particolare contro l'emergere della presenza degli immigrati "latinos" negli Usa. «La cultura occidentale - si poteva leggere in Lo scontro delle civiltà – è minacciata da gruppi operanti all'interno delle stesse società occidentali. Una di queste minacce è costituita dagli immigrati provenienti da altre civiltà che rifiutano l'assimilazione e continuano a praticare e propagare valori, usanze e culture delle proprie società d'origine. Questo fenomeno prevale soprattutto tra i musulmani in Europa, che sono, comunque, una piccola minoranza, ma è presente anche, in minor misura, tra gli ispanici degli Stati Uniti, che invece sono una minoranza molto nutrita».
Le "civiltà" poste da Huntington al centro della sua riflessione rappresentano perciò entità definite, stabili e connotate secondo criteri pressoché "etnici", al punto che la frontiera che lui stesso fa correre tra occidentali e musulmani conosce poi il suo doppio all'interno di ogni società tra gli "autoctoni" e gli "stranieri". «Il politologo di Harvard – spiega a questo riguardo Annamaria Rivera, etnologa dell'Università di Bari e autrice di La guerra dei simboli (Dedalo, 2005) – propone, attraverso nozioni totalizzanti come quella di civiltà, una configurazione dei rapporti di forza internazionali basata su rigide linee di frattura culturalreligiose. Nella "cattiva antropologia" di Huntington, le "civiltà" sono viste come universi compatti, autonomi, irriducibili, potenzialmente o effettivamente ostili l'uno all'altro; i rapporti del cosiddetto Occidente con altre aree, paesi e culture sono rappresentati nei termini dell'opposizione fra the West and the Rest».
Sono "mondi chiusi", impenetrabili, quelli che, secondo Huntington, sono destinati ad incrociarsi solo per l'inevitabile clash. In questo quadro, si può leggere ancora ne Lo scontro delle civiltà, «il vero problema per l'Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l'Islam in quanto tale, una civiltà diversa le cui popolazioni sono convinte della superiorità della propria cultura e ossessionate dallo scarso potere di cui dispongono. Il problema dell'Islam non è la Cia o il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ma l'Occidente (...) Sono questi gli ingredienti di base che alimentano la conflittualità tra Islam e Occidente». Perciò, come suggerisce il sociologo afro-britannico Paul Gilroy nel suo Dopo l'impero (Meltemi, 2006) «vecchie questioni coloniali tornano in gioco quando i conflitti geopolitici vengono declinati come una battaglia tra civiltà omogenee». Gilroy paragona il libro di Huntington al Saggio sull'ineguaglianza delle razze pubblicato a metà dell'Ottocento dal conte de Gobineau e considerato come il testo fondante il razzismo moderno. «Nonostante le molte differenze – spiega il sociologo –, entrambi gli autori condividono la preoccupazione per le dinamiche di mutua repulsione delle civiltà e le disastrose conseguenze dei tentativi di incrocio. Gobineau identificò il pericolo mortale per le civiltà in ogni deviazione dalla "omogeneità necessaria alla loro vita" (...) Huntington specifica lo stesso tipo di problema, geopolitico e scientifico-razziale, sotto forma aforistica, nell'idioma contemporaneo del multiculturalismo e della globalità». CULTURE conflitto etnico conflitto ètnico Locuzione con cui nelle scienze sociali si fa riferimento ai conflitti in cui i protagonisti principali organizzano le proprie posizioni ideologiche sulla base dell'appartenenza a uno specifico gruppo etnico, i cui valori culturali e religiosi vengono ritenuti preferenziali e utilizzati come strumenti identitari da opporre a quelli di altri gruppi compresenti nel medesimo ambito territoriale. Soprattutto presso le moderne società industrializzate le cause dei conflitti etnici vanno ricercate nelle contraddizioni del più vasto sistema sociale in cui essi hanno luogo, all'interno del quale antagonismi di varia natura sono concettualizzati e gestiti nei termini dell'"etnicità" dei gruppi coinvolti.
In http://www.treccani.it/Portale/elements/categoriesItems.jsp?pathFile=/BancaDati/Enciclopedia_online/00_Redazione _Portale/conflitto_etnico.xml CULTURE RELIGIONI ISLAMISMO Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid da Biblioteca di Garlasco di Silvana
"Un fatto è una civiltà che ha tra i miti fondatori quello del figlio che uccide il padre. Tutt'altro la civiltà nella quale sono invece i padri a sterminare i figli. 'Edipo contro l'antica mitologia indù', è il modo volutamente semplificato con cui Mohsin Hamid riassume la differenza tra Occidente e Oriente e soprattutto la propria identità 'divisa' di scrittore nato in Pakistan 36 anni fa, ma educato nelle migliori università angloamericane e oggi residente a Londra. 'In Edipo il futuro trionfa sul passato, ci si rinnova drammaticamente nell'annullamento del genitore. E' la freschezza irresponsabile del nuovo sempre proiettato in avanti, del dinamismo, del processo a tutti i costi. Con il rischio costante di cadere nell'utopia, nell'illusione che, ogni volta, a ogni generazione, sia possibile creare un mondo migliore', dice per sintetizzare i suoi 20 anni trascorsi in occidente. Quanto al retaggio dei 16 anni in Pakistan aggiunge: 'Nel secondo caso però vince l'immobilismo, la conservazione. Il passato uccide il nuovo, ci si chiude nella nostalgia dell'età dell'oro, nella convinzione della supremazia delle proprie antiche tradizioni, senza mai avere il coraggio di confrontarle con il diverso e con le sfide del mutamento'. Hamid guarda con sofferta partecipazione emozionale e ricercato distacco intellettuale alle cronache che arrivano dal suo Paese natale. 'Ero a casa dei miei genitori a Lahore, quando venne assassinata Benazir Bhutto. Tutti sapevamo che poteva essere uccisa. Ma quando avvenne, lo choc fu fortissimo, mi ritrovai attaccato al mio Paese come mai avrei pensato'. Poi però è rientrato a Londra, dove sta scrivendo un nuovo romanzo dopo il successo di Il fondamentalista riluttante, e lunedì non tornerà in Pakistan per votare. Qui a Londra ha ritrovato l'equilibrio. Nella sua ricerca di un'identità autonoma si definisce 'uno scrittore molto pakistano, ma anche parecchio americano, cittadino britannico e attirato dalla tradizione moderna europea di Calvino, Camus e Nabokov'. Otto anni fa la critica lo rivelò come la miglior promessa tra gli scrittori pakistani. Il suo Nero Pakistan (Piemme) fu a lungo in testa alle classifiche.
Poi arrivò l'11 settembre. Lui era immerso nella stesura di un secondo romanzo incentrato su quella che i russi chiamerebbero la 'polu-intelligentsia', gli intellettuali nati nella bambagia delle loro limitate società di origine e poi influenzati da correnti culturali molto cosmopolite ed aperte. Hamid pensava ai difficili processi di integrazione nei grandi atenei occidentali di studenti che, come lui, arrivavano nel mondo musulmano. Voleva controbattere alle teorie dello 'scontro di civiltà'. Si sentiva totalmente assimilato e voleva dimostrarlo. Ma fu rivoluzione: guerra, caccia al terrorismo, questione sicurezza, dibattito su Islam e democrazia. 'Da allora posso affermare che il crollo delle Torri Gemelle rappresentò per me, e tanti altri immigrati dai Paesi musulmani, quello che per Primo Levi fu l'Olocausto: divenne un elemento centrale del nostro pensare, del nostro vivere e del nostro scrivere'. Gli ci vollero altri sei anni per terminare Il fondamentalista riluttante. Appena poco più di cento pagine, però grondanti emozioni, intime e traumatiche esperienze autobiografiche. [...] Attraverso la metafora del contrasto tra Edipo e gli antichi miti indù, Hamid sintetizza anche i motivi dello stato di paralisi che a suo dire ammorba il suo paese e tanti intellettuali musulmani. 'Il Pakistan post-Benazir Bhutto e nell'era della decadenza del presidente Pervez Musharraf è uno stato bloccato tra le spinte verso la modernizzazione e l'incapacità di reagire a causa dei condizionamenti di un sistema tribale e religioso repressivo, immobile'. Hamid condensa tutto ciò in una sola parola: inadeguatezza. 'Il nostro governo è inadeguato alle domande del Paese, alle sfide della mondializzazione, come del resto sono inadeguati gli intellettuali musulmani nel confronto con il mondo occidentale'. Le conseguenze sono traumatiche: 'Ecco da cosa nasce il fondamentalismo, dall'incapacità di fare fronte alle complessità del mondo moderno e dal rifiuto di assumersi le proprie responsabilità'. Eppure anche la tentazione di esaltare ciecamente Edipo comporta conseguenze negative. [...] Così può anche togliersi il gusto di criticare le società occidentali per quella che lui definisce la loro 'carenza di religiosità'. '[...] L'Islam con il suo sistema di regole, con il ruolo centrale dato agli anziani, i profondi legami familiari e comunitari, in qualche modo offre ancora risposte a queste domande. Se gli Stati Uniti, prima di lasciarsi andare alla rabbia e alla vendetta dopo l'11 setembre, avessero cercato di condividere il loro senso del lutto con il resto del mondo, forse le loro reazioni apparirebbero oggi meno inadeguate." (da Lorenzo Cremonesi, Edipo contro i miti indù, "Corriere della sera", 16/02/'08) "Mohsin Hamid and The Reluctant Fundamentalist" (da Npr.org) DESIDERIO POSSIBILITA' si può portare un cavallo al fiume ma non si può costringerlo a bere DESTINI Non c'è trama della vita che sia mia in via esclusiva; qua e là emerge un volto, una frase, una semplice parola da qualche punto oscuro dell'esistenza. Può essere che quel flash mi lasci smarrita a cercare complicate ipotesi di salvezza, più probabile che esso fugga via, preso dalla corrente del tempo che non indugia sulle piccole sorti private, preoccupato com'è a modificare la sostanza universale degli eventi. Qualcuno lo chiama destino e ci si affida: non io, perché non sono mai riuscita a riconoscere un valore d'ineluttabilità ai giorni futuri, e neppure a far gravare su di essi il macigno di quelli passati. Forse non mi resta che il presente, che non mi dà gioia, ma neanche dolore. E questo non è poco. Anzi. DIARIO 254. Sono una "diarista" convinta (e questo blog ne è in qualche modo testimone). Amo anche (e soprattutto) i diari degli altri, perché mi danno l'impressione di entrare nella loro psicologia, di comprendere a fondo quello che in altre letture resta solo in superficie. Il diario che mi ha affascinato più di tutti è quello di André Gide, perché è la storia di uno spirito inquieto, ma anche la lezione di un maestro del gusto. Forse nella letteratura italiana non abbiamo una grande tradizione diaristica. Se guardo all'800 penso a Niccolò Tommaseo, al suo "pecco, mi pento, ripecco". Il suo è un buon diario, non costruito "ad arte". Quello di Leopardi non si può definire "strictu sensu" un diario; troppo composito, poco incline al biografismo sincero (che invece è assai più deducibile dal suo epistolario). Per quanto riguarda il '900, invece, mi sono piaciuti molto i diari "morali" di Corrado Alvaro, scrittore che credo abbia scritto proprio fra quelle pagine le sue cose migliori. E poi c'è Tommaso Landolfi (ancora lui): i suoi diari sono solo in apparenza lavori "letterari", in realtà non fanno altro che denunciare una tragedia. Anche D'Annunzio (autore che non sta di solito in cima ai miei pensieri) ha scritto buone pagine di journal, a volte mi diletto a leggerle, anche con passione. DIARIO BLOG "Questo, lettore, é' un libro sincero. Ti avverto fin dall'inizio che non mi sono proposto, con esso, alcun fine, se non domestico e privato. Non ho tenuto in alcuna considerazione nè il tuo vantaggio nè la mia gloria. Le mie forze non sono sufficienti per un tale proposito. Se lo avessi scritto per procacciarmi il favore della gente, mi sarei adornato meglio e mi presenterei con atteggiamento studiato.Voglio che mi si veda qui nel mio modo d'essere semplice, naturale e consueto,senza affettazione ne artificio: perché è me stesso che dipingo. Si leggeranno qui i miei difetti presi sul vivo e la mia immagine naturale, per quanto me l'ha permesso il rispetto pubblico. Ché se mi fossi trovato tra quei popoli che si dice vivano ancora nella dolce libertà delle primitive leggi della natura, ti assicuro che ben volentieri mi sarei qui dipinto per intero, e tutto nudo. Cosi', lettore, sono io stesso la materia del mio libro: non c'e' ragione che tu spenda il tuo tempo su un argomento tanto frivolo e vano. Addio dunque, da Montaigne il primo marzo millecinquecentottanta."
Michel de Montaigne. Testi presentati da André Gide, Adelphi, p. 43 traduzione di Fausta Garavini DIARIO CITAZIONI Un buon pensiero che abbiamo letto, una cosa che ci abbia colpito nell'ascoltarla, li riportiamo volentieri nel nostro diario. Se ci prendessimo però ugualmente la pena di annotare dalle lettere dei nostri amici osservazioni, caratteristiche, garbati giudizi, detti fugaci e arguti, potremmo divenire molto ricchi. Ci sono lettere che si conservano per non rileggerle mai più, infine viene il giorno che si distruggono per discrezione, e così ne scompare il più bello e più immediato alito di vita, e non sarà possibile né per noi né per altri riprodurlo mai più. Io mi propongo di riparare a questa negligenza...
Johann Wolfgang Goethe - Le affinità elettive DIFFERENZE DI GENERE UOMO DONNA le parole di NADIA FUSINI: «Di un essere che definiamo un uomo, una donna, dovremmo poi dire il come: come è donna quella donna? E come è uomo quell’uomo? Troveremo che siamo tutti sempre spostati, sempre obliqui, sempre almeno in parte eccentrici rispetto a quel significante, alla sua legge. Questa è la condizione della donna e dell’uomo moderni». E più avanti: «Come sono donna, mi chiedo, io che sono una donna? Quanto incarno di quel significante nel reale? La verità che scopro interrogandomi è una penosa distanza, un fondamentale smarrimento rispetto a quel nome comune di “donna”; ed è l’avventura in questo smarrimento, o errore, che mi definisce in modo assolutamente decentrato rispetto al punto nodale di quella mia domanda a me stessa. E questo accade non solo a me, che sono una donna, ma scopro lo stesso gioco di complicità, e di estraneità insieme, in ogni maschio che si interroghi riguardo alla legge che lo vuole identificare. Che non si abbandoni incosciente al privilegio della sua identità - pur sempre parziale, quand’anche si aggiudichi pretese universali. Perché, prima o poi, viene per tutti il giorno in cui dovremo dare conto di chi siamo a qualcuno che veramente lo chiede; e allora quella anonima maschera di genere non servirà. L’identità sessuale oggi più che mai è un miraggio, e qualora si dia come compiuta, essa è effetto di un fondamentale misconoscimento. Perché, in verità, non ci sono che esperienze in eccesso o in difetto rispetto al polo maschile o femminile dell’identità. Mogli obbedienti, madri perfette, padri severi, mariti autoritari, maschi aggressivi, femmine passive - chi crede più a queste maschere? […] Ciò che scopro, insomma, se osservo con attenzione il mondo che mi circonda, è che il sapere della differenza sessuale, il taglio, cioè, che l’appartenenza all’uno o all’altro sesso scava nel corpo umano, coincide con ciò che nell’esperienza veniamo a conoscere della nostra radicale, disperata distanza da una sicura identità basata sul sesso. […] Non è da lì che possiamo trarre, uomini e donne moderni, un orientamento o un destino. Neppure l’indicazione di un compito. […] Non siamo animali; e, a differenza di loro, che hanno la propria immagine dentro, a noi l’immagine viene da fuori, è un riflesso. E’ specchiandoci l’uno nell’altra che ci riconosciamo. Se siamo maschi e femmine, lo sapremo dall’altro. E ciò che potremo fare e essere a partire da questo si inscrive oggi nell’orizzonte della nostra libertà». (pp.8-10) DOLORE La vita segreta delle parole di Isabel Coixet
recensione tratta da Lella Ravasi Bellocchio, Gli occhi d'oro, ancora. Il cinema nella stanza dell'analisi, Moretti & Vitali, 2008, p. 101-106
Una piattaforma petrolifera in mezzo al mare. Un incidente. Un uomo ferito, Josef, ustionato gravemente nell'incidente, ha perso la vista temporaneamente. Una giovane infermiera, Hanna, straniera, ha un apparecchio acustico; quando vuole isolarsi dal mondo spegne l'interruttore. Due vite segnate nel corpo da una possibile incomunicabilità. Lui non la vede. Lei lo sente solo se vuole. Ma la storia è molto più complessa, e fin dall'inizio entriamo nel mistero di lei: la vediamo operaia in fabbrica, chiusa al mondo, senza amici, una vita difesa dai sentimenti; in mensa mangia da sola - riso in bianco, petto di pollo, mela - sempre lo stesso non sapore; quando rientra a casa l'aspetta il vuoto asettico, garantito da saponi impilati con cura accanto al lavandino. Una fobica, così appare. C'è una piccola voce di bimba che parla, all'inizio del film: l'accompagna, racconta la cura dell'immaginario che la ragazza ha di lei, il suo pensarla, con una salopette rossa e un golfino azzurro, capelli lunghi, capelli corti, come se fosse una figlia perduta, o una figlia non nata, una parte di lei inabissata. E la voce di bambina dice «ci sono così poche cose: silenzio e parole.. .nel fondo del mare». Costretta a una vacanza, da sola in albergo su un oceano freddo e ventoso, Hanna ascolta per caso di una persona ustionata che ha bisogno di cura; si propone. Meglio che stare da sola con i suoi fantasmi. Sulla piattaforma petrolifera entra in contatto con Josef, con la sua rabbia provocatoria, le ferite, il buio degli occhi. Il suo modo di stargli accanto è professionalmente perfetto, ma lui chiede una presenza che lei non gli può dare; lui ha bisogno di perdonarsi, non solo di guarire. Hanna ha lo stesso bisogno. La distanza, lo sapremo poi, è l'unica difesa possibile dall'orrore patito, dalla malattia di essere viva che le è rimasta addosso. All'inizio la guarigione di lei, l'avvicinamento alla vita, passa dal cibo: c'è un cuoco sulla terra-non terra che è la piattaforma petrolifera; quando cucina ascolta la musica del paese da cui viene la ricetta, «cucino per me, per non impazzire», dice. Così un piatto di gnocchi al pomodoro nasce ispirato da una canzone di Paolo Conte. Josef la interroga: «Cosa ti piace?», e alla sua risposta «pollo, riso in bianco, mela» le dice con stranita dolcezza «che cosa c'è che non va? Che cosa ti fa tanta paura?» E lei, quasi furtivamente, comincia ad assaggiare gli gnocchi dal piatto di lui. È l'inizio di un cambiamento: dal vuoto del non-senso, del non-sapore, dal silenzio di chi è portatore di ferite indicibili, a una possibile parola, semplice, nell'intimità che si crea tra loro nella terra del dolore, di cui sono entrambi prigionieri. È l'attenzione al corpo ferito che cura lui e cura lei. Che cosa passa da tutto questo soffrire? I due imparano ad accettare l'uno dell'altro i silenzi, imparano che è possibile non farsi male, che la vergogna e la pietà possono anche curare. La commozione di chi è nel buio della sala è sobria, guidata dalla verità delle immagini. Nel microcosmo che è la vita sulla piattaforma petrolifera c'è un campionario normale nella sua bizzarria: oltre al cuoco, qualche marinaio, uno studioso dell'oceano che misura la forza delle onde, e per hobby controlla le cozze, un'oca selvatica addomesticata che passeggia da padrona, un'altalena su cui lasciarsi dondolare. Il mondo è altrove. L'essere lontani, un punto di luce nell'oceano, garantisce la vita segreta delle parole. Hanna tocca Josef, con delicatezza lo lava, lo massaggia, permette al corpo di lui di lasciarsi andare al tocco gentile di lei che lo cura, come fa una madre con un bambino. Passa dal corpo, dagli occhi ciechi di lui che immaginano lei, dal sentirne l'odore. Solo alla fine, quando stanno per separarsi, quando lui verrà trasportato sulla terraferma in un ospedale, quando le dice la vergogna di avere portato via la donna a un amico (il cui suicidio è all'origine dell'incidente di lui che si è gettato nel fuoco invano per salvarlo), quando lei è sicura che non avranno un futuro le parole tra loro, Hanna gli racconta la sua storia. Irrompe con la grazia del suo racconto di ragazza, dal ricordo leggero delle risate con l'amica del cuore, irrompe senza darci il tempo di pensare, entra in scena la sciagura: la guerra in Bosnia, l'albergo in cui Hanna e l'amica - che hanno lasciato la scuola infermiere per tornare a casa per un breve viaggio - vengono portate. Sono arrivate a pochi chilometri da casa; i soldati - quelli che parlano la loro lingua, per primi, e poi i caschi blu - sono loro gli uomini del male, e loro, le ragazze, belle, ridenti, bottino di guerra, corpi da trapassare. Le torture. La violenza. L'amica morta. L'indicibile del male. La vita segreta delle parole trova nell'intimità della cura di un corpo di uomo ferito, il modo di dirsi. Dai tanti libri, dalle tante storie lette, dal tanto - e poco - saputo di quegli anni, da quella guerra così vicina e così dimenticata, riaffiora il mistero di come si fa a sopravvivere in un corpo di donna, nella vergogna di essere al mondo, tu sì e altre no, nell'incancellabile sporca guerra addosso che lascia la traccia di sperma e sangue, che nessun sapone laverà mai via. È l'incontro allora, l'abbraccio, a restituire il pianto e l'innocenza alla donna e all'uomo. Hanna se ne va, anche se lui urla il suo nome, lontano sull'elicottero che lo porta via. Torna lei al suo lavoro in fabbrica, ai suoi saponi. Ma l'uomo deve cercarla: sa che è l'incontro con lei che potrà salvare entrambi. È a lui che tocca la riparazione. Inizia il percorso della ricerca incontrando la persona di cui trova traccia in un taccuino di lei; è la psicoanalista di Hanna, la donna che sa di Hanna e delle altre; sa le storie racchiuse negli schedari dell'associazione che si occupa della cura delle donne che hanno subito l'orrore. Non lo incoraggia l'analista, gli prospetta il fallimento possibile di un incontro con una donna così ferita, ma non gli impedisce l'incontro. E lui va avanti. Lo vedremo nell'ultima parte del film, seguiremo con lui i passi semplici e durissimi del faccia a faccia con i danni della guerra nel corpo e nella psiche di Hanna, come delle altre donne violate. E quando lei gli dice di aver paura che un giorno potrebbe cominciare a piangere, e che queste lacrime non si fermerebbero più, tanto da inondare lo spazio, da riempire una stanza, da farli annegare entrambi, lui (che le aveva confessato il segreto di essere un marinaio che non sa nuotare da quando, bambino, il padre l'aveva gettato in mare facendolo quasi annegare) le risponde solo «imparerò a nuotare». Sono semplici le parole tra loro, semplici ed essenziali. Infine la vita ricomincia. Hanna è in una casa, normale, si prepara una tazza di té, i suoi bambini sono in giardino. Si ascolta la voce della bambina dell'inizio: torna a salutare, forse per sempre, Hanna e "i fratellini". Riporta John Berger, nelle note al i film, la frase, che tocca e cura, di uno scrittore vietnamita Le i Thi Diem Thuy: «Lascia che la parola sia umile, lascia che si sappia che il mondo non è cominciato con parole, ma con due corpi stretti l'uno all'altro, uno che piange e l'altro che canta». Raramente un film trasporta nei luoghi dello strazio, dello smarrimento della guerra, del lavoro del lutto, della riparazione, con tanta intensa e sobria commozione senza cedere ad alcuna forma di sentimentalismo. Raramente cura con l'umiltà delle emozioni fisiche che entrano nelle nostre vite oltre le parole. È "la vita segreta delle parole" allora a prendersi cura di noi: è il dire che non si esaurisce nel detto, che rimane segreto nelle vite, illuminate e in ombra, nelle parti di noi, ferite, che accettano di tornare a vivere, segretamente, non in pace ma in tregua, come in questi versi tratti da un testo che si intitola Notti di pace occidentale. Sono versi scritti vedendo alla televisione la guerra e l'immagine è quella di una donna bosmaca, colta in un attimo dell'assurdo quotidiano:
Correva verso un rifugio, si proteggeva la testa. Apparteneva a un'immagine stanca non diversa da una donna qualsiasi che la pioggia sorprende. Non volevo dire della guerra ma della tregua meditare sullo spazio e dunque sui dettagli la mano che saggia il muro, la candela per un attimo accesa e - fuori - le fulgide foglie. Ancora un recinto con spine confuse ad altre spine spine di terra che bruciano i talloni. Ciò che si stende tra il peso del prima e il precipitare del poi: questo io chiamo tregua misura che rende misura lo spavento metro che non protegge. Alla tregua come al treno occorre la pianura un sogno di orizzonte con alberi levati verso il cielo uniche lance, sentinelle sole. ANTONELLA ANEDDA DOLORE La potenza del male è grande, ma la potenza del dolore è maggiore. Solo il dolore è più forte del male: l’unica speranza di debellare il male è affidata al dolore, che per travagliosa e dilaniante che sia la sua opera è l’energia nascosta del mondo, la sola capace di fronteggiare ogni tendenza distruttiva e di vincere gli effetti letali del male.
LUIGI PAREYSON, Filosofia e libertà DONNE "Le donne sono fatte per essere amate non per essere comprese."
Oscar Wilde DONNE "Ricorda, un uomo ti ferisce, ma una donna ti finisce". dono volontariato MASSIMO CACCIARI, Liberi di donare
[La parola "volontariato" non rende adeguatamente il significato del dono, che si fonda sulla libertà intesa come responsabilità.]
Premessa
Tenterò di riflettere sui fondamenti del volontariato, ossia la sua ragione di fondo. Intanto, in senso provocatorio, mi chiedo se il termine volontariato renda l'idea. Forse non fa giustizia delle ragioni del volontariato. Vorrei ricordare quei versi di Dante nel canto di Paolo e Francesca, quando dice "…Quali colombe dal disio chiamate con l’ali alzate e ferme al dolce nido vengono per l’aere dal voler portate". Qui le anime di due dannati che hanno sottomesso la ragione al loro arbitrio vengono ritratte volando per l’aere dal voler portate. Cioè la volontà può essere ritenuta causa sui: la nostra volontà, se ci pensiamo, è sempre già accaduta. La nostra volontà segue necessariamente il nostro essere. Se ci limi-tassimo alla nostra volontà dovremmo dire che il nostro operare segue al nostro es-sere.
Volontà e libertà
Ritengo che non vi sia nessun sviluppo lineare tra volontà e ciò che il volontariato intende. Cioè il volontariato parla di volontà, ma intende un’altra cosa, che non ha nessun rapporto semplice, lineare, univoco, con la volontà. Intende cioè la libertà. Ma libera non è mai la volontà in quanto tale. Ciò che noi possiamo dire è che desi-deriamo ardentemente di essere liberi, però non c’è nessuna dimostrazione possibi-le che siamo effettivamente liberi. Per affrontare il problema dobbiamo procedere fi-no a disperare della nostra volontà: lì vi è il contraccolpo che dà vita al volontariato. Cattivo nome, io ritengo. Perché doveva inventare un nome che non ha la sua radi-ce nella volontà, ma nella libertà. Se noi comprendiamo come sia impossibile dare una dimostrazione razionale della libertà e tanto più della volontà, ebbene se noi giungiamo fino a questo fondo, fino all’angustia dicevano i padri medievali, fino a sentirci soffocare dall’impossibilità di definire ciò che ardentemente desideriamo, cioè l’essere libero, da lì scatta il fatto di essere costretti a prenderci cura di questa nostra angustia. La volontà si vuole libera, decide di essere libera dal fondo della sua humilitas, per-ché noi reagiamo a questo soffocamento quando comprendiamo quanto ardente-mente desideriamo ciò che ci è impossibile definire. Quando comprendiamo che non siamo in grado di dirci liberi, di dirci causa sui. La libertà è la volontà che si vuole libera, che decide per la propria libertà, o meglio ancora che crede nella propria libertà. Il volontario è colui che crede nella propria libertà, perché sente fino in fondo in-sopportabile il soffocamento, l’angustia per la necessità, propria e di chiunque al-tro. E crede di potersi far libero. Crede, ma non è possibile dimostrarlo. Questo è un fatto fondamentale, perché su questa base il volontario è sempre caratterizzato da una profonda humilitas e da una profonda insecuritas. È davvero nel suo atteg-giamento l’opposto di alcunché di confessionale e di fondamentalista, proprio per-ché è colui che cerca disperatamente di farsi libero e di fare libero. E questo essere insecurus, humilis lo caratterizza laicamente rispetto a tanto fondamentalismo laici-sta che circola. Quindi il volontario è il vero laico, perché il vero laico dal punto di vista filosofico razionale è colui che sa, ma mentre il pensiero puramente laico come quello di Spinoza si conclude necessariamente in una posizione scettica, il volonta-rio decide, e questo non ha a che fare con un fondamento razionale, decide o scommette di credere di poter essere libero e di poter fare libero.
La responsabilità come risposta
Il volontario è quello che risponde allo stato di necessità, colui che risponde all’angustia, propria e a quella degli altri, perché vede il mondo dominato dalla ne-cessità, e questo gli è insostenibile e inaccettabile e perciò crede di poter essere li-bero. La responsabilità è un grande nome che non può continuare ad essere ridotto ad un’etica del calcolo razionale. La responsabilità viene da un termine impegnativo. Spendo in greco voleva dire "libare agli dei". E respondere in latino viene dallo stes-so termine da cui viene sposare, cioè una promessa che ti impegna integralmente. Il volontario è colui che risponde, cioè colui il cui esserci è determinato dal tentati-vo, dalla ricerca di dare risposta all’angustia, allo stato di massima necessità, di massima sofferenza. Che è di ognuno di noi nel momento in cui sente che ciò che massimamente desidera, l’essere libero, non gli è afferrabile, non è determinabile. Allora c’è la simpatia, la consofferenza. Il termine chiave da usare è responsabilità, ma secondo il grande impegno del termine. Si risponde alla disperazione. A colui che non pensa più di poter essere salvo, di potersi conservare. E ciò propriamente fa il volontariato, questa è la sua cura. Questo significa essere figli, perché è figlio colui che risponde, che necessariamente è in relazione, perché il figlio è inconcepibile senza una radice, un’appartenenza, senza l’hu-militas. Cioè il fatto di sapere che la sua volontà è determinata, che sono una serie di cause che hanno necessitato il suo volere. E quindi la libertà del figlio si determina tutta nella capacità di rispondere. Ecco l’abisso con la concezione con-temporanea di libertà. La libertà come idea di obbligazione non è un concetto solo cristiano o islamico, è un’idea romana. Quando la libertà non è obbligazione i ro-mani la chiamavano licentia. C’è la libertà che è obbligazione e c’è la libertà che è li-cenza e che non è libertà, perché la libertà è tutta nella capacità di rispondere, ma dove la risposta non è quella del papà buono, ma quella del servo co-sofferente: niente di filantropico.
La radicalità del dono
Ormai certi termini stanno perdendo ogni significato, li usano tutti dappertutto. Li-bertà, responsabilità, democrazia, sono diventati flatus voci, musica d’atmosfera. Bisogna ridefinire i termini e su questa base definire da che parte stare. Libertà è obbligazione, responsabilità. La libertà obbliga, non libera. Ma allora se la libertà ha questo significato è evidente che se la libertà si caratterizza come respon-sabilità, al colmo della libertà starà la mia capacità di abbandonarmi completamen-te nella risposta, proprio di farmi tutto risposta. Allora, se la libertà è responsabili-tà, sarò completamente libero quando mi sarò svuotato completamente nella rispo-sta. Quando non sarò altro che risposta. Ecco il concetto radicale di dono, che do-vrà illuminare ogni atto donativo: la libertà come responsabilità si conclude neces-sariamente nella mia capacità di farmi dono, di farmi risposta, e il donare è da que-sto punto di vista l’immagine più propria della libertà. Da questo punto di vista non si distingue tra credente e non credente. Il credente è colui che crede che la sua libertà e la sua capacità di donare gli sia a sua volta do-nata, e questo non lo può dire il non credente. Ma sul fatto che libertà è concepibile solo come responsabilità e dono non vi può essere differenza tra i due. La differenza si pone a tutt’altro livello, più propriamente teologico. E allora, lungo il cammino che ci conduce a questa idea di libertà come responsabi-lità e dunque dono, vi è in tutta la sua drammatica evidenza la parabola evangelica, quella di Luca 17,10. Quando dice che alcuni servi fanno tutto quello che il padrone gli aveva comandato e alla fine della loro giornata di lavoro sono chiamati a dire: abbiamo fatto tutto quello che dovevamo, siamo servi inutili. Siamo servi perché semplicemente facendo il nostro lavoro abbiamo obbedito, in più inutili, dal radica-lissimo punto di vista del Vangelo. Cioè fintanto che tu obbedisci soltanto in questa chiave e non ami, e cioè non dimostri questa tua sovrumana e indefinibile libertà attraverso il dono e il sacrificio di te che è il dono della tua libertà, non solo sei ser-vo ma sei anche inutile. Eppure sono persone che hanno fatto fino in fondo il loro dovere, assolutamente incontestabili. Questa è la radicalità con cui dobbiamo affrontare queste questioni. Perché qual-siasi nostra pratica viene illuminata dalla sua idea limite. E all’interno di questa possiamo sviluppare anche tutte le nostre politiche, che staranno da una parte pre-cisa, in giusto conflitto con le altre. Perché il conflitto è sano visto che fa maturare delle decisioni e senza le decisioni non c’è figlio, non c’è uomo maturo, non c’è volontariato. EMPATIA Al riguardo UMBERTO GALIMBERTI ha scritto: «L’empatia è quella capacità di intendere l’altro al di là della comunicazione esplicita, di cui tutti si ritengono forniti, soprattutto quelli che si fidano ciecamente della loro “prima impressione”, senza neppure sospettare che con la prima impressione si viene a conoscere non tanto l’altro, quanto, appunto, la propria impressione cioè l’effetto che l’altro ha fatto su di noi, che non siamo specchi cristallini, ma vetri deformati dalla nostra vita e dalla nostra esperienza, per cui, dalle nostre impressioni è più facile ricavare chi noi siamo e non tanto chi è l’altro. L’empatia mette in gioco spazio e tempo, in quella “giusta distanza” che impedisce all’amore di travolgere e all’indifferenza di raggelare. Empatia vuol dire “giusto tempo”, perché dove è in gioco il dolore (ma anche l’amore) ciò che conta non è la verità, che gli psicologi chiamano “diagnosi”, ma il tempo della sua comunicazione, che non deve essere né anticipato né ritardato. Anche per questo i Greci avevano una parola: kairós, il tempo opportuno, il tempo debito, il tempo dove la parola si incontra con l’ascolto senza fraintendimento in quella giusta coincidenza che la lunga frequentazione rende possibile e che conduce alla scoperta dell’irripetibilità dell’individuo come intersezione di piani spazio-temporali imprevedibili, nonché al senso di un accadere infondato, rivelato dal caso e intuibile nell’istante come kairós terreno, «tempo debito» di ogni cosa e di ciascuno, ritaglio temporale che ci viene offerto in dono, e dove la nostra quotidiana esperienza può trovare un’occasione per tornare a manifestarsi.» EROS SINTESI DELLA VOCE EROS CURATA DA GIOVANNI BOTTIROLI ENCICLOPEDIA EINAUDI - VOLUME 5 (Pag.656-681)
L’eros comunemente viene connesso all’amore, per sottolinearne la differenza o la complementarità: l’eros è qualcosa di diverso dall’amore, l’eros si completa con l’amore e viceversa; ma anche: l’eros si oppone all’amore, l’eros è la parte di amore a cui va applicata una decisa censura. Tutte queste convinzioni, che costituiscono un complesso luogo comune, diversamente connotato a seconda dell’ideologia che ad esso si applica, sembrano trascurare anche in minima parte la lezione freudiana (più di rado ne costituiscono una qualche forma di superamento). � Se infatti il soddisfacimento, più o meno completo, delle pulsioni (cfr. pulsione, inconscio), anzi la risoluzione di qualsiasi conflitto, fondata sul superamento di ogni forma di castrazione e complesso (o almeno di quelle dominanti), si considera come punto di riferimento necessario, allora l’eros difficilmente potrà venire assimilato a un generico desiderio e/o piacere senza amore (e l’amore non rischierà di essere considerato al di là del piacere); né tanto meno si potrà sostenere generalizzando che all’eros sia riservato il desiderio e all’amore il piacere. � SINTESI DELLA VOCE EROS CURATA DA GIOVANNI BOTTIROLI ENCICLOPEDIA EINAUDI - VOLUME 5 (Pag.656-681)
L’eros comunemente viene connesso all’amore, per sottolinearne la differenza o la complementarità: l’eros è qualcosa di diverso dall’amore, l’eros si completa con l’amore e viceversa; ma anche: l’eros si oppone all’amore, l’eros è la parte di amore a cui va applicata una decisa censura. Tutte queste convinzioni, che costituiscono un complesso luogo comune, diversamente connotato a seconda dell’ideologia che ad esso si applica, sembrano trascurare anche in minima parte la lezione freudiana (più di rado ne costituiscono una qualche forma di superamento). � Se infatti il soddisfacimento, più o meno completo, delle pulsioni (cfr. pulsione, inconscio), anzi la risoluzione di qualsiasi conflitto, fondata sul superamento di ogni forma di castrazione e complesso (o almeno di quelle dominanti), si considera come punto di riferimento necessario, allora l’eros difficilmente potrà venire assimilato a un generico desiderio e/o piacere senza amore (e l’amore non rischierà di essere considerato al di là del piacere); né tanto meno si potrà sostenere generalizzando che all’eros sia riservato il desiderio e all’amore il piacere. � Se l’eros è (o rappresenta?) l’intera pulsione di vita, che ha bisogno di una certa «energia» per affermarsi (la libido, in particolare, per le pulsioni sessuali), allora l’eros assume effettivamente, com’è stato detto, una portata speculativa generale, costituendo quasi il luogo, culturalmente e non solo biologicamente definito (cfr. maschile/femminile, uomo/donna, donna), della sessualità, senza però che quest’ultima, trasferita in un discorso e/o in un’immagine, cessi di esistere come tale. Nel Convito, PAUSANIA distingue dall’eros volgare, che si rivolge ai corpi, l’eros celeste, che si rivolge alle anime. Il medico ERISSIMACO vede nell’amore una forza cosmica che determina le proporzioni e l’armonia di tutti i fenomeni così nell’uomo come nella natura. ARISTOFANE, col mito degli esseri primitivi composti d’uomo e di donna (androgini), divisi dagli dèi per punizione in due metà di cui l’una va in cerca dell’altra per unirlesi e ricostituire l’essere primitivo, esprime uno dei caratteri fondamentali che l’amore rivela nell’uomo: l’insufficienza. Da questo carattere, appunto, prende le mosse SOCRATE: l’amore desidera qualche cosa che non ha, ma di cui ha bisogno, ed è quindi mancanza. Il mito infatti lo dice figlio di Povertà (Penìa) e di Acquisto (Poros); come tale esso non è un dio, ma un dèmone; perciò non ha la bellezza ma la desidera, non ha la sapienza ma aspira a possederla ed è quindi filosofo, mentre gli dèi sono sapienti. L’amore è dunque desiderio di bellezza; e la bellezza si desidera perché è il bene che rende felici. L’uomo che è mortale tende a generare nella bellezza e quindi a perpetuarsi attraverso la generazione, lasciando dopo di sé un essere che gli somiglia. La bellezza è il fine, l’oggetto dell’amore. Ma la bellezza ha gradi diversi ai quali l’uomo può sollevarsi solo successivamente attraverso un lento cammino. In primo luogo, è la bellezza di un corpo quella che attrae ed avvince l’uomo. Poi egli si accorge che la bellezza è uguale in tutti i corpi e così passa a desiderare e ad amare tutta la bellezza corporea. Ma al di sopra di essa c’è la bellezza dell’anima; al di sopra ancora, la bellezza delle istituzioni e delle leggi e poi la bellezza delle scienze e infine, al di sopra di tutto, la bellezza in sé, che è eterna, superiore al divenire e alla morte, perfetta, sempre uguale a se stessa, fonte di ogni altra bellezza e oggetto della filosofia». (da N.ABBAGNANO-G.FORNERO, Filosofi e filosofie nella storia, PARAVIA 1986, pag.130) Espiazione ESPIAZIONE - Il libro, il film da NonSoloProust di gabrilu
Il romanzo Espiazione (Atonement), dello scrittore inglese Ian McEwan, è del 2001, ha avuto un grande successo, e da esso è stato tratto anche un film oggi candidato a ben 7 Oscar.
Inghilterra. Una torrida estate del 1935. La guerra che impazza nel continente si avvicina sempre di più.
Nella villa dei Tallis, nel Surrey, Cecilia e Briony si preparano all'arrivo del fratello Leon e di un suo amico. Briony ha 13 anni. Vede dalla finestra una scena tra sua sorella e Robbie, il figlio della cameriera che è cresciuto con loro, legge una lettera di Robbie che non è destinata a lei, coglie di sorpresa Robbie e la sorella in un amplesso in biblioteca e, quando più tardi, di notte, vede nel buio del giardino una figura maschile che si allontana dalla cugina Lola, non esita un attimo ad indicare Robbie come lo stupratore. La testimonianza di Briony distruggerà la vita del ragazzo e di Cecilia.
In rete non mancano ottime recensioni che affrontano a tutto campo sia il libro che il film.
Io però qui voglio parlare solo di un aspetto particolare del libro, quello che per me costituisce l'elemento più interessante del romanzo: il perchè del comportamento di Briony.
Che cosa la spinge a commettere quello che lei stessa, in seguito, chiamerà "crimine", e cioè accusare ingiustamente di stupro un innocente?
"Da dove partire per comprendere la mente di questa bambina?" si chiede Robbie Turner a metà del romanzo ed è appunto quello che mi sono chiesta anch' io.
La Briony di McEwan è una ragazzina molto affezionata al fratello Leon ed alla sorella Cecilia, che ammira molto. Ha una fervida immaginazione, alla sua età mostra già passione e talento per la scrittura. Grande ammiratrice di Virginia Woolf, appena adolescente ha già letto tre volte il suo splendido ma anche impervio Le onde. Ha un' "indole metodica", il suo amore per l'ordine è addirittura maniacale. E' una perfezionista. A mio parere la chiave di tutto sta in questa frase di McEwan che descrive Briony come "una di quelle bambine possedute dal desiderio che al mondo fosse tutto assolutamente perfetto" (p.8)
Saoirse Ronan
Quando Briony assiste dalla finestra alla scena tra Cecilia e Robbie, quella scena le appare senza senso. Ma lei non può tollerare che le cose non abbiano un senso, tutto deve avere una logica. Briony dunque interpreta a modo suo, con gli strumenti cognitivi della sua età. Il fraintendimento prosegue con l'episodio della lettera e della scena cui assiste in biblioteca e tutto questo avrà ripercussioni drammatiche per l'esistenza di Cecilia e di Robbie.
C'è un brano che voglio riportare perchè mi sembra fondamentale per la comprensione del romanzo. Anche qui, Briony guarda dalla finestra ma questa volta lei è fuori la villa e guarda dentro.
"...alla luce di un'unica lampada, parzialmente nascosta da un lembo del tendone di velluto, riuscì a scorgere un'estremità del divano dove stava appoggiato di sghembo un oggetto cilindrico che dava l'impressione di essere sospeso. Solo dopo avere coperto un'altra cinquantina di metri capì che stava guardando una gamba isolata dal resto del corpo. Avvicinatasi ulteriormente, afferrò il gioco di prospettive: la gamba era di sua madre [...]. La sua figura era quasi del tutto nascosta dall'ombra delle tende, e la gamba visibile era sostenuta dal ginocchio dell'altra, ragione per cui appariva obliqua e sollevata dal divano" (p.168)
La fonte luminosa è una sola, la prospettiva può ingannare. Una gamba "isolata dal resto del corpo" può sembrare ciò che non è, per esempio "un oggetto cilindrico". Modificando le distanze, cambia il punto di vista e muta l'identità dell'oggetto osservato...
Il senso più profondo di Espiazione, secondo me, sta nel suo essere un romanzo sulla modalità di percezione della realtà, sugli strumenti che ciascuno di noi più o meno consapevolmente utilizza per dare un senso, un ordine, una logica al mondo che ci circonda.
Briony è assolutamente innocente ed in buona fede, quando dice "l'ho visto", ed "è stato lui". Ma la sua è un'innocenza che si rivela catastrofica. C'è anche chi ha visto in Espiazione un romanzo sui rischi della fantasia. Questo elemento è senza dubbio presente, ma credo che il "peccato" di Briony consista soprattutto nella sua assoluta, incontrollata esigenza di voler "dare ordine al dis-ordine", bisogno questo che la spinge ad una sorta di delirio di onnipotenza nel voler esercitare un controllo sulla vita altrui. Di tutto questo si renderà conto, almeno in parte, molto più tardi, e cercherà di "espiare". Ma, pur senza rivelare il finale della storia a chi non avesse letto il libro nè visto il film, voglio dire che la stessa modalità con cui Briony cercherà di espiare il suo "crimine" mantiene in qualche modo la caratteristica di voler re-inventare, ri-scrivere la realtà manifestando, ancora una volta, un desiderio di controllo sugli altri.
Espiazione mi ha richiamato alla mente un altro romanzo considerato ormai un classico, scritto anche questo da un inglese: parlo di Passaggio in India di Edward Morgan Forster. Ho colto tra i due romanzi parecchie analogie (ma anche molte differenze). Sarebbe interessante poterle sviluppare e ragionarci sopra, io credo.
Il film del 2007, diretto da Joe Wright, molto ben realizzato e piacevolissimo da vedere, è però uno di quei film che, pur restando molto fedele al libro per quanto riguarda il plot, banalizza però --- e non di poco, a mio parere -- il significato del comportamento di Briony. Nel film, infatti, viene fatto intendere abbastanza chiaramente come Briony abbia consapevolmente testimoniato il falso e che il suo movente sia stato da una parte il suo amore non corrisposto per Robbie e la sua invidia e gelosia nei confronti della sorella Cecilia. Per carità, la storia regge bene anche così, ed il film risulta comunque un ottimo film. Ma chi abbia letto attentamente il romanzo non può non cogliere questo impoverimento di senso. ETICA Le posizioni in tema di etica possono essere prese in due modi. In nome della verità e del dogma, con regole generali e astratte; oppure in nome della carità e della compassione, con atteggiamenti e comportamenti concreti
Giovanni Botero nella sua Della Ragione di Stato del 1589 scriveva, a proposito dei Modi di propagandar la religione: "Tra tutte le leggi, non ve n'è alcuna più favorevole a' Prencipi, che la Christiana: perché questa sottomette loro, non solamente i corpi e le facoltà de'sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora e i pensieri". Botero era uomo della controriforma. Purtroppo, c'è chi pensa ancora così, tra i nostri moderni "prencipi". Essi potrebbero far loro il motto di un discepolo di Botero che scriveva: "questa è la ragion di stato, fratel mio, obbedire alla Chiesa cattolica". Ora, se l'obbedienza alla Chiesa cattolica è la ragion di stato, è chiaro che i laici non troveranno mai un approdo comune con costoro
Gustavo Zagrebelsky etica “Morale” è ciò che pertiene ai mores, all’insieme dei comportamenti e delle abitudini cui un popolo obbedisce, anche senza che alcuna legge li abbia stabiliti. E’ così che mos può accompagnarsi, ma può anche opporsi a lex. Per sua natura (per la sua essenza convenzionale e pattizia) la legge non potrà mai esprimere quella “volontà generale” che invece si manifesta nella quasi intemporale consuetudine del costume. Questa diversa origine può sempre portare a conflitti: il costume resiste all’invadenza della legge “scritta”, e la laicità della legge vede nella sacralità del costume qualcosa che per essenza limita il proprio potere. L’ambito del mos, comunque, non può in nessun caso essere ridotto a quello della legge e dell’obbedienza alla legge. Esso coinvolge l’intera memoria veterum: custodisce l’insieme delle cerimonie, dei culti, degli istituti che i padri hanno tramandato. E per i quali si ha pietas - una cura tutta particolare: quella che si deve alla propria stessa radice, che sostiene la crescita presente. Si potrebbe dire che “morale” è l’indefettibile pietas per il proprio portante passato: avvertire il proprio stesso passato come eterno. Ancora più ricco di significati e implicazioni è il termine greco ethos che i latini traducono, appunto, con mos. L’opera lunga e complessa di intere generazioni che produce l’ethos non può concepirsi se non collocata. Ogni ethos ha il suo “pascolo” proprio, la sua certa dimora. Per essere, deve abitare. Socrate non oltrepassa mai i confini di Atene. Grazie a questo suo radicamento (al suo apparire, quasi, prodotto dal genius loci), tale ethos verrà da molti condiviso, creerà legami di reciproca appartenenza. Da ethos viene così hetairos, il compagno, l’”alleato” più sicuro, poiché allevato con me nel medesimo oikos (casa - ma la radice del termine greco è la stessa del vicus latino. L’hetairos non è il fratello di sangue, il parente, ma colui con il quale si condivide l’insieme delle consuetudini più antiche, e la pietas per esse). E un’affinità profonda collega questa famiglia di termini a quella che designa l’insieme dei liberi: la gente figlia legittima di una terra comune, nutrita da un “pascolo” comune. Ne risulta perciò questo quadro d’insieme: veramente libero (cioè, padrone di sé: e nel suus latino sembra risuonare la radice di ethos) è solo il comportamento etico-morale, nel senso che soltanto chi “interiorizza” perfettamente le abitudini, i costumi, le memorie della sua patria, e sulla loro base stringe durature alleanze, può dirsi veramente figlio della terra che lo nutre. In che senso potremmo, oggi, parlare di ethos? Dove vi è traccia ancora di una vivente memoria veterum? Come potremmo chiamare oikos la nostra “residenza” occasionale, fortuita? O hetairos, compagno, quel “passante” che incontriamo? Non consiste il senso stesso della nostra civiltà nell’”estenderci” oltre il passato, nel rimuoverlo, nell’”infuturarci” tutti? Non vi è più tempo perché organicamente si formi un’abitudine, un costume; i valori cui siamo educati son quelli della mobilità, della peregrinazione. E vengon da molto lontano: già l’ethos ellenistico, nel suo astratto universalismo, non è più ethos, secondo il più autentico etimo. Una “morale universale” (che il saggio illustra in ogni luogo e ad ogni uomo) non ha nulla a che fare né con i mores, né con gli ethe. E spietata, irreversibile si abbatte poi sugli dèi della polis e della stessa civitas la critica cristiana. Nessuna casa, nessuna città appaiono più idonee ad offrire rifugio alle miserie dell’uomo - anzi, esse saranno da riguardare piuttosto come luoghi sempre in potenza agitati da passioni e sopraffazioni, da sedizioni e liti. L’idea di fratellanza si astrae poderosamente da ogni sodalizio propriamente etico (ethos e sodalis hanno la stessa radice), per significare l’universale appartenenza alla Parola, all’Annuncio. La diversità dei luoghi e delle loro storie appare come una resistenza da superare, così come i tempi delle diverse nazioni e città si riducono all’indifferente unità del nostro computo degli anni. Senza incanti, senza nostalgie regressive va affrontato il problema: non solo nell’attuale vita metropolitana non vi è neppure memoria della dimensione della polis (che si accompagna al senso intatto dell’ethos - di più: polis presuppone l’assoluto primato del suo “tutto”, del suo cosmo, sulla molteplicità degli individui), ma neppure più vi si dà traccia di civitas (che è termine secondario, derivante dai cives), poiché civitas non può esservi al di fuori di quella “volontà generale” che si esprime nei mores e nell’effettivo riconoscimento del loro valore. Nell’”esplosione” della forma dell’urbs, del luogo della città, consiste l’estremo prodotto di questa storia di dissoluzione dell’ethos. Non è che finisca la forma tradizionale della città e perciò vada in malora ogni dimensione propriamente etica - è invece la crisi dell’idea di ethos che condanna la città: l’urbs diviene un indifferente momento dello spazio, o, piuttosto, un ostacolo, un pesante retaggio, per una civiltà della “universale mobilitazione”, un insopportabile arresto nel flusso del suo tempo. E di questo tempo noi siamo, volenti-nolenti, i “figli”: di nessun luogo e di nessun tempo, cioè, eticamente considerati. Da tale condizione dobbiamo partire, per cogliere i segni della sua possibile “catastrofe”, di un altro possibile mutamento di stato - che mai potrà semplicemente restaurare tramontate “morali”.
La “libertà“, per noi, da carattere proprio dei figli (dei liberi, appunto) stabilmente residenti in un luogo e custodi dei suoi valori, si è trasformata in libertà da ogni stabile legame, in libertà di movimento lungo tutte le direzioni. Avvertiamo come “nemico” ciò che ostacola o frena l’universale circolazione di cose, uomini, idee. Il movimento “progressivo” che ha assalito la città tende, fin dalla sua origine, a soddisfare una tale domanda, o, meglio, è parte integrante della cultura che tale esigenza esprime. […]
(da MASSIMO CACCIARI, Ethos e metropoli, MicroMega 1/1990, pp.39-48) etica «… La condotta di un individuo può essere giudicata morale a seconda della conformità o meno alle regole o ai valori vigenti e proposti. Eppure non basta. L’individuo diviene davvero soggetto morale se si rende responsabile della sua condotta, sia essa conforme alle regole e alle abitudini o difforme da esse. Nessun individuo può divenire da solo soggetto morale, ma non vi è morale se non vi è assunzione di responsabilità. Allo stesso modo non vi è né vi potrebbe mai essere credenza se l’individuo non divenisse interprete - più o meno originale - dell’universo simbolico a cui appartiene ed entro cui opera.
Ha ragione Foucault: “Se è vero che ogni azione morale implica un rapporto con il reale in cui si compie e un rapporto con il codice cui si riferisce, è vero altresì che essa implica un rapporto con se stessi, e questo rapporto non è semplicemente ‘coscienza di sé’, bensì costituzione di sé come soggetto morale”.
Bisogna dunque costituirsi come “soggetti morali”. Questo è più che mai urgente nel mondo contemporaneo. La complessificazione della società ha disarticolato i vecchi riferimenti: in essa si vengono sempre di più differenziando le prestazioni e i codici di condotta. Viviamo in una crescente asimmetria sociale che non è da concepire solo in termini di dispersione, ma anche di arricchimento. La dinamica della complessità ha dilatato gli spazi di libertà, ha implementato le nostre possibilità di scegliere e soprattutto di sceglierci, di modellare noi stessi con più ampia discrezione di un tempo. Ma per trarre giovamento dai mutamenti del presente bisogna esserne all’altezza. Gli uomini vivono sempre sotto il segno dell’ambiguità e la condizione contemporanea, al pari delle altre nella storia, non ne è priva. Ma vi sono difficoltà che sono specificamente nostre. Siamo esposti a rischi fino a ora mai sperimentati. Ne segnalo due: innanzitutto, corriamo spesso il pericolo d’essere travolti da quella stessa mobilità da cui dovremmo trarre vantaggi; in secondo luogo, per evitare la perdita d’identità indotta dalla celerità stessa delle mutazioni, ripariamo difensivamente nella serie. Abbiamo paura e perciò, lungi dal valorizzare le occasioni di libertà, accettiamo il regime: diveniamo passivi ed eterodiretti. Obbedienti involontari, senza neppure i vantaggi di questa celebre, antica virtù.
Per trovare stabilità in questa deriva dobbiamo costituirci più che mai come soggetti morali. A tale scopo è necessario ripiegare su di sé: bisogna raccogliere e governare la propria potenza. Divenire “soggetto morale” vuoi dire costituirsi come punto di resistenza a fronte della mobilità e delle perturbazioni dell’ambiente; ergersi a momento stabile di selezione/decisione. Se occorre, farsi luogo di neutralizzazione e di indifferenza: di assenza. Per far questo ci vuole abilità. In effetti questo è il significato originario della parola arete: virtù. Virtuoso è in primo luogo colui che è dotato di agilità, che sa trarsi fuori dalle difficoltà. Divenire legge a se stessi significa volgere la propria potenza in forma, il proprio desiderio in carattere. Questa e non altra era la ragione per cui gli antichi dicevano che ciò che è buono è bello e ciò che è bello è buono.
Ma il governo di sé non è operazione solipsistica. L’idea di virtù è sin dall’inizio legata al rapporto con gli altri, al riconoscimento. Questo meglio lo si comprende se si considera il significato del verbo greco cresco. Il termine deriva dalla medesima radice ar - da cui, appunto, arete - e vuoi dire piaccio, compiaccio, riesco gradito; significa perfino faccio ammenda. Virtuoso dunque è colui che se la sa cavare, ma è anche colui che sa compiacere, che sa chiedere scusa. Chi è legge a se stesso non invade lo spazio degli altri. In effetti, gli individui riescono a essere tanto più se stessi, quanto più si pongono in relazione agli altri: altri uomini, ma anche culture altre, tradizioni etiche diverse. È nell’incontro/scontro con le differenze che si guadagna l’identità. Non vi può essere consapevolezza di sé al di fuori dell’esperienza della differenza. …»
(SALVATORE NATOLI, Dizionario dei vizi e delle virtù, FELTRINELLI 1996, pp.8-9) etica della responsabilità L’etica della responsabilità è TIPICAMENTE un’etica laica. In che senso? Nel senso che non discende dall’adesione ad un sistema di valori ma dall’analisi della situazione concreta cui la si applica. Chi vi aderisce si chiede quali conseguenze scaturiranno dai suoi atti. E se ne assume la responsabilità.
L’etica dei principi o etica assoluta ( o della testimonianza o dei sentimenti o delle intenzioni) è un’etica TIPICAMENTE “religiosa”, nel senso più lato del termine. Chi vi aderisce si chiede se le sue azioni siano coerenti e lo mantengano fedele alla sua “chiesa”, o sistema di riferimento. In questo modo tende a respingere la sua responsabilita nei confronti delle conseguenze delle sue azioni. Europa nazioni L’Europa non può che essere una comunità di nazioni. Per diventarlo deve però riscoprire il senso e la funzione della Nazione, comunità molto più antica e forte, nella psiche collettiva, dello Stato moderno: il secondo legato alla conquista e gestione del potere, la prima legata all’identità e rappresentazione dei popoli. FAMIGLIE POLGAR A., PICCOLE STORIE SENZA MORALE,
ADELPHI, 1994, p. 29-31
Ora che il bambino è venuto al mondo, tutti, tranne il neonato, sono colmi di gioia. Parenti e conoscenti si volgono sorridendo all'omuncolo grinzoso, rosso come un tizzone, che dovrebbe risvegliare piuttosto un sentimento di pietà perché nell'attimo stesso in cui è entrato nella vita è anche entrato nella morte, e ogni secondo che lo allontana dall'istante del suo principio lo avvicina all'istante della sua fine. Ancora immortale nove mesi prima come un'idea eterna, come un principio divino, egli è già ora in balìa della morte; del capitolo del tempo di cui dovrà dirsi pago, ha già consumato un giorno intero. « Me genésthai! » dice il saggio, la cosa migliore è non essere generati. Ma a chi tocca questa fortuna? A stento a uno, su milioni e milioni. Il bambino strilla. Angustia e malessere sono i primi a bussare alla porta ancora serrata della coscienza, e con i loro colpi lo disturbano nel sonno. Gridando, il bambino leva un lamento, un'accusa per il fatto di essere al mondo. Gli adulti, assuefatti, incalliti forzati della vita, accolgono il nuovo venuto con il tipico umorismo che cela l'imbarazzo. Ipocritamente domandano: « Insomma, che c'è? » come se non sapessero benissimo che cosa c'è. Intonando nenie carezzevoli, il padre esorta il bambino a sorridere. Con occhi avidi va spiando questo sorriso come un segno che il povero essere si è rassegnato al destino di stare al mondo. « Avanti, fammi una risatina! » sussurra, e questo vuoi dire: Mostra che mi perdoni di averti scaraventato nella comunità dei viventi! L'amore paterno è in parte senso di colpa verso il figlio che è nato. Ma nei padri, com'è naturale, questo sentimento è incapsulato fino a essere quasi impercettibile, represso com'è dall'orgoglio del creatore, sebbene la breve mansione del padre nel generare la creatura, se la si paragona alla prestazione materna, non sia poi così impressionante. Dimora già un'anima nel mucchietto di cellule ar-moniosamente disposte? Sono già venute le buone fate a recare doni e talenti, e le streghe malvage che portano i primi complessi? La piccola macchina lavora a pieno ritmo; il cuore batte, il sangue corre, le ghiandole secernono, i polmoni liberano ossido di carbonio, e le dita piccine, minuscole punte di una forchettina di bambola, si serrano al dito del padre commosso. Il bambino afferra ciò che può raggiungere. Ecco, è un uomo! Ogni volta che un neonato apre gli occhi per la prima volta, si compie per suo tramite la rinascita dell'universo. È lui che schiude al mondo le porte attraverso le quali il mondo deve entrare per poter esistere. L'assalto è impetuoso, i teneri cancelli devono essere continuamente richiusi. Ma non c'è fretta, ogni cosa a suo tempo. L'occhio del bambino: qui un mondo si sporge a guardare dentro. L'occhio dell'adulto: un mondo si sporge qui a guardare fuori. Per questo esso è torbido come il vetro di un bicchiere sul quale aderiscono ancora molte tracce di ciò che è stato bevuto. Il bambino strilla. Ma quando riceve da bere, da un tenero, tenerissimo sospiro di sollievo, i suoi lineamenti si distendono, e a ogni piccolo sorso di latte sugge sul volto un sorso di pace. Così, fin dall'inizio, gli esseri umani sono corrotti dal nutrimento, piegati a reprimere i loro pensieri più veri, a non disturbare, a stare buoni. Ah, com'è buono il bambino! Anche il male è buono purché sia in miniatura. E buoni sarebbero l'inferno in formato tascabile, e perfino il diavolo, se apparisse grande quanto un pollice e con una codina di topo. La madre riposa, pallida e spossata. Si sente strana, così gradevolmente vuota e così dolorosamente abbandonata, così colma di doni e così brutalmente adoperata. E la sua anima, che rende grazie a Dio, confida intimamente nella sua gratitudine. Può ben pretenderlo, questo: il Creatore vive nelle sue creature, e ogni pezzette di nuova vita che nasce si aggiunge alla vita di Lui. Lieve, la porta si apre. La madre non si meravi-glierebbe per nulla se entrassero in punta di piedi i tre re dell'Oriente.
Ma è solo lo zio Poldi. FAMIGLIE CRESCITA SICUREZZA All'inizio è sempre geografia. Parola che mi porta a casa, parola che mi porta via. Basta pensarla, ne nasce storia. È il primo inverno della vita che ricordo. La notte cala presto. In cucina, vicino al fuoco, io e la nonna. Scoppiettio della legna e lenta sonnolenza, dentro. Fuori è il finimondo da tormenta, acqua, grandine, tuoni e fulmini. Il vento si infila tra le piagne del tetto, nelle fessure delle finestre muove vetri e telai, fa tremare le porte, ulula, fischia e risucchia tra le scale e il solaio. La nonna sta apparecchiando. La sua presenza argina e dissolve ogni paura possibile. E la mia forza, la mia sicurezza. Sostiene la casa tutta e il mondo intorno. «Bimbo! vai di sopra a prendere due mele che la nonna è stanca e non sta tanto bene.» È una richiesta spaventosa! Si tratta di uscire in corridoio, salire le scale fino al primo piano, aprire la porta cigolante scura e pesante della sala, attraversarla che, nell'angolo, sulle assi del pavimento sono conservate le mele dell'orto per l'inverno. Dire no alla nonna non si può. Dire sì come si fa? Di là dalla porta della cucina c'è il buio, gli spifferi gelidi, i rumori, le scale che dal fondo non si vede in cima. La paura. «Non avrai mica paura? Questa è la nostra casa e tu sei già un ometto.» Devo farlo. Non c'è dubbio. «Lascia la porta aperta così ci vedi.» La scala è ripida, gli scalini altissimi, sarà dura. I primi scalini li faccio in ginocchio tirandomi su a fatica. «Come va?» la voce della nonna mi rincuora. «Nonna.» «Sì, bimbo.» «Va bene, nonna.» La voce combatte la paura. Mi alzo in piedi e attaccato al corrimano salgo. Ogni scalino, prima un piede poi tutti due, un richiamo. «Nonna.» «Sì, bimbo.» «Sono qui.» «Bravo.» «Va bene.» «Bravo.» Dieci scalini, è fatta, spingo la porta e la grande stanza è tutta ombre. Solo la voce mi può aiutare. Più forte: «Nonna». «Sì, bimbo.» «Sono qui. Nella sala.» «Bravo. Prendi due mele e portale giù. Attento a non cadere.» Occhi e orecchie sbarrati arrivo alle mele e mi volto. La luce fioca che sale col tepore del fuoco, adesso in fronte, fa più facile il ritorno, ma le gambe mi tremano e devo sedermi sul primo scalino per riprendermi. Due mele nelle mani: «Nonna, ecco». L'eccitazione addosso e l'orgoglio di aver compiuto l'impresa. «Bravo bimbo, diventi grande alla svelta e la nonna è contenta, si può fidare di te. A tavola, adesso, che la cena stasera te la sei guadagnata come un ometto.» Questo è il primo ricordo che lego alla scoperta del mondo. Una scoperta concentrica per allargamento. ...
In Giovanni Lindo Ferretti, Reduce, Mondadori, 2006, 41-43 FAMIGLIE EDUCAZIONE “Per quanto riguarda l’educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtù, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l’indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore della verità; non la diplomazia, ma l’amore al prossimo e l’abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere. Di solito invece facciamo il contrario: ci affrettiamo a insegnare il rispetto per le piccole virtù, fondando su di esse tutto il nostro sistema educativo. Scegliamo, in questo modo, la via più comoda… . Trascuriamo d’insegnare le grandi virtù, e tuttavia le amiamo, e vorremmo che i nostri figli le avessero: ma nutriamo fiducia che scaturiscano spontaneamente nel loro animo, un giorno avvenire, ritenendole di natura istintiva, mentre le altre, le piccole, ci sembrano il frutto d’una riflessione e di un calcolo e perciò noi pensiamo che debbano assolutamente essere insegnate. In realtà la differenza è solo apparente: Anche le piccole virtù provengono dal profondo del nostro istinto, da un istinto di difesa: ma in esse la ragione parla, sentenzia, disserta, brillante avvocato dell’incolumità personale. Le grandi virtù sgorgano da un istinto in cui la ragione non parla, un istinto a cui mi sarebbe difficile dare un nome. E il meglio di noi è in quel muto istinto: e non nel nostro istinto di difesa, che argomenta, sentenzia, disserta con la voce della ragione. L’educazione non è che un certo rapporto che stabiliamo fra noi e i nostri figli, un certo clima in cui fioriscono i sentimenti, gli istinti, i pensieri. Ora io credo che un clima tutto ispirato al rispetto per le piccole virtù, maturi insensibilmente al cinismo, o alla paura di vivere. Le piccole virtù, in se stesse, non hanno nulla da fare col cinismo, o con la paura di vivere: ma tutte insieme, e senza le grandi, generano un’atmosfera che porta a quelle conseguenze. Non che le piccole virtù, in se stesse, siano spregevoli: ma il loro valore è di ordine complementare e non sostanziale; esse non possono stare da sole senza le altre, e sono, da sole senza le altre, per la natura umana un povero cibo. Il modo di esercitare le piccole virtù, in misura temperata e quando sia del tutto indispensabile, l’uomo può trovarlo intorno a sé e berlo nell’aria: perché le piccole virtù sono di un ordine assai comune e diffuso tra gli uomini. Ma le grandi virtù, quelle non si respirano nell’aria: e debbono essere la prima sostanza del nostro rapporto coi nostri figli, il primo fondamento dell’educazione. Inoltre, il grande può anche contenere il piccolo: ma il piccolo, per legge di natura, non può in alcun modo contenere il grande.” Natalia Ginzburg, Le piccole virtù FAMIGLIE MADRI Certe madri hanno bisogno di figli infelici, altrimenti la loro bontà di madri non può manifestarsi."
Friedrich Wilhelm Nietzsche filosofia “Si ignora anche la grandezza filosofica di Eschilo.
E la cosa è anche più grave. Insieme a pochi altri,
egli apre il cammino dell’Occidente.”
(E. Severino, Il nulla e la poesia)
Esiste un arco che ha ai suoi estremi Eschilo e Leopardi. La parabola che corre dall’uno all’altro è ciò che chiamiamo Occidente. Con Eschilo nasce infatti l’illusione essenziale: che la conoscenza della verità - quella parte della verità certa e immutabile a portata della ragione degli uomini - è il solo rimedio che la nostra specie abbia per salvarsi dal dolore. Il dolore essenziale è quello della morte. La verità è il rimedio al dolore per la propria incompiutezza e mortalità perché la verità come epistéme “è il rimedio al dolore, perché mostra incontrovertibilmente che la sostanza di tutti gli essenti, è eterna, “sempre salva” dal niente (Aristotele, Metaph. 983 b 13” (E. Severino, Il nulla e la poesia).
Solo con Leopardi questo percorso trova il suo epilogo; perché “Leopardi, per primo, pensa che la verità è appunto l’annientamento della vita e delle cose e che quindi non può essere il rimedio del dolore. La verità è il dolore” (Ibid.).
Ancora:
“Nel pensiero di Leopardi la fede nell’“evidenza” del divenire acquista una intensità che non aveva mai avuto: con estrema potenza testimonia ciò che per essa è la visibilità pura, la luce piena dove appare che l’annientamento non distrugge (e la creazione non produce) semplicemente gli aspetti accidentali e individuali, ma la sostanza stessa e l’intera consistenza dell’essente. Testimonia il “nulla verissimo e certissimo delle cose” (Zib. 103)” (Ibid.).
“Che l’angoscia estrema sia prodotta dall’annientamento degli essenti e dal loro provenire dal nulla è uno dei tratti essenziali e decisivi delle origini del pensiero filosofico. Riceve la sue espressione più grandiosa da Eschilo; guida l’intera storia dell’Occidente; il pensiero di Leopardi ne è la testimonianza più pura, all’inizio del processo in cui la cultura contemporanea rifiuta il rimedio che la tradizione dell’Occidente aveva preparato contro l’angoscia del nulla: la ragione come rimedio. E’ “la ragione umana... incapace di farci non dico felici ma meno infelici”; anzi, è “fonte ... di assoluta e necessaria pazzia” - anche se, certo, “verissima pazzia” (Zib. 103-4).” (Ibid.). filosofia Gli altri formano l'uomo; io lo racconto e ne rappresento uno in particolare assai mal fatto, e il quale, se avessi da modellare nuovamente, farei invero diverso da quel che è. Oramai, è fatto. Ora, le linee del mio ritratto non si disperdono, benché cambino e si diversifichino. Il mondo non è che un movimento continuo. Ogni cosa vi si muove senza tregua: la terra, le rocce del Caucaso, le piramidi d'Egitto, e del movimento pubblico e del proprio. La stessa costanza altro non è che un movimento più languido. Non posso assicurare il mio oggetto. Se ne va fosco e barcollante, di una ebbrezza naturale. Lo colgo in questo punto, come si presenta, nell'istante in cui me ne interesso. Non dipingo l'essere. Dipingo il passaggio [.]. E' un controllo di diversi e mutevoli avvenimenti cangianti e d'immaginazioni irrisolte e, quando capita, contrarie; che io sia un altro me stesso, o che io colga i soggetti da altre circostanze e considerazioni. Tant'è che mi contraddico talvolta, ma la verità, come diceva Demadio, non la contraddico affatto. Se la mia anima potesse essere ferma, non mi saggerei, mi risolverei; è sempre in formazione e in prova. Quella che propongo è una vita semplice e senza lustro, è un tutt'uno. Si può legare altrettanto bene tutta la filosofia morale a una vita popolare e privata che a una vita di stoffa più ricca; ciascun uomo porta in sé la forma intera dell'umana condizione. Michel de Montaigne Saggi (vol.III)
------------------------------------------------------------------------------------------------------- Analisi testuale
Titolo:
Il titolo sembra perdersi nell'insieme tanto vasto quanto anonimo del genere del saggio. In realtà, il contenuto di questo passo mostra fino a che punto esso sia significativo ed appropriato: il libro si intitola "saggio" precisamente e letteralmente perché lo scopo dell'autore è quello di saggiarsi attraverso la scrittura, e allo stesso tempo quello di farsi saggiare dal lettore. Infatti, l'oggetto del libro è il racconto di sé in quanto uomo ("io racconto [l'uomo] e ne rappresento uno in particolare"). Un riferimento chiaro al legame che c'è tra il titolo e il saggiarsi si trova alla fine del primo paragrafo: "Se la mia anima potesse essere ferma, non mi saggerei, mi risolverei"; qui Montaigne indica esplicitamente la ragione del suo libro, e quella della scelta del titolo.
Oggetto:
Se è vero che l'oggetto del racconto è un uomo "in particolare", ciò non significa che esso sia "degno" di essere "raccontato" per motivi a lui intrinseci: quest'uomo non è né particolarmente importante né in alcun modo esemplare ("ne rappresento uno assai mal fatto" - par. 1; "Quella che propongo è una vita semplice e senza lustro" - par. 2). In altre parole, qui non si tratta, come nel caso delle Confessioni di Rousseau (1765-70), di parlare di sé perché si vuole rivendicare la dignità del soggetto individuale. L'IO narrante parla di sé unicamente perché appartiene al genere umano, come uno dei tanti possibili rappresentanti dell'Uomo, perché "si può legare altrettanto bene tutta la filosofia morale a una vita popolare e privata che a una vita di stoffa più ricca" (par. 2).
Forma:
Come abbiamo già detto, l'oggetto del libro è il racconto di sé. Ma questa osservazione necessita di alcune precisazioni. Gli Essais (Saggi) di Montaigne non sono né un diario né un'autobiografia: infatti, a differenza del diario, non abbiamo nessuna successione cronologica né divisione in sezioni con datazioni diverse; e a differenza dell'autobiografia, non ci viene presentata la vita di un uomo che è importante nella sua individualità (storica, sociale, ecc.), raccontandola secondo uno schema ordinato e volto a dimostrare qualcosa. Gli Essais sono il risultato di una scrittura aperta, il cui unico scopo è quello di "raccontare" un uomo.
Ritmo:
Dato che non segue nessun ordine, né cronologico né causale, la narrazione, ci avverte Montaigne, si sviluppa seguendo i pensieri del narratore, attraverso un movimento fluido e altalenante, retto unicamente dalla legge della libera associazione di idee. Essa perciò sembra essere lasciata andare a briglia sciolta, in maniera disordinata e incoerente; in realtà, è il frutto di un attento criterio stilistico, di un vero e proprio metodo sperimentale: come ha fatto notare un famoso critico, Auerbach*, il ritmo narrativo in Montaigne è spiegato e giustificato (dallo stesso autore- narratore) attraverso un preciso sillogismo: 1. Io racconto un uomo particolare (me stesso) 2. Ogni cosa nel mondo è in continuo movimento e cambiamento 3. Perciò: io, che faccio parte del mondo, sono in continuo movimento, e la mia narrazione, che si vuole adattare al suo oggetto, è altrettanto mutevole.
Temi principali:
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Il divenire: la maggior parte del primo paragrafo è interamente dedicata a questo tema. Attraverso la constatazione che tutto, nel mondo, è in movimento, per motivi esterni o propri ("del movimento pubblico e del proprio"), Montaigne arriva a spiegare come il suo oggetto (cioè se stesso) gli sfugga ("se ne va fosco e barcollante"). L'unico modo per lui di "assicurarlo" (di catturarlo, di coglierlo) è quello di prenderlo "così come si presenta", cioè in movimento. Perciò può affermare di non dipingere l'essere (ciò che è stabile), ma il passaggio. Per lo stesso motivo lui, al contrario degli altri, non può formare l'uomo, ma soltanto raccontarlo, poiché per formarlo bisognerebbe averne prima fissato l'essenza. Di nuovo, questa è pure la ragione per cui egli, in quanto essere mutevole, non può risolversi, ma unicamente saggiarsi. * La semplicità: Montaigne insiste nel ribadire che egli non "racconta" se stesso perché ha particolari qualità che lo rendono interessante in quanto individuo. Si presenta come "una vita semplice e senza lustro", non tanto perché ciò sia vero in pratica (Montaigne era, in effetti, un nobile ed una delle persone più in vista in Francia all'epoca in cui ha vissuto), quanto perché così è nelle intenzioni: se avesse voluto raccontare di sé come uomo illustre, avrebbe potuto farlo benissimo, ma ciò che gli preme è il raccontarsi come uomo. Egli richiede a se stesso una sola qualità: l'umanità, perché tanto basta alla sua filosofia morale. * La verità: l'unica condizione richiesta dal suo lavoro è la sincerità nel parlare di sé. Questa condizione è seguita in maniera molto rigorosa da Montaigne, tanto da poter affermare che persino nella sua incoerenza egli è in realtà perfettamente coerente con la propria natura ("mi contraddico talvolta, ma la verità, come diceva Demadio, non la contraddico affatto").
Osservazioni conclusive:
* La differenza tra un libro come Le confessioni di Rousseau e i Saggi di Montaigne riflette la differenza che esiste tra due secoli tanto distanti come il '700 e il '500. Quando Rousseau, da vero pre-romantico, decide di scrivere un libro su se stesso, l'intento principale è quello di rivendicare la dignità della propria persona in quanto possibile oggetto di un libro (ricordiamo che Rousseau era un borghese, e che si rivolgeva ad un pubblico principalmente aristocratico). In Montaigne non c'è alcuna rivendicazione personale ed individuale: se scrive di sé, è il proprio essere uomo che lo interessa, ed in questo rispecchia perfettamente il '500, secolo dell'Umanesimo. * Come abbiamo visto, gli elementi principali di questo passo sono: 1) la volontà di presentare se stessi in maniera semplice e al contempo rigorosa; 2) la necessità di parlare del proprio oggetto attenendosi alla verità; 3) il desiderio di cogliere questo oggetto nella sua complessità e totalità; 4) la necessità di adeguare lo stile narrativo all'oggetto della narrazione. Tutti questi elementi riflettono perfettamente il pensiero rinascimentale, che si contraddistingue, tra l'altro, per il tentativo di costruire un sistema stabile al cui centro stia una visione armoniosa e completa dell'Uomo.
* Erich Auerbach, Mimesis (Il realismo nella letteratura occidentale), Vol. II, cap. 2. filosofia coscienza laica "coscienza laica: quella parte di coscienza, presente in ogni uomo, credente o non credente, che cerca la verità per se stessa e non peR appartenere a una istituzione; quella parte della coscienza che vuole aderire alla verità, ma vuole farlo senza alcuna forzatura ideologica, di nessun tipo, e se accetta una cosa lo fa perchè ne è profondamante convinta e non perchè l'abbia detto uno dei numerosi papi o uno degli altrettanto numerosi papi della cultura laicista" Vito Mancuso, L'anima e il suo destino, Raffeallo Cortina, 2007 p. 1 filosofia coscienza laica “coscienza laica”:
“intendendo con ciò quella parte della coscienza, presente in ogni uomo, credente o non credente, che cerca la verità per se stessa e non per appartenere a un'istituzione; quella parte della coscienza che vuole aderire alla verità, ma vuole farlo senza alcuna forzatura ideologica, di nessun tipo, e se accetta una cosa, lo fa perché ne è profondamente convinta, e non perché l'abbia detto uno dei numerosi papi, o uno degli altrettanto numerosi antipapi della cultura laicista. La vera laicità significa ritenere conclusivo non il principio di autorità ma la luce della coscienza.” Vito Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina 2007, pag 1 FILOSOFIA ETICA La legge morale - dice Kant nella Critica alla ragion pratica, I, 1, 3 - deve essere concepita e accettata come un dovere "utile e valido" in sé (questo è quanto ribadisce anche Hegel nel paragrafo 503 dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche). Il punto è comunque sempre relativo alla questione dell'autorità. E' necessaria un'autorità che parli agli altri o "per conto degli altri" sui temi della morale? E se sì, da dove questa autorità trae e legittima (vorrei quasi dire "sussume", visto che l'ambito morale è sempre personale) le proprie argomentazioni fino a reputarle "legittime"? E ancora, possono queste argomentazioni avere valore universale? Se consideriamo la morale al pari delle altre forme di conoscenza, dovremmo dire che non esiste in sé una logica che giustifichi un'autorità nel campo della morale. Kantianamente parlando, ognuno costruisce la propria impalcatura morale inserendola nel più ampio "spettro" delle morali altrui al fine di coabitarvi. Se invece vogliamo considerare, con Hume e i naturalisti, la morale svincolata dalle altre forme di conoscenza umana e collocarla in un ambito più "utilitaristico", legata cioè alle contingenze temporali e pratiche, allora il discorso cambierebbe ancora. Ma risulta chiaro che essa perderebbe gran parte di quei "valori" universali a cui potrebbe far riferimento, di volta in volta, una qualsiasi autorità che volesse proporla o - peggio ancora - "imporla". A differenza di altri, sui temi della morale non ho certezze, anche se - ovviamente - è uno dei temi che più indago e che più mi sta a cuore. Non credo che una vita incentrata su una morale - per così dire - "autonoma", abbia minori garanzie di "validità" rispetto a quella che segue principi "dettati" dall'alto. Non credo cioè sia una questione di valori "orizzontali" o "verticali" ad informare un principio etico, quanto piuttosto la capacità di considerare che le pretese dell'altro, se non vogliono conculcare il mio "principio particolare", sono lecite. Diverso è quando, su molto vaghi e fumosi "principi universali", si vuole concentrare una vasta idea di morale; qui il rischio di sfociare in un certo "assolutismo" del pensiero è assai probabile. Come probabile diventa anche il pericolo di una radicalizzazione delle varie "morali", fino al mancato riconoscimento dell'altro o - peggio ancora - alla pretesa "immoralità" di chi non accoglie il principio etico di una autorità autoproclamatasi "morale", anche in palese contraddizione con la propria storia e la propria pratica quotidiana. FILOSOFIA LOGOS Logos in greco è un termine assai plastico, che significa abitualmente «parola», intesa nelle sue forme più diverse («discorso», «racconto», «detto», «resa dei conti»…). Ma vuol dire anche «ragione», «senso», e la sua radice leg- richiama una raccolta, un nesso, un legame. Appartiene al linguaggio comune, ma da Eraclito nel VI sec. a.C., è stato introdotto in quello filosofico per indicare il principio universale e coesivo del mondo FILOSOFIA MICHEL DE MONTAIGNE «Non conosco libro più calmo, e che disponga maggiormente alla serenità» scrisse Flaubert dei Saggi, e certo, tra i grandi libri in cui si è espressa la cultura occidentale, non molti sono quelli che presentano altrettanto immediata l’impronta di uno spirito sereno, coordinatore sovrano e misurato di un’infinita e fluttuante varietà di contenuti. Sorretta da una curiosità che non si arresta davanti a nulla, l’indagine serrata (se pure niente affatto sistematica) che Montaigne conduce nel suo libro vede i suoi risultati ridotti a un’unica costante che è lo studio di sé, delle proprie humeurs et conditions, e attraverso di esso arriva alla rappresentazione dell’uomo «dipinto per intero, e tutto nudo». Persuaso che tutto sia stato detto e preoccupato di dimostrare che lo spirito umano rimane sempre simile a se stesso, egli giunge, paradossalmente, alla conclusione che nulla può dirsi che sia certo, se non che tutto è incerto. Questo gli apre le porte per un viaggio senza fine all’interno di se stesso, solo oggetto possibile della sua ricerca perché il solo verificabile mediante l’esperienza diretta e, in fondo, il solo interessante per lui: «Io oso non soltanto parlare di me, ma parlare soltanto di me…». Le parti sono così rovesciate; l’uomo non deve accettare una linea di condotta precostituita, anche se resa venerabile da una tradizione solida e ormai acquisita, né districare nella selva di dottrine contraddittorie quella che gli serva come filo conduttore per la propria vita; egli deve piuttosto esprimere un modo di vita che si propone appunto di essere peculiare e unico. Questa accanita, quasi puntigliosa reductio di tutta la cultura precedente è stata indubbiamente la grande scoperta di Montaigne, e quella che ha fatto dei Saggi un punto fermo nella storia della cultura occidentale. Il libro è sì la grande summa in cui vengono esposte, criticate, parzialmente accettate o respinte con stupefacente libertà di giudizio le teorie tradizionali più generalmente accolte, il grande serbatoio attraverso cui fluisce lo spirito classico e in cui si raccolgono, filtrate, tutte le principali correnti del pensiero antico, ma soprattutto è la prima grande rappresentazione moderna dell’uomo nella sua condizione tutta umana, sradicata, parrebbe, dal suo rapporto esistenziale con la totalità – ma non da quello con la Natura –, dell’uomo come unico punto di riferimento per ogni azione e ogni giudizio. L’uomo di Montaigne, questo soggetto «vano, vario e ondeggiante», non è più l’eroe che cerca di superare la propria condizione in uno sforzo tragico o mistico, ma l’uomo nuovo, l’honnête homme, che accetta se stesso, le sue potenzialità e i suoi limiti. I Saggi sono perciò il primo grande sforzo, pienamente consapevole, di fare dell’indagine psicologica e morale la sostanza stessa dell’attività letteraria, giacché il chiarire a se stessi per mezzo della parola le proprie «fantasie informi» diventa in realtà un modo di vivere più compiutamente: «Non son tanto io che ho fatto il mio libro, quanto il mio libro che ha fatto me, libro consustanziale al suo autore, di un’utilità personale, membro della mia vita...». Da risvolto della edizione Adelphi FILOSOFIA MICHEL DE MONTAIGNE QUALCHE RIFLESSIONE SU MICHEL DE MONTAIGNE Giovanni Greco Università di Bologna
Il Viaggio in Italia di Montaigne - per molte ragioni già chiarite da voci attendibili e per altre che tenterò qui di esporre - può considerarsi un classico tout court. Così, preliminarmente, mi chiedo con Roberto Roversi: «Sono ancora i classici il ponte di liane degli incas, tremolanti su tremendi strapiombi, che con filo di dura corda e pezzetti di legno uniscono ripe lontane e contrapposte altrimenti inaccessibili? Resistono ancora ad essere lo specifico miracoloso di lunga durata?». E la risposta, per me come per numerosi altri lettori, è sì: non dobbiamo, per esempio, resistere alla tentazione di attraversare la passerella tesa fra la società organizzata e la giustizia ingiusta dell’emarginazione, o fra le più diverse sensibilità contemporanee e le antiche tradizioni culturali. Per di più, i classici antichi e moderni ci consentono di alimentare - è proprio Montaigne a sostenerlo persuasivamente - «un retrobottega tutto nostro, assolutamente autonomo, ove conservare la nostra libertà, avere il nostro più importante rifugio, godere della nostra solitudine».
Montaigne non coltiva pregiudizi di stile, ma ha il culto costante dell’antico classico, a cui consacra riflessioni di notevole respiro, alla Sainte-Beuve per intenderci. Nel panorama del pensiero moderno poi, come si sa, occupa un ruolo davvero centrale il nostro Michel Eyquem, signore di Montaigne, latifondista benestante e produttore di vini, autore sostanzialmente di un’unica, incomparabile opera, i Saggi. Invero, il Viaggio in Italia di cui ora ci occuperemo - anche leggendolo come uno specchio dell’epoca mirabile e miserabile in cui è stato steso - può considerarsi de plano un arricchimento ed un potenziamento degli Essais, nonché una chiave con cui penetrare nell’essenza spirituale del Rinascimento europeo.
Montaigne - questo inesauribile maître à penser cinquecentesco che ci accade così sovente di sentir prossimo alla nostra inquieta “condizione postmoderna” - soffre sì del mal della pietra, ma trova nelle ragioni terapeutiche pure un pretesto onde intraprendere un viaggio intensamente desiderato: si reca, pertanto, nelle più rinomate stazioni termali dell’epoca, dai bagni di Plombières ai Bagni della Villa (l’odierna Bagni di Lucca), presso cui si sottopone alle varie cure con una diligenza venata di scetticismo, che non sa farsi troppe illusioni su risultati e giovamenti.
Montaigne amava talmente viaggiare, visitare luoghi sconosciuti che, alla stessa stregua del lettore trasportato ed avvinto dal libro che sfoglia, soffriva nel timore che l’opera stesse per giungere alla conclusione: «aveva tanto piacere di viaggiare che odiava la vicinanza del luogo in cui si sarebbe dovuto fermare».
Il Viaggio in Italia non era destinato alla pubblicazione, e fu scritto in buona parte (poco meno della metà) da un famiglio di Montaigne di cui non ci è nota l’identità, ma che - come acutamente chiarito da Fausta Garavini, esegeta ed interprete straordinaria dell’intera opera montaignana - era tutt’altro che sprovveduto dal punto di vista culturale. A partire dal soggiorno lucchese, Montaigne prova quindi a cimentarsi con la lingua italiana, che dimostra peraltro di saper usare con una certa studiata familiarità.
Se il Viaggio in Italia di Stendhal «è uno stupendo romanzo», se quello di Montesquieu - anch’egli, come Montaigne, grande cittadino di Bordeaux - risulta ictu oculi pieno di vita, colore e gusto, il Viaggio in Italia del nostro homme de lettres - lo ha sostenuto con dovizia di argomenti Guido Piovene - è certamente assai meno pretenzioso, ma, fra tutti i libri riconducibili a questo genere oltremodo apprezzato e fortunato, è il più bello e il più moderno in assoluto. Non casualmente Sergio Solmi riteneva che i lavori di Montaigne rappresentassero un’autobiografia di pensieri più che di fatti: peraltro, già il grande Sainte-Beuve era convinto che Montaigne, autore superbo per profondità e universalità, fosse l’ “Orazio dei francesi”: «Il suo libro è un tesoro di osservazioni morali e di esperienza. A qualsiasi pagina lo si apra e in qualsiasi condizione di spirito, si può star sicuri di trovarci qualche pensiero saggio espresso in modo vivido e duraturo, che spicca immediatamente e s’imprime, un bel significato in una parola piena e sorprendente, in una sola lega forte, familiare o grande».
Montaigne ha quella che è forse la dote più rilevante dell’autentico viaggiatore, ossia la consapevolezza di non essere superiore a nessuno; non accetta che il viaggiatore girovaghi per il mondo lamentandosi di non trovare ciò a cui è abituato: gli piace per contro adeguarsi alle varie peculiarità territoriali, e mai compirebbe un viaggio per comprovare un preconcetto. Ciononostante, il confronto fra i paesi tedeschi e gli italiani è a nostro netto svantaggio per l’ordine, la cucina, il benessere, l’onestà, gli edifici, le finiture, le finestre senza vetri, gli alloggi, le seduzioni inferiori alle attese, le donne etc.
Il “bastione Montaigne”, per utilizzare certe tipologie di Albert Thibaudet, è il bastione dell’uomo interiore, con gocce di sangue ebraico (la madre era ebreo-spagnola), tradizionalista, moderno, cosmopolita, cattolico, antisistematico, tant’è che «stoicismo, epicureismo, scetticismo coesistono in lui». Montaigne è, per dirla con Giovanni Macchia, il maestro del dubbio, del dubbio inteso come antidoto onde tentare di giungere alla verità per quanto concerne sia il passato sia il presente, il dubbio, ancora, che pervade le ombre e i contorni del futuro. Montaigne sostiene poi che «la peste dell’uomo è il credere di sapere», e desidera discorsi che «colpiscano il dubbio là dov’è più forte», coltivando perciò il dubbio e le cose nella loro essenza. Non per caso Sainte-Beuve definì ore rotundo Montaigne «le français le plus sage qui aie jamais existé». Fra le altre cose, il nostro filosofo dirà dei commentatori dei suoi tempi che «c’è più da fare a interpretare le interpretazioni che a interpretare le cose».
Montaigne, che ha conosciuto il latino come lingua madre e nutre un’autentica adorazione per la poesia, è nemico giurato della noia e di ogni forma passiva e sterile di ozio, nonché scrittore che afferma persuasivamente di sforzarsi di comporre la sua opera con la maggior sincerità possibile: egli sottolinea con energia quest’ultima, rara qualità già nel decisivo ed incisivo incipit dei Saggi («Questo, lettore, è un libro sincero»), indicando così con efficacia il percorso che intende seguire, un progetto che al centro ha la sua stessa persona («sono io la materia del mio libro»). Del resto, in uno dei suoi più riusciti autoritratti egli prova a spiegare come vede se stesso e perché parli di sé in quel suo modo sconcertante e inconfondibile: «Se dico cose diverse di me, è perché mi guardo da angolature diverse. Tutti gli opposti si ritrovano in me in qualche piega o maniera. Discuto, insolente; casto, lussurioso; chiacchierone, taciturno; laborioso, svogliato; ingegnoso, ottuso; triste, allegro; imbroglione, sincero; dotto, ignorante e liberale, e avaro, e prodigo, tutto ciò io lo vedo in me in qualche modo, a seconda di come mi giri; e chiunque si studi attentamente trova in se stesso, e anzi nel suo stesso giudizio, questa volubilità e discordanza. Non posso dir nulla di me una volta per tutte, semplicemente e per sempre, senza confusione e mescolanza, né in una parola».
Montaigne è l’uomo di provincia esemplare, è davvero uno scrittore nato, è una coscienza fine ed irrequieta legata anche sentimentalmente alle discipline giuridiche, è un letterato che, per così dire, si consegna alla carta, è un filosofo che ritiene l’aspirazione alla saggezza una sorta di gioia permanente. Ha una visione grosso modo laica di quel cattolicesimo che stima una pratica virtuosa significativa, il miglior modo (forse) di cogliere elementi di autentica religiosità.
E’ perfettamente consapevole, comunque, della straordinaria difficoltà, per gli uomini, di riconoscere ed afferrare la verità, convinto com’è che la verità umana, per dirla con Spagnol, si trova più spesso arrotolata fra i panni sporchi che non nelle pieghe delle solenni cartapecore. Gli è inoltre ben noto che, non di rado, la conoscenza del vero è conoscenza del nero (Rigoni). Montaigne sembra persino credere che, se è opportuno tendere sempre e comunque alla verità, essa tuttavia va probabilmente rivelata solo di quando in quando. In piena sintonia con lui è un altro grande moraliste, quell’Oscar Wilde persuaso del fatto che «la verità di rado è pura, e non è mai semplice». Ancora, basta una semplice lettura dell’opera montaignana per comprendere non solo quanto gli stessero a cuore quei temi e problemi di natura morale e pedagogica che andava costantemente indagando nei suoi diletti libri, così come nel proprio non meno amato percorso esistenziale, ma anche quanto fosse forte in lui - che reputava fra l’altro, evangelicamente, l’uomo un umilissimo vaso d’argilla - il gusto per le sentenze bibliche e classiche.
La sua Weltanschauung sfocia nel concetto di salute fisica e morale, come acutamente sostenne in pagine famose Sergio Solmi, che definì la “salute” di Montaigne una qualità innata, un elementare e supremo equilibrio di vita. Quindi: tener saldo il fisico e non consentire alcun condizionamento alla moralità, per definire un modello di vita preciso e costruttivo. E non mi sembra davvero un caso che uomini tutt’altro che ingenui e sprovveduti abbiano deciso di formarsi in maniera a un tempo virtuosa e serena, severa e tollerante, virile e delicata, leggendo e rileggendo Montaigne: in verità, gli Essais sanno suscitare come ben pochi libri, nell’animo del lettore non distratto, il desiderio autentico, la volontà di autoeducarsi in maniera equilibrata.
Nei Saggi - ove l’antropologo (in senso etimologico) prevale sul cronista, che la fa invece da padrone nel Viaggio in Italia - la preoccupazione maggiore di Montaigne è, come accennato, che le sue pagine siano immediatamente percepite come un libro sincero. Aspira perciò a presentarsi senza infingimenti ed assicura che, se si fosse trovato fra popoli primitivi, si sarebbe denudato completamente: «Voglio che mi si veda qui nel mio modo d’essere semplice, naturale e consueto, senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo. Si leggeranno i miei difetti presi sul vivo e la mia immagine naturale». FILOSOFIA PSICANALISI SENSO L'ultimo tratto di percorso del Pensiero Uno è scaturito, al termine del mio percorso, come ultima risposta all'interrogativo che mi si era imposto fin dall'infanzia: - Cosa vuole dire che è ciò che è? Incalzata da questo interrogativo, durante l'adolescenza ne cercai risposta nel pensiero filosofico. Ma neppure l'ontologia hegeliana, pur nella sua visione di sintesi, mi si presentava come esaustiva, in quanto la vita, nella sua concreta oggettualità, ne era irrecuperabilmente esclusa. La vita stessa allora mi costrinse a cercare la risposta nella scienza biologica, la quale immediatamente mi svelò l'ordine evolutivo delle forme viventi come l'ordine di una dinamica evolutiva del pensiero. Mi sembrò allora giunto il momento di tornare alla filosofia, per trovare la sintesi tra spirito e materia nella ritrovata coincidenza tra pensiero e vita. Ma ancora una volta la vita mi indicò che era un'altra la strada da percorrere, quella della riflessione della vita su se stessa: la strada della psicoanalisi. Fu così che scoprii anzitutto che il metodo psicoanalitico è l'attuazione concreta della dialettica hegeliana, in quanto in esso è il soggetto umano, e non più un soggetto astratto, a prendere da sé la distanza riflessiva per conoscere se stesso; e scoprii ancora che ciò di cui il soggetto umano fa conoscenza è lo stesso metodo del conoscersi del Pensiero che, a partire dal primo manifestarsi dell'Essere, quale proiezione del Soggetto Pensante Uno fuori di sé, ha dato luogo a tutto ciò che è. A questo punto un nuovo tentativo di evidenziare la sintesi tra spirito e materia in una rilettura dialettica del pensiero filosofico fu ancora una volta reindirizzato verso una trattazione scientifica dello strutturarsi del cosmo, a partire dal primo farsi della materia quale oggettiva-zione del Pensiero nel pensato di sé che è ancora lui stesso. È qui che in me si fece l'esperienza vivente della originaria dualità dell'Uno e si compì un ulteriore salto riflessivo, grazie al quale la logica della separazione tra soggetto e oggetto si risolse nella logica unitaria dell'in- tersoggettività. Da qui in poi, grazie alla progressiva consapevolizzazione di questo più elevato livello di riflessione come realtà concreta nella quotidiana esperienza dell'intersoggettività, il Pensiero affrontò e infine risolse il problema della coincidenza tra il noumenico e il fenomenico; coincidenza nella quale esso riconobbe la sua realtà di Unico Vivente. È a questo punto che la vita mi ha risospinto infine verso la filosofia, per ripercorrere la via da essa tracciata a partire dalla crisi del Pensiero Uno, già colta da me adolescente, scaturita all'inizio del XX secolo dalla messa in questione del pensiero hegeliano e risolta all'inizio del nuovo millennio nella visione unitaria dell'Essere quale punto di arrivo del pensiero psicoanalitico. E da questa visione unitaria dell'Essere è emersa l'ultima risposta all'interrogativo essenziale della mia esistenza: - Cosa vuole dire che è ciò che è? - Vuole dire che ciò che è è l'esserci della presenza al cospetto d'altra presenza quale è infinito della vita.
In : Silvia Montefoschi, L'ultimo tratto di percorso del Pensiero Uno. Escursione nella filosofia del XX secolo, Zephyro Edizioni, Milano 2006 filosofia religione Qual è la differenza tra religione e filosofia?
Per la filosofia la trascendenza è l'uomo stesso che, pur essendo un ente finito, è capace di pensare l'infinito. La religione stabilisce una scissione tra immanenza e trascendenza, proponendo se stessa come tramite tra queste due entità altrimenti tra di loro incommensurabili
Massimo Cacciari giardino Più miti sono ora le mattine, le noci si colorano di scuro; più rotonda è la guancia delle bacche, la rosa ha lasciato la città.
L’acero sfoggia sciarpe più festose, ed il prato si veste di scarlatto - Per paura di essere fuori moda, voglio mettermi un ciondolo. Emily Dickinson GIARDINO Un commento di Federico al post precedente mi fa domandare a quale albero o pianta potrei mai rinunciare. Non mi priverei certamente del viburnum tinus (soprattutto di quello "francese": più compatto e rosato), e poi, potrei rinunciare ad avere almeno un lillà? Di rose ne ho sempre volute tante, a partire dalla mia preferita la rosa bracteata (quella cinese, per intenderci). Ma, fra tutti gli alberi e le piante che possiedo, non farei mai e poi mai a meno dei miei alberi di magnolia (da quelli sempreverdi a quelli che, un po' prematuramente, sono in fiore adesso). Le magnolie oltre ad essere piante molto belle hanno in sé qualcosa di misterioso che me le ha fatte sentire vicine da sempre (e un giorno, se avrò voglia, inserirò qui le ricerche che, in vari campi, ho fatto su questo albero). In questo momento qui in giardino non saprei a quale essere più affezionata; ne ho tirate su molte con pazienza e passione. Rustiche e resistenti al freddo amano avere i piedi nelle profonde terre delle valli. Solo il vento, e in particolare quello secco, è decisamente loro nemico. Ho capito che le magnolie amano i posti tranquilli e riparati: non sono certo piante "da battaglia". E anche in questo mi somigliano. gioco Questa pagina finale è scritta non per chi gioca, ma piuttosto per chi, tradizionalmente, non gioca: le madri, i padri, i nonni, le zie e gli zii, i fratelli e le sorelle maggiori, le maestre, i professori...
Cari amici e colleghi, se avete un atteggiamento di 'sufficienza' rispetto al gioco, se contrapponete 'per gioco' e 'sul serio', riflettete un poco, vi prego, su questo mio «elogio del gioco».
Una delle minacce più gravi che incombe sulla nostra «civiltà occidentale», anzi uno dei fenomeni che già la corrode e la guasta, è il consumismo, è la passività, è la non partecipazione. Viviamo in una società troppo ricca, ma malamente ricca, che fa tutto lei, che ti fa trovare tutto bello e pronto e impacchettato: i giochi colle loro regole prestabilite, gli spettacoli sempre e soltanto da vedere, le trasmissioni della TV preparate da altri, i viaggi organizzati, le partite di scacchi tra Karpov e Korchnoj da rifare sulla base delle tabelle che trovi sui settimanali, la musica da asportare, i film da guardare...
Viviamo in una società che non ci chiede di inventare, che non ci stimola a creare. Viviamo in una società nella quale c'è ben poco spazio per «giocare».
Recuperiamo la gioia, il gusto, di suonare (male), di dipingere (peggio), di recitare (da cani), di fare film (pessimi)... ma di suonare, dipingere, recitare, fare film noi. Ebbene, il gioco intelligente collettivo è una delle forme più semplici, e secondo me più efficaci, per recuperare la creatività nella passiva e passivizzante società dei consumi.
Ma ci sono molte altre ragioni di elogio del gioco.
La cultura di base, quella senza la quale si è un pover'uomo, è fatta anche di una serie di regole, nozioni, nomi che è molto noioso imparare sui libri o sui banchi di scuola. Parlo delle regole della ortografia, di certe abilità di calcolo mentale, dei nomi degli Stati e delle loro capitali, di fiumi e laghi e località varie. Ebbene: sciarade figurate, gioco dello 'spelling', gioco degli uomini celebri, cruciverba una lettera per uno, sono, tra l'altro, eccezionali esercizi di ortografia (di nomi italiani, e anche stranieri); «fiori, frutta e città» è un ottimo controllo di nozioni acquisite; la camiciaia, ancora gli uomini celebri, il gioco dei matti sono un modo semplice divertente per ampliare le conoscenze, e con ciò se pure indirettamente, la propria cultura; il gioco dei 'sì' e dei 'no' impone la sistematicità logica; alcune varianti del «gioco di Carlotta» sono un ottimo esercizio per fare divisioni a mente.
Domanda (molto seria, vi prego di credere, cari colleghi insegnanti): ma perché qualche volta, per controllare quello che i vostri allievi hanno imparato, non fate in classe un'ora di palestra di giochi intelligenti, invece di interrogare?
Imparare a giocare, stabilendo e rispettando regole oneste, crea l'abitudine a una convivenza civile molto di più che non lunghe prediche di 'educazione civica'.
II gioco a squadre 'socializza', insegna ad aiutare e a rispettare i più piccoli e i più deboli, a bilanciare equamente le forze. I giochi che proponiamo sono anche un mezzo, non facilmente sostituibile, per il «recupero» dello stare insieme gioioso tra grandi e piccoli, tra genitori e figli, tra maestri e allievi.
Giocare bene significa avere gusto per la precisione, amore per la lingua, capacità di esprimersi con linguaggi non verbali; significa acquisire insieme intuizione e razionalità, abitudine alla lealtà e alla collaborazione. E l'elogio del gioco potrebbe continuare. Ma mi fermo qui. Ho cominciato a scrivere questo libro per spasso, ma, via via che andavo avanti, pur continuando a divertirmi, mi rendevo conto sempre più chiaramente che stavo scrivendo un libro serio. Forse il più serio di tutti quelli che ho scritto
Lucio Lombardo Radice, Elogio del gioco, in Il giocattolo più grande, Giunti Marzocco, 1979, p. 104 GIUDICARE Ai felici è difficile il giudicare rettamente le miserie degli altri. Marco Fabio Quintiliano GIUDICARE Si vitam inspicias hominum, si denique mores, cum culpat alios, nemo sine criminis vivit.
Guardali, gli uomini, come vivono, mentre biasimano gli altri: nessuno
è senza colpa
Catone, Distici Medusa editore
Traduzione di Giancarlo Pontiggia GIUSTIZIA Vi è una sola cosa peggiore dell'ingiustizia: la giustizia senza la spada in mano. Quando il diritto non è la forza è male.
Oscar Wilde guerra e pace A LETTO CON TOLSTOJ da NonSoloProust di gabrilu
Michail Illarionovich Kutuzov (1745-1813) e Piotr Ivanonovic Bagratiòn (1765-1812)
In questi giorni vedo molti film e qualcuno probabilmente se ne è pure accorto , ma non è che abbia smesso di leggere, anzi.
Gli è che ho deciso di rileggermi da cima a fondo Guerra e Pace. La prima lettura risale ormai a tanti anni fa. Allora l'ho divorato, adesso invece sto procedendo con molta calma, centellinandomelo. Tanto, non mi insegue nessuno.
La prima volta mi ero appassionata, come del resto credo succeda più o meno a tutti, alle storie private di Natasha Rostov, Pierre Bezuchov e Andrej Bolkonskj; adesso invece mi sto gustando molto anche tutte quelle lunghe sezioni dedicate alla guerra ed alle descrizioni di battaglie, pagine che allora avevo letto un po' superficialmente, magari resistendo anche alla tentazione di saltarle perchè mi sembravano un tantino noiose. Non riuscivo a coglierne la grande bellezza.
E così, per ora vado a letto presto la sera e mi immergo nella lettura in compagnia di Kutuzov, Napoleone e Bagratiòn, l'altro terzetto protagonista del romanzo.
L'altro ieri sera, per esempio, ero sul campo di battaglia di Ulm, e assieme ad Andrea Bolkonskj ammiravo l'autorevolezza di Bagratiòn.
Ieri sera, invece, sono stata ad Austerlitz, ad assistere alla battaglia "dei tre imperatori": "Dal mezzodi del 19 nelle supreme sfere dell'esercito ebbe principio un gran movimento, tra affannoso ed eccitato, che durò fino al mattino del giorno dopo, 20 novembre, in cui fu data la così memorabile battaglia di Austerlitz."
La guerra è un meccanismo che Tolstoj descrive così.
E poi, "quando il sole [ne] fu emerso interamente e con un fulgore abbagliante spruzzò i suoi raggi sui campi e sulla nebbia, Napoleone (come se aspettasse soltanto questo per dar principio alla battaglia) si tolse un guanto scoprendo una mano bella e bianca; fece col guanto un segno ai marescialli, e diede l'ordine di dar principio all'azione"
Ad Austerlitz Napoleone gliele ha suonate di santa ragione, ai Russi. Ma diamo tempo al tempo, e vedremo che Kutuzov gliela farà pagare...
Per ora sono (nel libro) all'inizio dell'inverno, e Napoleone sta meditando la campagna di Russia, porello. Non sa quello che lo aspetta, da quelle parti.
Ho scoperto solo in questi giorni che in TV hanno recentemente trasmesso una fiction tratta da Guerra e Pace. Ne ho sbirciato qualche sequenza su YouTube e da quel poco che ho visto sono ben lieta di essermela risparmiata.
Ieri invece ho ordinato su Internet i tre DVD dell'integrale del film di Serghej Bondarchuk del 1967 (in russo con sottotitoli in italiano). L'avevo visto al cinema -- ma non integrale -- secoli fa, e l'avevo trovato molto, molto più bello di quello di King Vidor del 1956.
La cosa curiosa è però che il film americano di Vidor si trova facilmente anche nei negozi. Quello russo di Bondarchuk è fuori catalogo, lo si trova solo in rete e solo in alcuni negozi on line. Eppure, con tutto il mio rispetto e la mia ammirazione per Vidor, Audrey Hepburn, Mel Ferrer ed Henry Fonda, pur essendo il loro Guerra e Pace molto buono (e infatti ho comperato anche quello), davvero non ci sono paragoni, tra le due produzioni.
Tornando al libro: Guerra e Pace è sterminato, e con il ritmo di lettura che ho deciso di adottare non so quando riemergerò e potrò leggere altro.
Ma la cosa non mi dispiace nè poco nè punto IDEOLOGIE L'immagine di frammentazione, che in molti casi fa soffrire, invece, si vede molto spesso intorno a temi ideologici. E non potrebbe essere altrimenti, visto che le ideologie sono forme di aggregazione che tende a includere chi è d'accordo con i presupposti e a escludere chi non è d'accordo: le discussioni ideologiche non sono mai relative ai fatti, ma tendono a concentrarsi sempre intorno all'esatta applicazione delle ideologie stesse ai fatti stessi. http://blog.debiase.com/2008/02/03.html#a1631 ILLUMINISMO È Kant che, in un testo famoso, uno dei più belli mai prodotti dai pensatori del suo tempo, pubblicato nel dicembre 1784, avrebbe dato in poche pagine, sulle quali non ci stancheremo mai di tornare, la definizione più esatta di Illuminismo, e quella più vicina allo spirito dei philosophes: «L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro [...] Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'lluminismo»
in Zeen Sternhell, Contro l'illuminismo dal XVIII secolo alla guerra fredda, Baldini Castoldi, p. 70-71 INDIVIDUO INTERSOGGETTIVITA' Paolo Conte, Bella di giorno, in Psiche, 2008
Io so chi tu sei so neanche chi sei ma so che tu sei si so che tu sei tanto amata amata e desiderata
l'istinto ti sa trattare ti sa guidare ti sa con poche parole precise poche parole decise e uno sguardo d'intesa un'elegantissima scusa come una bella di giorno tu sei il mondo che hai intorno
sei bella senza ritegno nell'acqua fresca di un bagno io so che tu sei so neanche chi sei ma so che tu sei si so che tu sei tanto amata amata e desiderata e sola INDIVIDUO INTERSOGGETTIVITA' ieri sera mi sono lasciata andare al riposo conservando nella mente e nel cuore questa vostra SPLENDIDA, EMOZIONANTE associazione. l'intuito mi ha fatto soffermare anche su quel "tu sei il mondo che hai intorno".. parole che mi hanno fatto andare al libro "Il Sistema Uomo" di Silvia Montefoschi.. allora ".. tu sei il soggetto che mostra se stesso, quale presenza nel mondo, nel farci riflettere il mondo"... ".. Il soggetto si rivela pertanto nel momento riflessivo in cui il mondo riflette se stesso; il momento in cui il mondo si crea discorrendo di sé. Esso è dunque "l'ineffabile", così come lo è il parlante che non può parlare di sé se non come oggetto del suo stesso discorso. Il soggetto pertanto non è, ma diviene, sfuggendo sempre alla sua oggettivazione. Ma se del soggetto non si può parlare come di un oggetto del mondo, perché è esso stesso che parla di sé parlando del mondo, ciò vuol dire che esso, "l'ineffabile", è del mondo, quale scaturigine del discorso che non è mai finito. Sicché, se "[su] ciò di cui non si può parlare si deve tacere " (Wittgenstein) è perché si deve necessariamente stare in silenzio fintanto che in noi l'ineffabile non parli, parlando del mondo, o è forse meglio dire fintanto che il mondo non torni a parlare in noi, parlando di sé."...
Così.. "ripetere gli scritti gli uni degli altri, servono da strumenti a questo Spirito per dare al mondo opere sempre nuove. E se le anime sapessero sottoporsi a quest'azione, la loro vita non sarebbe che una continuazione delle divine scritture, le quali si esprimono fino alla fine del mondo non più con l'inchiostro e sulla carta, ma nei cuori."
J.P. de Caussade L'abbandono alla divina provvidenza
prisma INDIVIDUO INTERSOGGETTIVITA' “Se cerco di cogliere sul piano esperienziale il fenomeno intersoggettivo che io assumo come parametro, strumento e finalità del mio interagire col paziente, devo dire che esso si rivela a me come la felice condizione dell'esistere con l'altro senza bisogni.
Se però analizzo questa condizione mi accorgo che essa si fonda sul soddisfacimento di due bisogni che le sono essenziali; quello che l'altro ci sia, in quanto è grazie all'esserci dell'altro che io mi manifesto come esistente e mi riconosco, e quello che io ci sia in libertà, poiché mi riconosco solo se sono libera di dirmi e di darmi così come, di volta in volta, l'esistere dell'altro mi rivela a me stessa.
In questa felice condizione, quindi, non percepisco altri bisogni se non quelli della presenza dell'altro e della mia libertà. Non sono forse questi i requisiti dell'esistere dell'uomo come soggetto?
…
Devo procedere nell'analisi di queste caratteristiche: la relazione e la libertà.
Il primo bisogno del soggetto per essere tale è l'esistenza di un altro da sé. Molte sono le forme sotto le quali questo altro si fa presenza agli occhi dell'uomo: può essere, di volta in volta, il mondo esterno, ovvero il mondo delle cose e dei valori sociali, o il mondo interno, ovvero il mondo dei pensieri e degli affetti; può essere il Tu umano, l'altro dell'incontro, o il Tu interiore, l'altro cui l'uomo si riferisce quando è con se stesso; può essere la corporeità dell'uomo o i suoi comportamenti o i suoi modi di rapportarsi al mondo, nel momento in cui egli se ne distacca per riconoscerli e riferirli a sé; può essere infine l'uomo nella sua globalità, quando l'uomo stesso prende da se medesimo la distanza necessaria per definirsi in una identità."
in Silvia Montefoschi, L’Uno e l’Altro: interdipendenza e intersoggettività, Feltrinelli, 1977, ora in Silvia Montefoschi, L’evoluzione della coscienza, Opere, Volume Secondo – Tomo 1, Zephyro Edizioni, Milano 2008, p. 74-75. INDIVIDUO INTERSOGGETTIVITA' un frammento di intersoggetività preso dal film L'amore ha due facce di Barbra Streisand (amabile donna!): "Ti amo anche se sei bella!" INDIVIDUO PSICHE Un buon metodo per star bene, conosciuto da sempre, potrebbe essere quello di cercare di essere se stessi, senza continuamente conformarsi, o dipendere dall’approvazione degli altri individuo psiche Fu una pioggia di stelle sul mio viso. Sentii gravarmi da un infinito cielo soffice, di calda luce. Sentii la terra nelle mani e nei capelli, e fu il sapore di quella terra in bocca e di quel bacio, e fu il risucchio del mio corpo dalle profondità abissali di quel cielo, e fu un sussulto, un grido di sovraumana gioia, a sentire quel cielo entro il mio ventre, quel cielo e quella terra, la mia stessa terra fatta della mia carne e del mio sangue. Fu come un dileguarmi in quella pioggia d'infinite stelle, e ritrovarmi nella dolcezza di un abbraccio amico, umido ancora di un sapor di latte, di lacrime infantili e di lontani baci.
in Silvia Montefoschi(a 26 anni), Fu una pioggia di stelle sul mio viso (Napoli 1952), Laboratorio Ricerche Evolutive di Giampietro Gnesotto Editore, 1989 INDIVIDUO PSICHE INTERSOGGETTIVITA' lascio qui, per tutti, “Il canto d’amore del Vivente ovvero l’epifania dell’infinito” in “La glorificazione del vivente nell’intersoggettività tra l’uno e l’altro”.
Tu sei in quanto io ti penso quale pensante me e io sono in quanto tu mi pensi quale pensante te sicchè tu non cessi di pensarmi e quindi di esserci finchè io ti penso e io non cesso di pensarti e quindi di esserci finchè tu mi pensi
E se è il mio pensarti a far sì che tu ci sia quale pensante me ed è il tuo pensarmi a far sì che io ci sia quale pensante te tu non puoi cessare di pensare me perché io non posso cessare di pensare te e noi non possiamo che pensarci all’infinito
Ma se è il nostro reciproco pensarci a porci in essere nell’infinito dirci “Tu sei” che quale atto supremo dell’amore ci fa l’un l’altro garanti della vita noi stessi siamo l’infinito
L’infinito infatti si dà solamente nell’intersoggettività dove il soggetto che pensa non ha più bisogno per esserci quale pensante di conoscersi nella finitudine del suo pensato perché si riconosce nel pensare infinito dell’altro soggetto che pensa
E se noi stessi siamo l’infinito l’infinito finalmente è perché l’infinito non è se non in chi è infinitamente INDIVIDUO PSICHE INTERSOGGETTIVITA' “Solo quando la percezione dell’unione delle presenze pensanti uscirà dal chiuso di una esperienza personale, anche se fatta nella dualità della coppia dialogante, e si darà non più frammentata nei tanti incontri duali tra loro separati dallo spazio e dal tempo, si realizzerà un punto di vista ancora superiore dal quale si vede che l’essere tutto non è se non relazione. […] E solo nel perseverare nel faticoso esercizio del mantenere costantemente vigile la presenza riflessiva, noi […] operiamo ai fini che avvenga lo svelamento […] della logica dell’uno tutt’uno con l’uno che non può dire di sè se non è cio che è…. “. SILVIA MONTEFOSCHI INDIVIDUO PSICHE INTERSOGGETTIVITA' se cerco di cogliere sul piano esperienziale il fenomeno intersoggettivo … devo dire che esso si rivela a me come la felice condizione dell'esistere con l'altro senza bisogni. Se poi analizzo questa condizione mi accorgo che essa si fonda sul soddisfacimento di due bisogni che le sono essenziali; quello che l'altro ci sia, in quanto è grazie all'esserci dell'altro che io mi manifesto come esistente e mi riconosco, e quello che io ci sia in libertà, poichè mi riconosco solo se sono libera di dirmi e di darmi così come, di volta in volta, l'esistere dell'altro mi rivela a me stessa Silvia Montefoschi, L'uno e l'altro, Feltrinelli, 1977, p. 32 INDIVIDUO PSICHE INTERSOGGETTIVITA' Il canto d’amore del Vivente ovvero l’epifania dell’infinito
Tu sei in quanto io ti penso quale pensante me e io sono in quanto tu mi pensi quale pensante te sicchè tu non cessi di pensarmi e quindi di esserci finchè io ti penso e io non cesso di pensarti e quindi di esserci finchè tu mi pensi
E se è il mio pensarti a far sì che tu ci sia quale pensante me ed è il tuo pensarmi a far sì che io ci sia quale pensante te tu non puoi cessare di pensare me perché io non posso cessare di pensare te
e noi non possiamo che pensarci all’infinito
Ma se è il nostro reciproco pensarci a porci in essere nell’infinito dirci “Tu sei” che quale atto supremo dell’amore ci fa l’un l’altro garanti della vita noi stessi siamo l’infinito
L’infinito infatti si dà solamente nell’intersoggettività dove il soggetto che pensa non ha più bisogno per esserci quale pensante di conoscersi nella finitudine del suo pensato perché si riconosce nel pensare infinito dell’altro soggetto che pensa
E se noi stessi siamo l’infinito l’infinito finalmente è perché l’infinito non è se non in chi è infinitamente
in Silvia Montefoschi, La glorificazione del vivente nell’intersoggettività tra l’uno e l’altro, Golden Press, Genova infanzia giovinezza Heimat La "Heimat" è il paese della infanzia e della giovinezza. Chi l'ha smarrita resta spaesato, per quanto all'estero possa avere appreso a non barcollare come un ubriaco e ad appoggiare il piede in terra senza troppi timori
Hans Mayer, Jean Amery INNOVAZIONE TRADIZIONE Ogni innovazione è una tradizione ben riuscita
PETRINI CARLO, "Carlin Petrin", animatore della Slow Food e di Terra Madre INTERSOGGETTIVITA' L'avvocato Utterson era un uomo dall'aspetto rude, non s'illuminava mai di un sorriso; freddo, misurato e imbarazzato nel parlare, riservato nell'esprimere i propri sentimenti; era un uomo magro, lungo, polveroso e triste, eppure in un certo senso amabile. Nelle riunioni di amici, quando il vino era di suo gusto, gli traspariva negli occhi qualcosa di veramente umano; qualcosa che non trovava mai modo di risultare nelle sue parole, e che si manifestava, oltre che in quella silenziosa espressione della faccia dopo una cena, più spesso ancora e più vivamente nelle azioni della sua vita. L'avvocato era severo nei riguardi di se stesso; quando si trovava solo, beveva gin, per mortificare l'inclinazione verso i buoni vini; e, sebbene il teatro lo attirasse, non aveva mai varcato la soglia di un teatro in vent'anni. Nei riguardi del prossimo era tuttavia di una grande indulgenza; talvolta si meravigliava, quasi con invidia, della forza con la quale certi animi potevano venire spinti alla malvagità; e, in ogni occasione, era disposto più ad aiutare che a disapprovare.
«Io tendo all'eresia di Caino,» soleva dire argutamente, «lascio che mio fratello se ne vada al diavolo come meglio gli piace.»
Avendo un simile carattere, gli accadeva spesso di essere l'ultimo conoscente stimato, e di esercitare l'ultima buona influenza nella vita di uomini perduti.
Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jeckill e del signor Hyde invecchiare Eccoci qui, ancora soli. C'è un'inerzia, in tutto questo, una pesantezza, una tristezza ... Fra poco sarò vecchio. E la sarà finita, una buona volta. Gente n'è venuta tanta, in camera mia. Tutti han detto qualcosa. Mica m'han detto gran che. Se ne sono andati. Si sono fatti vecchi, miserabili e torpidi, ciascuno in un suo cantuccio di mondo. invecchiare La vecchiaia è una condizione pietosa, con i ricordi che incombono, la decadenza fisica, la pigrizia, le angosce che aumentano, e la gente che ti guarda storto, perché con i tuoi passi lenti ingombri la strada, fai allungare le file, ti muovi in modo impacciato come i bambini. Però la vecchiaia ti conferisce anche una maggiore autorità, anche se un po' ipocrita: ti riconoscono il ruolo del saggio, ma a patto che te ne stai in disparte. In realtà i vecchi li si vorrebbe eliminare: perché la nostra cultura ha paura di tutto, dell'insuccesso, della malattia, della morte. La funzione del comico è, appunto, quella di esorcizzare questo timore di vivere". invecchiare Invecchiare mi fa orrore, ma è l'unico modo che ho trovato per non morire giovane invecchiare Io sono quasi al termine del mio viaggio. La salute del corpo e della mente è buona, la capacità di lavoro non è diminuita e la fantasia è sempre quella che mi ha tenuto compagnia per tanti anni, conducendomi a progettare il futuro e a fìngermi nuovi sentieri da esplorare e percorrere. Eppure sento che il viaggio volge alla fine. Lo sento da molti segnali, il primo dei quali è propriamente quello di sentirlo. E poi dalla pienezza di me che ho finalmente raggiunto; perché ora sono certo che tutto ciò che la mia natura era capace di esprimere nel pensare e nel fare, io l'ho fatto e pensato. Posso ripetermi e forse pensare e fare meglio; meglio, ma non diverso. O forse in modo più stanco e meccanico, più trasandato e impreciso. Comunque, che queste aggiunte vi siano o no, non cambierà gran cosa. Non lascio nulla che non sia stato compiuto, nei limiti in cui ho potuto e saputo. I disegni rimasti a mezzo, i destini non realizzati fino in fondo, è perché fin lì la mia natura è riuscita a viverli; più oltre avrebbe fatto violenza a sé stessa e non è andata, ma certo ha teso la sua corda con tutte le forze che aveva a disposizione. invecchiare E viene, nella vita, il momento che l'ombra della morte ci è al fianco, e non se ne stacca. Non più insofferenze, ribellioni, paure...; la consapevolezza solo di una necessità ineluttabile. Un evento naturale la morte; come il succedersi ordinato delle quattro stagioni, come l'avvicendarsi regolare della luce e del buio. invecchiare Io sono quasi al termine del mio viaggio. La salute del corpo e della mente è buona, la capacità di lavoro non è diminuita e la fantasia è sempre quella che mi ha tenuto compagnia per tanti anni, conducendomi a progettare il futuro e a fingermi nuovi sentieri da esplorare e percorrere. Eppure sento che il viaggio volge alla fine. Lo sento da molti segnali, il primo dei quali è propriamente quello di sentirlo. E poi dalla pienezza di me che ho finalmente raggiunto; perché ora sono certo che tutto ciò che la mia natura era capace di esprimere nel pensare e nel fare, io l'ho fatto e pensato. Posso ripetermi e forse pensare e fare meglio; meglio, ma non diverso. ISTITUZIONI GIOCHI DILEMMA DEL PRIGIONIERO Finchè morte non ci separi
Harry e Sophie volevano prendere sul serio le parole che il sacerdote avrebbe pronunciato allo scambio degli anelli: «Queste due vite sono ora unite in un cerchio ininterrotto». Ciò voleva dire anteporre l'interesse della coppia a quel¬lo individuale. Se fossero riusciti a farlo, il matrimonio avrebbe funzionato me¬glio per entrambi. Ma Harry aveva visto i suoi divorziare, e troppi amici feriti e rapporti gua¬stati dal tradimento e dall'inganno, per accettarlo senza condizioni. La parte calcolatrice del suo cervello pensò che, se faceva un passo indietro rispetto a Sophie, lei avrebbe tratto vantaggio dal matrimonio, e lui no. In altri termini, rischiava di passare per fesso, se evitava romanticamente di fare il proprio in¬teresse. Sophie pensava cose simili. Ne avevano anche parlato, decidendo che non sarebbero stati egoisti nel matrimonio. Ma nessuno dei due era certo che l'al¬tro avrebbe mantenuto la sua promessa, quindi la cosa più sicura per entram¬bi era badare segretamente al proprio interesse. Ciò significava inevitabilmen¬te che il matrimonio non avrebbe funzionato al meglio. Ma di certo, era l'uni¬ca decisione razionale possibile...
Qualcosa non torna. Due persone stanno cercando di decidere razionalmente che cosa sia nel loro interesse. Se entrambi agisco¬no in un certo modo, il risultato migliore è assicurato. Ma se uno agisce in modo diverso, si assicura tutti i vantaggi a spese dell'altro. E così, per cautelarsi contro questa eventualità, tutti e due finiscono per ottenere un risultato peggiore di quello che potreb¬bero ottenere se entrambi facessero ciò che sarebbe meglio. Si tratta di una variante del celebre «dilemma del prigionie¬ro»: due prigionieri, chiusi in celle separate e incapaci di comu¬nicare, devono perorare la loro causa. Dilemmi siffatti si verifìcano quando è necessaria la collaborazione per ottenere un miglio¬re risultato, ma nessuna delle due parti può garantire che l'altro stia al gioco. Lo stesso dilemma può sorgere tra persone che divi¬dono lo stesso letto. Il fatto è che si tradisce segretamente la fi¬ducia dei partner, spesso senza farsi scoprire per anni. Il dilemma rivela i limiti della ricerca razionale del proprio in¬teresse. Se tutti decidessimo individualmente di fare ciò che con¬viene a ciascuno di noi, finiremmo peggio di quanto accadrebbe se scegliessimo di cooperare. Ma per cooperare efficacemente, pur badando al nostro interesse, dobbiamo fidarci gli uni degli altri. E la fiducia non si basa su argomentazioni razionali. Ecco perché il dilemma di Harry e Sophie è così toccante. La loro capacità di fidarsi è stata erosa dall'esperienza del tradimento e del divorzio. Senza questa fiducia, il rapporto ha maggiori proba¬bilità di essere poco soddisfacente o addirittura di fallire. Ma chi può biasimarli per il loro scetticismo? Non è perfettamente razio¬nale? Dopotutto, si fonda esclusivamente su una corretta valutazione di come ci si comporta nel matrimonio moderno. Questa storia contiene forse una morale più profonda: per ot¬tenere il massimo dalla vita è necessaria la fiducia, anche se ciò comporta l'assunzione non razionale di qualche rischio. È vero che, se ci fidiamo gli uni degli altri, ci esponiamo allo sfrutta¬mento, ma diversamente ci precludiamo la possibilità di avere il meglio dalla vita. La strategia razionale, sicura, di Harry e Sophie li protegge dal peggio del matrimonio, ma allo stesso modo li al¬lontana dal meglio. ISTITUZIONI GIOCHI DILEMMA DEL PRIGIONIERO "A volte sembra che la razionalità impedisca agli individui di ottenere risultati ottimali, soprattutto nei casi in cui la cooperazione sarebbe inequivocabilmente la scelta migliore per tutte le parti interessate. Su questa considerazione si fonda il noto argomento a favore delle istituzioni quali mezzi per controllare e indirizzare il comportamento egoistico. In effetti, coloro che per primi proposero il contratto sociale quale fondamento legittimo dell'obbligo politico, descrissero gli individui come perennemente coinvolti in un dilemma del prigioniero, e incapaci di arrivare a un accordo cooperativo a meno di non esservi costretti. Nel modello di Hobbes, gli individui si accordano per consegnare il proprio potere di resistenza al sovrano, che imporrà loro di cooperare. Riconsiderando gli esempi precedenti, possiamo osservare che l'istituzione in grado di garantire il risultato ottimale non deve essere necessariamente lo stato: potrebbe essere un sistema legale, un trattato internazionale, un codice d'onore, o anche un insieme di principi morali condivisi. Ciò che importa è che una o entrambe le parti possono impegnarsi in modo credibile a perseguire un determinato corso d'azione, laddove la credibilità è garantita dalla presenza di un’istituzione …"
in Cristina Bicchieri, Azione collettiva e razionalità sociale, Feltrinelli, p. 194 ITALIANI … il più celebre fra questi testi, e il più ricco e articolato, rimane sempre I Libri della Famiglia, opera di Leon Battista Alberti, vissuto fra il 1404 e il 1472 a Firenze. L'Alberti vi appare come il teorico della «masserizia», l'arte di gestire la famiglia mercantile, nella quale concorrono, accanto e insieme alla rete dei rapporti primari e affettivi, gli interessi dell'azienda, strettamente intrecciati e confusi con quelli, e ciò nel quadro di vita della comunità cittadina. In tale contesto la famiglia appare, come osservano Ruggiero Romano e Alberto Tenenti, «come una cellula chiusa, un microrganismo, un fattore aristocratico, la cui azione è fine a se stessa. Non si scorge mai, assolutamente mai, nell'opera di Leon Battista, un "grappolo" di famiglie, che giungano a formare una civitas, una società. Per l'appunto, la famiglia albertiana è un ambito racchiuso in sé; è essa stessa una società, ma chiusa, isolata, impermeabile» (R. Romano e A. Tenenti, in Leon Battista Alberti, 1972, pag. XXV). «Da natura l'amore, la pietà a me fa più cara la famiglia che cosa alcuna», dice l'Alberti per bocca di Giannozzo, il personaggio del suo dialogo famigliare che compare come il più anziano ed esperto. «E per reggere la famiglia si cerca la roba; e per conservare la famiglia e la roba si vogliono amici, co' quali ti consigli, i quali t'aiutino sostenere e fuggire avverse fortune; e per avere con gli amici frutto della roba, della famiglia e della amicizia, si convene ottenere qualche onestanza e onorata autorità» {Ibidem, pag. 226). La gerarchia di valori è qui ben precisa: al vertice la famiglia, come valore assoluto di riferimento, seguita dall'azienda, e poi dagli amici e clienti. La città e la politica vengono in considerazione solo in quanto possano giovare a questo insieme gerarchicamente ordinato di valori sociali. Questo appare chiaramente dal dialogo fra Giannozzo e Lionardo: «Leonardo. Chiamate voi forse, come questi nostri cittadini, onore trovarsi negli uffici e nello stato? Giannozzo. Niuna cosa manco, Lionardo mio, niuna cosa manco figliuoli miei. Niuna cosa a me pare meno degna di reputarsela ad onore che ritrovarsi in questi stati (impegnati nello stato)... Ogni altra vita a me sempre piacque più troppo di quella delli, così diremo, statuali». La vita politica (statuale) è definita molestissima e piena di sospetti, di fatiche e di servitù. «Che vedi tu da questi i quali si travagliano agli stati (che si occupano della cosa pubblica) essere differenza a pubblici servi?» afferm Giannozzo e aggiunge: «Eccoti sedere in ufficio. Che n'hai tu d'utile se non uno solo: potere rubare e sforzare (fare violenza) con qualche licenza?» {Ibi dem, pagg. 218-219). Il solo motivo quindi per partecipare alla gestione dell; comunità è quello di poter arrivare, con la frode o la violenza, a ricavarne van taggi per la gestione dell'azienda- famiglia, sostituto esclusivo della società. Da cui una vera e propria invettiva contro coloro che sentono il dovere civico di partecipare al governo della cosa pubblica: «Pazzi che vi sponete ad ogni pericolo, porgetevi alla morte... E chiamate onore essere nel numero de rapinatori, chiamate onore convenire e pascere e servire agli uomini servili! ... E che piacere d'animo mai può avere costui, se già e' non sia di natura feroce e bestiale, il quale al continuo abbia a prestare orecchie a doglianze, lamenti, pianti di pupilli, di vedove e di uomini calamitosi e miseri?» {Ibidem, pag. 220). E conclude: «E si vuole (conviene) vivere a sé, non al comune (per la società), essere soliicito per gli amici, vero, ove tu non interlasci (trascuri) e' fatti tuoi, e ove a te non risulti danno troppo grande» {Ibidem, pag. 221). Alla radice di questa filosofìa sta una concezione rigidamente utilitaristica: «Tanto siamo quasi da natura tutti proclivi e inclinati all'utile, che per trarre ad altrui (estorcere agli altri) e conservare a noi, dotti (istruiti) credo dalla natura, sappiamo e simulare benevolenza, e fuggire amicizia quanto ci attaglia (conviene)» {Ibidem, pag. 345). L'istituto nel quale si accentra ogni valore, che sia conseguente ad una tale visione del mondo, è la famiglia allargata, con l'appendice puramente strumentale, e non affettivamente connotata, delle amicizie utili. La società come tale, e i doveri civili, sono in questa prospettiva radicalmente squalificati. Tutto questo costituisce un insieme di modelli culturali di comportamento incompatibile con una società, che non sia una società di fazioni, e comporta l'esclusione di ogni senso di corresponsabilizzazione sociale. Là dove l'etica calvinista, metodista, puritana, stabilisce attraverso la dottrina della grazia e della predestinazione, uno stretto legame fra la salvezza eterna, il successo personale negli affari e le esigenze di salvaguardia dell'ordine sociale, quella alber-tiana, tipica come abbiamo visto di un'intera classe sociale, che è quella egemone, è radicalmente particolaristica e sostanzialmente anarchica. Mentre nella prima verranno a maturazione quelle condizioni che caratterizzeranno la società definita col termine di democratico-borghese, culla delle libertà politiche civili e dei doveri di solidarietà collettiva, e aperta ai processi di mobilità sociale, nella società italiana post-comunale si porranno le premesse per una società chiusa nei particolarismi, dominata da una struttura gerarchica e rigida di potere di classe, sede di una forma di dominio esercitato da poteri dinastici, italiani e stranieri, senza traccia di dialettica democratica, all'ombra della contrioriforma e della morale gesuitica" in Carlo Tullio - Altan, La nostra Italia, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall?unità al 2000, Egea - Università Bocconi Editore, 2000, p. 19-21 JAZZ MINIMALISM The Necks: A Review
by Rob Nugent
8 pm, 19 February 2008. Venue: The Street Theatre, ANU.
The three members of The Necks walk silently onto stage and focus on their instruments. There is a theatrical hush while they prepare themselves. Three notes on the double bass play repetitively for a minute before a single note on the grand piano builds slowly into a fluttering trill. You don’t notice the brush on the snare and the pulse of the kick drum at first. The journey begins. We are heading into badlands and strange spaces. This could be the beginning of a murder plot or a crime of passion. There are no slamming doors. They creak open, as things creep up on you. Thoughts slowly resolve themselves, or are overwhelmed and consumed.
I found the music of The Necks created spaces for all sorts of imaginings. You can superimpose the events of your life onto it, or simply be carried off into cinematic landscapes. Sometimes you are there with it, other times it leaves you behind and you have to catch up. Wonderful stuff.
I tre membri dei colli camminano silenziosamente sulla fase e mettono a fuoco sui loro strumenti. Ci è un silenzio teatrale mentre si preparano. Tre note sul gioco della doppia spigola ripetutamente per un minuto prima di singola nota sulle configurazioni del grande piano lentamente in un trill d'ondeggiamento. Non notate inizialmente la spazzola sulla trappola e l'impulso del tamburo di scossa. Il viaggio comincia. Capo nei calanchi e negli spazi sconosciuti. Ciò ha potuto essere l'inizio di un diagramma di omicidio o di un crimine di passione. Non ci sono portelli sbattenti. Creak aperto, poichè le cose salgono su voi. I pensieri si risolvono lentamente, o sono sopraffatti e consumati.
Ho trovato la musica degli spazi generati colli per tutte le specie dei imaginings. Potete sovrapporre gli eventi della vostra vita su esso, o semplicemente be siete trasportati fuori nei paesaggi cinematografici. A volte siete là con esso, altre volte che lo lascia dietro e dovete prendere. Roba meraviglioso. JAZZ MINIMALISM “For those unfamiliar with The Necks… their approach is to take a musical idea, sometimes a seemingly inconsequential musical idea, with a short life expectancy, and develop it, slowly transform it, roll it around for approaching the hour mark, riveting your attention throughout”
The Wire - David Stubbs
Chris Abraham (piano), Tony Buck (drums), and Lloyd Swanton(bass) conjure a chemistry together that defies description in orthodox terms.
These three musicians are among the most respected and in-demand in Australia, working in every field from pop to avant-garde. Over 200 albums feature their presence individually or together, but the music of The Necks stands apart from everything else they have done.
Featuring lengthy pieces which slowly unravel in the most intoxicating fashion, frequently underpinned by an insistent deep groove, The Necks stand up to listening time and time again.
The deceptive simplicity of their music throws forth new charms on each hearing. Not entirely avant-garde, nor minimalist, nor ambient, nor jazz, the music of The Necks is possibly unique in the world today.
“Australia's the Necks defy conventions about making and listening to music. Each performance … is an hour of unbroken improvisation, each one different to the last. So if you are a Necks fan, you cannot be sure you will hear your favourite Necks moment again. After 20 years, there are no greatest hits, only what is next.” The Guardian – John L Walters JAZZ MINIMALISM “The Necks communicate a fierce energy and warmth at the same time. Their music is a thrilling, emotional journey into the unknown.” The Guardian
”Absolutely riveting…how three musicians can sound like eighteen is a mystery.” Financial Times
“The Necks turned the auditorium into a majestic, vibrating cathedral of sound” The Age
Fresh from a hugely successful European tour, including two sell-out shows in London, cult minimalist jazz trio The Necks (Chris Abrahams piano, Lloyd Swanton bass, Tony Buck drums) return to home soil for an eagerly awaited Australian tour. Fans worldwide of this extraordinary band who have been lucky enough to catch them live will know that no two Necks concerts are the same. For over two decades now, The Necks have been stepping on stage with absolutely nothing pre-arranged, yet have managed to conjure intoxicating sonic journeys, frequently underpinned by an insistent deep groove, that often last for up to an hour and leave audiences hypnotized and transformed. “One of the joys for me, after twenty years of making music with this group, is that we’re still completely unable to predict where our pieces will go. I think that’s one of the things that our audience loves about The Necks,” says bassist Lloyd Swanton. The Necks have produced 14 critically acclaimed, highly successful albums that have sold in the thousands. They have won two ARIA awards for Best Jazz Album – ‘Chemist’ in 2007 and ‘Drive By’ in 2004 which has also recently been included in The Guardian’s ‘1000 Albums To Hear Before You Die’. Their latest gem, ‘Townsville’ released in Sept 2007 has also been attracting excellent reviews worldwide including The Wire’s (UK) Top Ten Jazz/Improv Releases of 2007.
“Teetering perpetually on the edge of creation, Townsville is a sort of rhapsodic minimalism, as magical in its own way as a ping-pong ball pirouetting on a jet of air” 4 stars - The Independent (UK)
"La Colli comunicare una feroce energia e di calore allo stesso tempo. Their music is a thrilling, emotional journey into the unknown.” The Guardian La loro musica è un entusiasmante, emozionante viaggio verso l'ignoto. "The Guardian
”Absolutely riveting…how three musicians can sound like eighteen is a mystery.” Financial Times "Assolutamente rivettatura tre musicisti… come può sembrare diciotto è un mistero." Financial Times
“The Necks turned the auditorium into a majestic, vibrating cathedral of sound” The Age "Il collo l'auditorium trasformato in un maestoso, cattedrale di suono vibrante" The Age
Fresh from a hugely successful European tour, including two sell-out shows in London, cult minimalist jazz trio The Necks (Chris Abrahams piano, Lloyd Swanton bass, Tony Buck drums) return to home soil for an eagerly awaited Australian tour. Fresco da un tour europeo di grande successo, tra cui due sell-out mostra a Londra, culto minimalista Il trio jazz Colli (Chris Abrahams pianoforte, Lloyd Swanton basso, Tony Buck batteria) ritorno a casa del suolo per un attesissimo tour australiano. Fans worldwide of this extraordinary band who have been lucky enough to catch them live will know that no two Necks concerts are the same. Fan di tutto il mondo di questa straordinaria band che hanno avuto la fortuna di vivere cattura loro sapranno che non esistono due concerti al collo sono gli stessi. For over two decades now, The Necks have been stepping on stage with absolutely nothing pre-arranged, yet have managed to conjure intoxicating sonic journeys, frequently underpinned by an insistent deep groove, that often last for up to an hour and leave audiences hypnotized and transformed. Per oltre due decenni ormai, il collo è stato il rafforzamento sul palco con assolutamente nulla prefissata, ma sono riusciti a evocare inebriante sonic viaggi, spesso sostenuta da un insistente groove profondo, che spesso durano fino a un'ora e lasciare ipnotizzato il pubblico e Trasformato. “One of the joys for me, after twenty years of making music with this group, is that we’re still completely unable to predict where our pieces will go. "Una delle gioie per me, dopo vent'anni di fare musica con questo gruppo, è che non siamo ancora completamente in grado di prevedere dove i nostri pezzi andrà. I think that’s one of the things that our audience loves about The Necks,” says bassist Lloyd Swanton. Penso che una delle cose che il nostro pubblico ama su The Colli ", dice il bassista Lloyd Swanton. The Necks have produced 14 critically acclaimed, highly successful albums that have sold in the thousands. La Colli hanno prodotto 14 premiati dalla critica, album di grande successo che hanno venduto in migliaia. They have won two ARIA awards for Best Jazz Album – ‘Chemist’ in 2007 and ‘Drive By’ in 2004 which has also recently been included in The Guardian’s ‘1000 Albums To Hear Before You Die’. Hanno vinto due premi per il Miglior ARIA Jazz Album - 'Chimico' nel 2007 e 'Drive In' nel 2004 che è anche stato recentemente incluso nel The Guardian's'1000 Album To Hear Before You Die '. Their latest gem, ‘Townsville’ released in Sept 2007 has also been attracting excellent reviews worldwide including The Wire’s (UK) Top Ten Jazz/Improv Releases of 2007. La loro ultima gemma, 'Townsville' uscito nel settembre 2007 è stata inoltre attirare eccellenti recensioni in tutto il mondo tra cui The Wire (UK) Top Ten Jazz / Improv Comunicati del 2007.
“Teetering perpetually on the edge of creation, Townsville is a sort of rhapsodic minimalism, as magical in its own way as a ping-pong ball pirouetting on a jet of air” 4 stars - The Independent (UK) "Teetering perennemente sul bordo della creazione, Townsville è una sorta di minimalismo rhapsodic, come magica e per la propria strada, come una pallina da ping-pong pirouetting su un getto d'aria" 4 stelle - The Independent (UK) JAZZ MINIMALISM I heard this album driving home one day around about midday. The drive was probably about 10 minutes long. Instead the drive took an hour which roughly the length of this monstrous, free jazz masterpiece. I was completely encapsulated and unable to move from my car. Any song, let alone album that stops me from leaving my shit bomb (but much loved) of a car is worth my praise. By far this is my favourite album from 2007.
Briefly for those that don't know The Necks they are a free-form experimental jazz group from Australia. The group consists of Chris Abrahams on piano, Tony Buck on drums and Lloyd Swanton on bass. The three are concerned with exploring improvisation and the removal of ones self from the music making process. Chris Abrahams said on ABC radio this year that ‘the point is to avoid those conscious, ego driven decisions’ and any performance that has a feeling of premeditation is regarded as substandard to ones that don’t. This is music without cognisant suggestion though the only way to explain it is to do just that. I’ve heard many descriptions such as it’s like seeing a world in a grain of sand, the shrilling of birds or a cluster of mountain goats from the Himalayas. The fact that the three avoid applying these worldly connotations to their music actually allows the listener to find these analogies more easily. Without egotistical input the movement of the music follows a natural progression that is mediated by human imprecision.
The album consists of one hour long piece recorded just outside of the Australian town of Townsville. The band records all their live performances but they believed that this one had an exceptional form and progression. Chris also mentioned that fact that when they arrived the concert standard Yamaha that they asked for was not delivered. Instead he used a much older piano and thankfully this meant a unique performance. In some sections he precedes to give the piano a great workout, pushing the keys to their limits to create a distortion that isn’t typical of a piano’s range.
Ho sentito questo album guida casa uno giorni intorno a mezzogiorno. The drive was probably about 10 minutes long. L'unità è stata probabilmente di circa 10 minuti. Instead the drive took an hour which roughly the length of this monstrous, free jazz masterpiece. Invece l'unità che ha preso un'ora circa la lunghezza di questo mostruoso, free jazz capolavoro. I was completely encapsulated and unable to move from my car. Ero completamente incapsulato e in grado di passare da mia auto. Any song, let alone album that stops me from leaving my shit bomb (but much loved) of a car is worth my praise. Ogni canzone, per non parlare di album che si ferma da me di lasciare il mio merda bomba (ma molto amato) di un auto che vale la mia lode. By far this is my favourite album from 2007. Di gran lunga questo è il mio album preferito dal 2007.
Briefly for those that don't know The Necks they are a free-form experimental jazz group from Australia. Brevemente per quelli che non conoscono il collo sono una forma sperimentale free-jazz gruppo da Australia. The group consists of Chris Abrahams on piano, Tony Buck on drums and Lloyd Swanton on bass. Il gruppo è composto da Chris Abrahams sul pianoforte, Tony Buck alla batteria e al basso, Lloyd Swanton. The three are concerned with exploring improvisation and the removal of ones self from the music making process. I tre sono interessati ad esplorare con l'improvvisazione e la rimozione di quelli autonomi dalla musica processo decisionale. Chris Abrahams said on ABC radio this year that ‘the point is to avoid those conscious, ego driven decisions’ and any performance that has a feeling of premeditation is regarded as substandard to ones that don’t. Chris ha detto Abrahams ABC radio su questo anno che 'il punto è di evitare quelle consapevole, ho guidato le decisioni' e tutte le prestazioni che ha un senso di premeditazione è considerato di sotto di quelli che non lo fanno. This is music without cognisant suggestion though the only way to explain it is to do just that. Questa è la musica senza cognisant suggerimento anche se l'unico modo di spiegare che è proprio a questo scopo. I’ve heard many descriptions such as it’s like seeing a world in a grain of sand, the shrilling of birds or a cluster of mountain goats from the Himalayas. Ho sentito molte descrizioni di come è come vedere un mondo in un granello di sabbia, il shrilling di uccelli o di un cluster di capre di montagna da Himalaya. The fact that the three avoid applying these worldly connotations to their music actually allows the listener to find these analogies more easily. Il fatto che i tre evitare l'applicazione di tali connotazioni mondana alla loro musica permette all'ascoltatore di trovare più facilmente queste analogie. Without egotistical input the movement of the music follows a natural progression that is mediated by human imprecision. Egoistici, senza immettere il movimento della musica segue una naturale progressione, che è mediata da imprecisione umana.
The album consists of one hour long piece recorded just outside of the Australian town of Townsville. L'album consiste di un'ora lungo pezzo registrato appena fuori della città di Townsville in Australia. The band records all their live performances but they believed that this one had an exceptional form and progression. La band registra tutti i loro spettacoli dal vivo, ma in cui si credeva che questa ha avuto un eccezionale forma e la progressione. Chris also mentioned that fact that when they arrived the concert standard Yamaha that they asked for was not delivered. Chris anche menzionato il fatto che, quando sono arrivati il concerto standard Yamaha, che hanno chiesto di non è stato recapitato. Instead he used a much older piano and thankfully this meant a unique performance. Invece ha usato un piano molto più antica e fortunatamente ciò significava una singolare performance. In some sections he precedes to give the piano a great workout, pushing the keys to their limits to create a distortion that isn’t typical of a piano’s range. In alcune sezioni egli precede il pianoforte di dare un grande allenamento, premendo i tasti per i loro limiti a creare una distorsione che non è tipico di un pianoforte la gamma. JAZZ MINIMALISM The Necks - Review
Riverside Theatre, 9 February 2008
The Necks‘ live performances have been described as minimalist, revolutionary, experimental, post-jazz, ambient, even mystical experiences. The nature of improvised music is that you never quite know what you’re going to hear - and the same goes for the performers.
The Necks
Sometimes they discuss what they might do, but after 21 years together, they don’t rehearse anymore. Tony Buck (drums), Lloyd Swanton (bass) and Chris Abrahams (piano) have an ESP-like communication on stage which gives every performance the sort of tension and excitement you sometimes miss from more traditional bands.
Between them, they have over 200 recording credits, and have played with groups from around the world. But as The Necks they have developed a cult following.
Tony Buck says they just started out playing the sort of music they wanted to hear - rhythmic, experimental, evolving soundscapes, pieces that continue for forty or fifty minutes at a stretch. “We didn’t know what people would think of it, but they seemed to like it.” 13 albums later, the group spends equal time in Europe and Australia, and they are currently embarked on a national tour.
A typical gig begins with the three performers motionless at their instruments, eyes closed. One starts to play, perhaps some pattern from the piano, a low hum from the bass, the stroke of a drum skin. Unplanned, but entirely under control, the piece grows as they introduce changes, a new beat, bass chords, textures. The crowd sits, often with eyes closed, exploring the worlds the band throws out to them.
Every performance is unique. It is a temporary aural installation. You sit down, experience it, and it is gone. Unlike a band playing pre-rehearsed numbers, there is always the tension of creativity: the question of whether new ideas will work.
It is cerebral, thinking music, where you find yourself at the end of a set, in silence and often awe, wondering where the time has gone. Sometimes it’s good. Sometimes it’s bliss. Always it’s vital, inspiring, a privilege to experience. (Lachlan Jobbins).
La Colli 'live performance sono state descritte come minimalista, rivoluzionario, sperimentale, post-jazz, ambient, anche esperienze mistiche. The nature of improvised music is that you never quite know what you’re going to hear - and the same goes for the performers. La natura della musica improvvisata è che lei non è mai sapere che cosa si sta andando ad ascoltare - e lo stesso vale per gli artisti.
La Colli
Sometimes they discuss what they might do, but after 21 years together, they don’t rehearse anymore. Talvolta, discutono di quello che potrebbe fare, ma dopo 21 anni insieme, che non provano più. Tony Buck (drums), Lloyd Swanton (bass) and Chris Abrahams (piano) have an ESP-like communication on stage which gives every performance the sort of tension and excitement you sometimes miss from more traditional bands. Tony Buck (batteria), Lloyd Swanton (basso) e Chris Abrahams (pianoforte) hanno un ESP-come sul palcoscenico di comunicazione che dà la performance ogni sorta di tensione e di emozioni che vengono talvolta da perdere più tradizionali bande.
Between them, they have over 200 recording credits, and have played with groups from around the world. Tra di loro, sono più di 200 crediti registrazione, e hanno suonato con gruppi provenienti da tutto il mondo. But as The Necks they have developed a cult following. Il collo, ma come essi hanno sviluppato un seguito di culto.
Tony Buck says they just started out playing the sort of music they wanted to hear - rhythmic, experimental, evolving soundscapes, pieces that continue for forty or fifty minutes at a stretch. Tony Buck dice che hanno appena iniziato a giocare il tipo di musica che volevano sentire - ritmica, experimental, soundscapes evoluzione, che continuano pezzi per quaranta o cinquanta minuti a un tratto. “We didn’t know what people would think of it, but they seemed to like it.” 13 albums later, the group spends equal time in Europe and Australia, and they are currently embarked on a national tour. «Noi non sapevamo quello che la gente potrebbe pensare di esso, ma sembrava like it." 13 album più tardi, il gruppo spende tempo pari in Europa e Australia, e sono attualmente impegnati in un tour nazionale.
A typical gig begins with the three performers motionless at their instruments, eyes closed. Un tipico concerto comincia con i tre esecutori di strumenti a loro immobile, gli occhi chiusi. One starts to play, perhaps some pattern from the piano, a low hum from the bass, the stroke of a drum skin. Uno inizia a giocare, forse qualche modello da pianoforte, un basso ronzio dal basso, la corsa di un tamburo di pelle. Unplanned, but entirely under control, the piece grows as they introduce changes, a new beat, bass chords, textures. Impreviste, ma del tutto sotto controllo, il pezzo cresce come introdurre cambiamenti, di una nuova battuta, basse corde, texture. The crowd sits, often with eyes closed, exploring the worlds the band throws out to them. La folla si siede, spesso con gli occhi chiusi, esplorare il mondo della band butta fuori di essi.
Every performance is unique. Ogni performance è unica. It is a temporary aural installation. Si tratta di una installazione temporanea fonetica. You sit down, experience it, and it is gone. Lei siede, l'esperienza, e è andato. Unlike a band playing pre-rehearsed numbers, there is always the tension of creativity: the question of whether new ideas will work. A differenza di un gruppo di pre-provato a giocare i numeri, c'è sempre la tensione della creatività: la questione di sapere se le nuove idee di lavoro.
It is cerebral, thinking music, where you find yourself at the end of a set, in silence and often awe, wondering where the time has gone. È cerebrale, il pensiero musicale, dove vi trovate alla fine di un set, spesso nel silenzio e stupore, chiedendomi dove il tempo è passato. Sometimes it’s good. A volte è buona. Sometimes it’s bliss. A volte è Bliss. Always it’s vital, inspiring, a privilege to experience. Sempre è vitale, ispirato, un privilegio di vivere. (Lachlan Jobbins). (Jobbins Lachlan). la letteratura “serve” Le due vite
C’è un momento in cui possiamo affermare con assoluta certezza che la letteratura “serve”? Credo di sì, e questo non soltanto nel preciso istante in cui qualcuno ne fruisce leggendola. La letteratura ci viene in aiuto anche quando un brano o dei versi sono più utili di un ragionamento complesso o di un’astrazione teorica per comprendere - e quindi per meglio affrontare - la vita reale. A me è capitato spesso che l’altra vita contamini di sé questa vita, e la sensazione che ha lasciato è sempre stata positiva, come i risultati.
da akatalēpsía, 16 ottobre 2006 laicità Il senso del laico Questo termine non è un sinonimo di ateo o miscredente ma implica rispetto per gli altri e libertà da ogni idolatria
di Claudio Magris
Quando, all'università, con alcuni amici studiavamo tedesco, lingua allora non molto diffusa, e alcuni compagni che l'ignoravano ci chiedevano di insegnar loro qualche dolce parolina romantica con cui attaccar bottone alle ragazze tedesche che venivano in Italia, noi suggerivamo loro un paio di termini tutt'altro che galanti e piuttosto irriferibili, con le immaginabili conseguenze sui loro approcci. Questa goliardata, stupidotta come tutte le goliardate, conteneva in sé il dramma della Torre di Babele: quando gli uomini parlano senza capirsi e credono di dire una cosa usando una parola che ne indica una opposta, nascono equivoci, talora drammatici sino alla violenza. Nel penoso autogol in cui si è risolta la gazzarra contro l'invito del Papa all'università di Roma, l'elemento più pacchiano è stato, per l'ennesima volta, l'uso scorretto, distorto e capovolto del termine «laico», che può giustificare un ennesimo, nel mio caso ripetitivo, tentativo di chiarirne il significato.
Laico non vuol dire affatto, come ignorantemente si ripete, l'opposto di credente (o di cattolico) e non indica, di per sé, né un credente né un ateo né un agnostico. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall'adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato.
La laicità non si identifica con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l'attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista) secondo principi logici che non possono essere condizionati, nella coerenza del loro procedere, da nessuna fede, da nessun pathos del cuore, perché in tal caso si cade in un pasticcio, sempre oscurantista. La cultura— anche cattolica — se è tale è sempre laica, così come la logica — di San Tommaso o di un pensatore ateo — non può non affidarsi a criteri di razionalità e la dimostrazione di un teorema, anche se fatta da un Santo della Chiesa, deve obbedire alle leggi della matematica e non al catechismo.
Una visione religiosa può muovere l'animo a creare una società più giusta, ma il laico sa che essa non può certo tradursi immediatamente in articoli di legge, come vogliono gli aberranti fondamentalisti di ogni specie. Laico è chi conosce il rapporto ma soprattutto la differenza tra il quinto comandamento, che ingiunge di non ammazzare, e l'articolo del codice penale che punisce l'omicidio. Laico — lo diceva Norberto Bobbio, forse il più grande dei laici italiani — è chi si appassiona ai propri «valori caldi» (amore, amicizia, poesia, fede, generoso progetto politico) ma difende i «valori freddi» (la legge, la democrazia, le regole del gioco politico) che soli permettono a tutti di coltivare i propri valori caldi. Un altro grande laico è stato Arturo Carlo Jemolo, maestro di diritto e libertà, cattolico fervente e religiosissimo, difensore strenuo della distinzione fra Stato e Chiesa e duro avversario dell'inaccettabile finanziamento pubblico alla scuola privata — cattolica, ebraica, islamica o domani magari razzista, se alcuni genitori pretenderanno di educare i loro figli in tale credo delirante.
Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze, capacità di credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili; di non confondere il pensiero e l'autentico sentimento con la convinzione fanatica e con le viscerali reazioni emotive; di ridere e sorridere anche di ciò che si ama e si continua ad amare; di essere liberi dall'idolatria e dalla dissacrazione, entrambe servili e coatte. Il fondamentalismo intollerante può essere clericale (come lo è stato tante volte, anche con feroce violenza, nei secoli e continua talora, anche se più blandamente, ad esserlo) o faziosamente laicista, altrettanto antilaico.
I bacchettoni che si scandalizzano dei nudisti sono altrettanto poco laici quanto quei nudisti che, anziché spogliarsi legittimamente per il piacere di prendere il sole, lo fanno con l'enfatica presunzione di battersi contro la repressione, di sentirsi piccoli Galilei davanti all'Inquisizione, mai contenti finché qualche tonto prete non cominci a blaterare contro di loro.
Un laico avrebbe diritto di diffidare formalmente la cagnara svoltasi alla Sapienza dal fregiarsi dell'appellativo «laico». È lecito a ciascuno criticare il senato accademico, dire che poteva fare anche scelte migliori: invitare ad esempio il Dalai Lama o Jamaica Kincaid, la grande scrittrice nera di Antigua, ma è al senato, eletto secondo le regole accademiche, che spettava decidere; si possono criticare le sue scelte, come io criticavo le scelte inqualificabili del governo Berlusconi, ma senza pretendere di impedirgliele, visto che purtroppo era stato eletto secondo le regole della democrazia.
Si è detto, in un dibattito televisivo, che il Papa non doveva parlare in quanto la Chiesa si affida a un'altra procedura di percorso e di ricerca rispetto a quella della ricerca scientifica, di cui l'università è tempio. Ma non si trattava di istituire una cattedra di Paleontologia cattolica, ovviamente una scemenza perché la paleontologia non è né atea né cattolica o luterana, bensì di ascoltare un discorso, il quale — a seconda del suo livello intellettuale e culturale, che non si poteva giudicare prima di averlo letto o sentito — poteva arricchire di poco, di molto, di moltissimo o di nulla (come tanti discorsi tenuti all'inaugurazione di anni accademici) l'uditorio. Del resto, se si fosse invitato invece il Dalai Lama — contro il quale giustamente nessuno ha né avrebbe sollevato obiezioni, che è giustamente visto con simpatia e stima per le sue opere, alcune delle quali ho letto con grande profitto — anch'egli avrebbe tenuto un discorso ispirato a una logica diversa da quella della ricerca scientifica occidentale.
Ma anche a questo proposito il laico sente sorgere qualche dubbio. Così come il Vangelo non è il solo testo religioso dell'umanità, ma ci sono pure il Corano, il Dhammapada buddhista e la Bhagavadgita induista, anche la scienza ha metodologie diverse. C'è la fisica e c'è la letteratura, che è pure oggetto di scienza — Literaturwissenschaft, scienza della letteratura, dicono i tedeschi — e la cui indagine si affida ad altri metodi, non necessariamente meno rigorosi ma diversi; la razionalità che presiede all'interpretazione di una poesia di Leopardi è diversa da quella che regola la dimostrazione di un teorema matematico o l'analisi di un periodo o di un fenomeno storico. E all'università si studiano appunto fisica, letteratura, storia e così via. Anche alcuni grandi filosofi hanno insegnato all'università, proponendo la loro concezione filosofica pure a studenti di altre convinzioni; non per questo è stata loro tolta la parola.
Non è il cosa, è il come che fa la musica e anche la libertà e razionalità dell'insegnamento. Ognuno di noi, volente o nolente, anche e soprattutto quando insegna, propone una sua verità, una sua visione delle cose. Come ha scritto un genio laico quale Max Weber, tutto dipende da come presenta la sua verità: è un laico se sa farlo mettendosi in gioco, distinguendo ciò che deriva da dimostrazione o da esperienza verificabile da ciò che è invece solo illazione ancorché convincente, mettendo le carte in tavola, ossia dichiarando a priori le sue convinzioni, scientifiche e filosofiche, affinché gli altri sappiano che forse esse possono influenzare pure inconsciamente la sua ricerca, anche se egli onestamente fa di tutto per evitarlo. Mettere sul tavolo, con questo spirito, un'esperienza e una riflessione teologica può essere un grande arricchimento. Se, invece, si affermano arrogantemente verità date una volta per tutte, si è intolleranti totalitari, clericali. Non conta se il discorso di Benedetto XVI letto alla Sapienza sia creativo e stimolante oppure rigidamente ingessato oppure — come accade in circostanze ufficiali e retoriche quali le inaugurazioni accademiche — dotto, beneducato e scialbo. So solo che — una volta deciso da chi ne aveva legittimamente la facoltà di invitarlo — un laico poteva anche preferire di andare quel giorno a spasso piuttosto che all'inaugurazione dell'anno accademico (come io ho fatto quasi sempre, ma non per contestare gli oratori), ma non di respingere il discorso prima di ascoltarlo.
Nei confronti di Benedetto XVI è scattato infatti un pregiudizio, assai poco scientifico. Si è detto che è inaccettabile l'opposizione della dottrina cattolica alle teorie di Darwin. Sto dalla parte di Darwin (le cui scoperte si pongono su un altro piano rispetto alla fede) e non di chi lo vorrebbe mettere al bando, come tentò un ministro del precedente governo, anche se la contrapposizione fra creazionismo e teoria della selezione non è più posta in termini rozzi e molte voci della Chiesa, in nome di una concezione del creazionismo più credibile e meno mitica, non sono più su quelle posizioni antidarwiniane. Ma Benedetto Croce criticò Darwin in modo molto più grossolano, rifiutando quella che gli pareva una riduzione dello studio dell'umanità alla zoologia e non essendo peraltro in grado, diversamente dalla Chiesa, di offrire una risposta alternativa alle domande sull'origine dell'uomo, pur sapendo che il Pitecantropo era diverso da suo zio filosofo Bertrando Spaventa. Anche alla matematica negava dignità di scienza, definendola «pseudoconcetto». Se l'invitato fosse stato Benedetto Croce, grande filosofo anche se più antiscientista di Benedetto XVI, si sarebbe fatto altrettanto baccano? Perché si fischia il Papa quando nega il matrimonio degli omosessuali e non si fischiano le ambasciate di quei Paesi arabi, filo- o anti-occidentali, in cui si decapitano gli omosessuali e si lapidano le donne incinte fuori dal matrimonio? In quella trasmissione televisiva Pannella, oltre ad aver infelicemente accostato i professori protestatari della Sapienza ai professori che rifiutarono il giuramento fascista perdendo la cattedra, il posto e lo stipendio, ha fatto una giusta osservazione, denunciando ingerenze della Chiesa e la frequente supina sudditanza da parte dello Stato e degli organi di informazione nei loro riguardi. Se questo è vero, ed in parte è certo vero, è da laici adoperarsi per combattere quest'ingerenza, per dare alle altre confessioni religiose il pieno diritto all'espressione, per respingere ogni invadenza clericale, insomma per dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, principio laico che, come è noto, è proclamato nel Vangelo. Ma questa doverosa battaglia per la laicità dello Stato non autorizza l'intolleranza in altra sede, come è accaduto alla Sapienza; se il mio vicino fa schiamazzi notturni, posso denunciarlo, ma non ammaccargli per rivalsa l'automobile.
Una cosa, in tutta questa vicenda balorda, è preoccupante per chi teme la regressione politica del Paese, i rigurgiti clericali e il possibile ritorno del devastante governo precedente. È preoccupante vedere come persone e forze che si dicono e certo si sentono sinceramente democratiche e dovrebbero dunque razionalmente operare tenendo presente la gravità della situazione politica e il pericolo di una regressione, sembrano colte da una febbre autodistruttiva, da un'allegra irresponsabilità, da una spensierata vocazione a una disastrosa sconfitta.
20 gennaio 2008 lavorare Ama il modesto mestiere che hai imparato e accontentati di esso LEGGERE
Degli esercizi spirituali suggeriti da PIERRE HADOT come pratiche filosofiche tese a formare l’anima quelli provenienti dalla cultura pagana sono sostanzialmente quattro: imparare a vivere, imparare a morire, imparare a dialogare, imparare a leggere.
Se i primi tre attirano subito la nostra attenzione e ci spingono a scavare nel testo di Hadot, in cerca delle parole greche, delle definizioni, delle formule, delle massime, delle prescrizioni da seguire, una curiosità più grande suscita il quarto esercizio.
Di esso ROLAND BARTHES scriveva nel 1979 (Voce Lettura dell’Enciclopedia Einaudi 8, pp.176-199) che «leggere è una tecnica», «leggere è una pratica sociale», «leggere è una forma di gestualità», «leggere è una forma di saggezza», «leggere è un metodo», «leggere è un’attività voluttuaria». Oggetto, Operazione, Fenomeno, in esso è implicato il desiderio; senso e intertesto ne costituiscono l’anima come pratica della testualità, commercio con i testi.
Ebbene, secondo Hadot, quasi tutti i filosofi antichi hanno scritto in funzione della scuola, pensando ai loro allievi, a partire da problemi specifici. Anche le opere più ardue e apparentemente sistematiche in realtà non lo sono quasi mai: gli antichi pensavano in termini di ricerca, di formulazione dei problemi da punti di vista sempre diversi.
Leggere per loro significava questo: riservare il commento, la silloge, il trattato a interlocutori diversi. Diverso era il grado della conoscenza posseduto, diversi i testi a cui far accostare gli allievi, gli interlocutori, il pubblico. La lettura dei testi filosofici per gli antichi è pratica degli esercizi spirituali.
«La filosofia appare allora - nel suo aspetto originario - non più come una costruzione teorica, ma come un metodo inteso a formare una nuova maniera di vivere e di vedere il mondo, come uno sforzo di trasformare l’uomo. In genere gli storici contemporanei della filosofia hanno scarsamente la tendenza a prestare attenzione a questo aspetto, nondimeno essenziale» (PIERRE HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, EINAUDI 2002, pag.66).
Per comprendere chi è Hadot, basti pensare
all’opera Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura (Einaudi, 2006), risultato di 40 anni di studi, costruita a partire dal frammento di Eraclito: «La natura ama nascondersi»,
a Plotino o la semplicità dello sguardo (Einaudi, 1999),
a Che cos’è la filosofia antica? (Einaudi 1998).
Imparare a leggere - Παιδεια da Limen di gabriele de ritis leggere Di esso ROLAND BARTHES scriveva nel 1979 (Voce Lettura dell’Enciclopedia Einaudi 8, pp.176-199) che «leggere è una tecnica», «leggere è una pratica sociale», «leggere è una forma di gestualità», «leggere è una forma di saggezza», «leggere è un metodo», «leggere è un’attività voluttuaria». Oggetto, Operazione, Fenomeno, in esso è implicato il desiderio; senso e intertesto ne costituiscono l’anima come pratica della testualità, commercio con i testi.
Ebbene, secondo Hadot, quasi tutti i filosofi antichi hanno scritto in funzione della scuola, pensando ai loro allievi, a partire da problemi specifici. Anche le opere più ardue e apparentemente sistematiche in realtà non lo sono quasi mai: gli antichi pensavano in termini di ricerca, di formulazione dei problemi da punti di vista sempre diversi.
Leggere per loro significava questo: riservare il commento, la silloge, il trattato a interlocutori diversi. Diverso era il grado della conoscenza posseduto, diversi i testi a cui far accostare gli allievi, gli interlocutori, il pubblico. La lettura dei testi filosofici per gli antichi è pratica degli esercizi spirituali.
«La filosofia appare allora - nel suo aspetto originario - non più come una costruzione teorica, ma come un metodo inteso a formare una nuova maniera di vivere e di vedere il mondo, come uno sforzo di trasformare l’uomo. In genere gli storici contemporanei della filosofia hanno scarsamente la tendenza a prestare attenzione a questo aspetto, nondimeno essenziale» (PIERRE HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, EINAUDI 2002, pag.66).
Da http://www.gabrielederitis.it/?p=447 leggere « Quale benessere ci offrono i nuovi libri! Io vorrei che ogni giorno mi cadessero dal cielo a grandi fasci i libri che raccontano la giovinezza delle immagini. Questo voto è naturale. Questo prodigio è facile. Lassù, in cielo, non è forse il paradiso un'immensa biblioteca? ». Ma non basta ricevere, bisogna raccogliere. Bisogna, dicono a una sola voce il pedagogo e la dietologa « assimilare ». Per questo, ci consigliano di non leggere troppo velocemente, e di guardarsi dall'inghiottire pezzi troppo grossi. Dividete, ci dicono, ogni difficoltà in tutte le particelle possibili per risolverla meglio. Masticate bene, bevete a piccole sorsate, assaporate verso per verso i poemi. Tutti questi precetti sono belli e buoni. Ma un principio li comanda. È necessario dapprima un buon desiderio di mangiare, di bere e di leggere. Bisogna desiderare di leggere molto, leggere ancora, leggere sempre. « Fin dal mattino, davanti ai libri accumulati sulla mia tavola, faccio la mia preghiera al dio della lettura: « Dacci oggi la nostra fame quotidiana... ». leggere CLASSICI Un classico è qualcosa che tutti vorrebbero aver letto e nessuno vuol leggere leggere scrivere Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una sorta di strumento ottico offerto al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe visto in se stesso LIBERTA' Vi è una sola cosa che - non so perché - gli uomini non hanno la forza di desiderare: la libertà, un bene tanto grande e dolce! Non appena la si perde, sopraggiungono tutti i mali possibili e senza di essa, tutti gli altri beni, corrotti dalla servitù, perdono gusto e sapore. Sembra che gli uomini tengano in poco conto la libertà, infatti, se la desiderassero, l'otterrebbero; si direbbe quasi che rifiutino di fare questa preziosa conquista perché è troppo facile.
"Il en est une seule que les hommes, je ne sais pour-quoi, n'ont pas la force de désirer: c'est la liberté, bien si grand et si doux! Dès qu'elle est perdue, tous les maux s'ensuivent, et sans elle tous les autres biens, corrompus par la servitude, perdent entièrement leur goùt et leur saveur. La liberté, les hommes la dédaignent uniquement, sem-ble-t- il, parce que s'ils la désiraient, ils l'auraient; comme s'ils refusaient de faire cette précieuse acquisition parce qu'elle est trop aisée"
La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, La Vita Felice, Milano 2007 traduzione di Giuseppe Pintorno LIBRI Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato. Come l'inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo. La sua mano si alzava e si abbassava a ogni prezioso respiro. Si tolse di dosso il telo di plastica, si tirò su avvolto nei vestiti e nelle coperte puzzolenti e guardò verso est in cerca di luce ma non ce n'era. Nel sogno da cui si era svegliato vagava in una caverna con il bambino che lo guidava tenendolo per mano. Il fascio di luce della torcia danzava sulle pareti umide piene di concrezioni calcaree. Come viandanti di una favola inghiottiti e persi nelle viscere di una bestia di granito. Profonde gole di pietra dove l'acqua sgocciolava e mormorava. I minuti della terra scanditi nel silenzio, le sue ore, i giorni, gli anni senza sosta. Poi si ritrovavano in una grande sala di pietra dove si apriva un lago nero e antico. E sulla sponda opposta una creatura che alzava le fauci grondanti da quel pozzo carsico e fissava la luce della torcia con occhi bianchissimi e ciechi come le uova dei ragni. Dondolava la testa appena sopra il pelo dell'acqua come per annusare ciò che non riusciva a vedere. Rannicchiata li, pallida, nuda e traslucida, con le ossa opalescenti che proiettavano la loro ombra sulle rocce dietro di lei. Le sue viscere, il suo cuore vivo. Il cervello che pulsava in una campana di vetro opaco. Dondolava la testa da una parte all'altra, emetteva un mugolio profondo, si voltava e si allontanava fluida e silenziosa nell'oscurità. Con la prima luce grigiastra l'uomo si alzò, lasciò il bambino addormentato e uscf sulla strada, sì accovacciò e studiò il territorio a sud. Arido, muto, senza dio. Gli pareva che fosse ottobre ma non ne era sicuro. Erano anni che non possedeva un calendario. Si stavano spostando verso sud. Li non sarebbero sopravvissuti a un altro inverno.
….. Si accovacciarono sulla strada e mangiarono riso e fagioli freddi che avevano cucinato giorni prima. Cominciavano già a fermentare. Non c'era un posto dove accendere il fuoco senza essere visti. Dormirono l'uno contro l'altro fra le trapunte puzzolenti nel buio e nel freddo. Lui teneva il bambino stretto a sé. Cosi magro. Angelo mio, disse. Angelo mio. Ma ammesso che fosse un buon padre sapeva che le cose potevano stare proprio come aveva detto lei. Che il bambino era l'unica cosa che lo separava dalla morte.pag. 23 LIBRI «Ci sono libri che si posseggono da vent'anni senza leggerli, che si tengono sempre vicini, che uno porta con sé di città in città, di paese in paese, imballati con cura, anche se abbiamo pochissimo posto, e forse li sfogliamo al momento di toglierli dal baule; tuttavia ci guardiamo bene dal leggerne per intero anche una sola frase. Poi, dopo vent'anni, viene un momento in cui d'improvviso quasi per una fortissima coercizione, non si può fare a meno di leggere uno di questi libri d'un fiato, da capo a fondo: è come una rivelazione. Ora sappiamo perché lo abbiamo trattato con tante cerimonie. Doveva stare a lungo vicino a noi; doveva viaggiare; doveva occupare posto; doveva essere un peso; e adesso si svela, adesso illumina i vent'anni trascorsi in cui è vissuto, muto, con noi. Non potrebbe dire tanto se per tutto quel tempo non fosse rimasto muto, e solo un idiota si azzarderebbe a credere che dentro ci siate state sempre le medesime cose» ELIAS CANETTI, LA PROVINCIA DELL'UOMO, ADELPHI libri "Come accade per gli uomini, ho avuto l'impressione che anche i libri possiedano dei loro peculiari destini. vanno verso le persone che li attendono e le raggiungono nel momento giusto. sono composti di materia vivente e continuano a gettare luce attraverso l'oscurità per molto tempo dopo la morte dei loro autori" Miguel Serrano, Il cerchio ermetico (1966), casa editrice astrolabio, 1976, pag. 10 LIBRI Lo aspettò sulla strada e quando l'uomo riemerse dal bosco aveva in mano la valigia e le coperte su una spalla. Ne scelse una e la diede al bambino. Ecco, disse. Mettitela addosso, che hai freddo. Il bambino fece per dargli la pistola ma l'uomo non la volle. Quella tienila tu, disse. Ok. Lo sai come si usa? Si. Ok. E il mio papa ? Non c'è nient'altro che possiamo fare per lui. Mi sa che voglio andare a salutarlo. Ce la fai da solo ? Si. Allora vai. Ti aspetto. Tornò nel bosco e si inginocchiò accanto al padre. Era avvolto in una coperta, come l'uomo aveva promesso, e il bambino non lo scopri ma gli si sedette vicino e si mise a piangere senza riuscire a fermarsi. Pianse per un bel pezzo. Ti parlerò tutti i giorni, sussurrò. E non mi dimenticherò. Per niente al mondo. Poi si alzò, si voltò e tornò verso la strada. Quando la donna lo vide lo abbracciò e lo tenne stretto. Oh, gli disse, come sono contenta di vederti. Ogni tanto la donna gli parlava di Dio. Lui ci provava a parlare con Dio, ma la cosa migliore era parlare con il padre, e infatti ci parlava e non lo dimenticava mai. La donna diceva che andava bene cosi. Diceva che il respiro di Dio è sempre il respiro di Dio, anche se passa da un uomo all'altro in eterno. Una volta nei torrenti di montagna c'erano i salmeri-ni. Li potevi vedere fermi nell'acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiava piano nella corrente. Li prendevi in mano e odoravano di muschio. Erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Mappe e labirinti. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell'uomo, e vibrava di mistero. LIBRI DI AMICI Le parole dell’infanzia:
1) Alcott, Piccole donne- Piccole donne crescono 2) Raimond Queneau, Zazie nel metro 3) Italo Calvino, Fiabe italiane
Le parole dell’adolescenza:
4) Goethe, Gli anni di viaggio di Wilhelm Meister, o i Rinuncianti 5) Goethe, Le affinità elettive 6) Herman Hesse: tutto. 7) Robert Musil, Il giovane Torless 8) Charles Schultz, tutti i fumetti.
Le parole meno confuse dell’ “era universitaria”
9) Artur Schitzlner, tutto 10) Thomas mann, Il doctor Faustus 11) Thomas Mann, La montagna incantata 12) Tommaso Landolfi, tutto 13) Thomas Bernard, Il soccombente 14) Borges, L’aleph 15) Borges, Finzioni 16) Borges, Altre inquisizioni 17) Rudolph Arnheim, Film come arte 18) Sartre, La nausée 19) Sartre, Le parole 20) Carlos Castaneda, tutto 21) Maurice Blanchot, Lo spazio letterario 22) Angelo Maria Ripellino, Praga magica 23) Giovanni Macchia, La stanza delle passioni 24) Emilio Garroni, Senso e paradosso
Le parole dell’età adulta 25) Chitra Divakaruni, tutto; Murakami;, J. Cohen; Banana Yoshimoto; Manuel Vasquez Montalban, Antonio Tabucchi ecc, ecc. Nota: ogni volta che mi metto a fare cataloghi, dopo mi accorgo che è rimasto fuori l’essenziale. Per es., Deleuze e Roland Barthes dove li metto? E Franco Basaglia?
Renata Turco logos In principio era il pensiero
en archè en o logos
Giovanni evangelista, capitolo 1, versetto 1 LUOGHI TEMPO Un luogo privilegiato
Essere amata e amare un albero, un monte, una radura. Amare la meraviglia e il terrore della natura (ieri sera un vento impetuoso mi ha colta lontano da casa, costringendomi a trovare riparo in un casolare abbandonato). Poi contemplare anche, “degustarsi”, assaporare la propria sostanza. Basta questo a riempire la vita. Basta che una cosa non rimanga come prima di averla contemplata. Svegliare un mondo sonnolento e renderlo vivo allo spirito, fare di ogni immagine un luogo privilegiato. Infine non curarsi troppo del futuro, perché - tanto - è come camminare verso il nulla.
http://cleliamazzini.tumblr.com/post/29459977 MALINCONIA Questo deve fare la poesia, oggi: catturare le parti più celate della vita e restituirle con una voce nuova, semplice, che lasci sempre e comunque il segno di un percorso che viene da lontano, ma che non condurrà mai vicino.
Grondai così dalla parola:
un frammento di notte a braccia spalancate una bilancia solo per soppesare fughe in questo tempo stellare calata nella polvere impressa d'orme.
E' tardi ormai. Ciò che è lieve mi lascia e ciò che è greve già vanno via le spalle come nubi braccia e mani libere nel gesto.
Molto scuro è sempre il colore del ricordo Mi riprende così la notte in suo possesso.
Nelly Sachs da Poeti della malinconia MANGIARE «Astenetevi, o mortali, dal contaminarvi il corpo con pietanze empie! Ci sono i cereali, ci sono i frutti che piegano con il loro peso i rami, grappoli d'uva turgidi sulle viti. Ci sono verdure deliziose, ce n'è di quelle che si possono rendere più buone con la cottura.
E nessuno vi proibisce il latte, e il miele che profuma di timo. La terra generosa vi fornisce ogni ben di dio e vi offre banchetti senza bisogno di uccisioni e di sangue.
Ah, che delitto enorme è cacciare visceri nei visceri, ingrassare il corpo ingordo stipandovi dentro un altro corpo, vivere della morte di un altro essere vivente!
In mezzo a tutta l'abbondanza di prodotti della Terra, la migliore di tutte le madri, davvero non ti piace altro che masticare con dente crudele povere carni piagate, facendo il verso col muso ai Ciclopi? E solo distruggendo un altro potrai placare lo sfinimento di un ventre vorace e vizioso?»
Ovidio, Le metamorfosi, XV, 75-95 massa "La calca s’era ispessita all’imbrunire, ogni istante di più, fino a che, all’accendersi dei becchi, cominciò a fluire in due opposte direzioni dense e continue. Le mie osservazioni furono, da principio, astratte e generiche. Cominciai col considerare i passanti sotto il loro aspetto di massa e avendo la mente solo ai loro rapporti collettivi. Ma venni dipoi ai particolari e m’applicai in un minuto esame allo scopo di vagliare la diversità dei tipi dai loro vestiti, dall’aspetto, dall’andatura, dai volti. [...] Allorché la fisionomia di un vecchio attirò la mia attenzione, per l’ossuta singolarità della sua espressione. E, compreso d’un desiderio ardente di non perdere di vista quell’uomo e di conoscere sul suo conto qualcosa di più, mi lanciai nella strada, aprendomi a fatica una via nella calca nella stesa direzione in cui quegli sembrava essere scomparso. Gli tenni dietro, a distanza breve, studioso di non risvegliare alcun suo sospetto [...] Mosse qualche passo e poi ripiegò nella direzione del fiume fintanto che giunse in vista d’uno dei maggiori teatri della città, nel mentre che la folla, a spettacolo finito, si riversava, da tutte le porte spalancate, nella strada. Il vecchio, allora, aperse la bocca come per emettere un gran respiro che avesse covato, e lo vidi buttarsi a capofitto frammezzo alla folla. L’espressione di profonda angoscia, di cui portava i segni sul viso, parve distendersi. Ma poiché il gruppo dietro al quale egli sembrava essersi messo, si diradava man mano, m’accorgevo che il poveretto era riacciuffato dalla sua inquietudine di prima. Si trascinò ancora qualche tempo dietro un ultimo relitto di folla, una dozzina appena di schiamazzatori, ma come costoro, separandosi un po’ alla volta, rimasero, allo svolto d’un vicolo oscuro, soltanto in tre, lo sconosciuto si fermò e rimase un attimo sopra pensiero. [...] Ma nel mentre che noi procedevamo, il rumore della vita ci veniva incontro, man mano, sempre più distinto e, a un tratto, vedemmo nell’oscurità scomposte torme di gente che s’agitava. Il vecchio parve allora rianimarsi di nuovo e palpitare d’un guizzo di vita simile a quello che manda una lampada che sia presso a estinguersi, e ancora una volta riprese a camminare con una certa risoluzione e speditezza"
(tratto dal racconto "L'uomo della folla" di Edgar Allan Poe). MATRIMONIO CONVERSAZIONE "Il matrimonio come lunga conversazione - Al momento di sposarsi bisogna porsi una domanda: credi di poter conversare piacevolmente con questa donna, fino alla vecchiaia? Tutto il resto del matrimonio è transitorio, ma per la maggior parte del tempo il rapporto è conversazione" in Troppo umano, I, 1878, 406 maturità gioventù
La delusione della maturità segue l'illusione della gioventù. Benjamin Disraeli MEMORIA CONDIVISA FASCISMO ANTIFASCISMO da Sergio Luzzatto, La crisi dell'antifascismo, Einaudi 2002
"Capita oggi di assistere a un paradosso: gli uomini e le donne i quali scegliendo a vent’anni l’antifascismo anziché il fascismo, contribuirono in maniera straordinaria a redimere l’Italia dalla colpa storica della dittatura, si trovano adesso da ottuagenari a doversi confessare per peccati che non hanno materialmente commesso. Oppure si preparano a morire tacendo"
“confusione che oggi si fa tra memoria condivisa e storia condivisa; più in generale tra bisogno di memoria e bisogno di storia.... Occorrerebbe spiegare che la memoria collettiva sulla quale si affaticava la mente geniale di uno studioso come Marc Bloch non equivale necessariamente alla memoria condivisa" (pag. 15) di cui tessono l’elogio i revisionisti da strapazzo. "L’una (la storia) rimanda a un unico passato, cui nessuno di noi può sottrarsi, mentre l"altra (la memoria condivisa) sembra presumere un’operazione più o meno forzosa di azzeramento delle identità e di occultamento delle differenze. Il rischio di una memoria condivisa è una smemoratezza patteggiata, la comunione nella dimenticanza" (pag. 25).
"Credo sia venuto il momento di dire ai cattivi maestri - votino a destra o a sinistra - una cosa semplicissima, ma di dirla forte e chiara: la guerra civile combattuta tra il 1943 e 45 (o 46) non ha bisogno di interpretazioni bipartisan che ridistribuiscano equamente ragioni e torti, elogi e necrologi. Perché certe guerre civili meritano di essere combattute. E perché la moralità della Resistenza consistette anche nella determinazione degli antifascisti di rifondare l"Italia anche a costo di spargere sangue" (pag. 29). "Ripeto: si può condividere una storia - e si può condividere una nazione o addirittura una patria - senza per questo dover dividere delle memorie. Dico di più: una nazione e perfino una patria hanno bisogno come del pane di memorie antagonistiche, fondate su lacerazioni originarie, su valori identitari, su appartenenze non abdicabili né contrattabili".
Oggi, con il mio collega storico - nonchè mio ex professore alla Normale - Roberto Vivarelli io certamente condivido, da cittadino italiano, tutta una storia. È quella stessa storia (a poste¬riori cosi straziante, e infatti cosi poco studia¬ta) che fece in maggioranza degli ebrei italiani, e forse di mio nonno, altrettanti volenterosi am¬miratori di Mussolini. Ma se parliamo di me¬moria, io desidero e pretendo che la mia e quel¬la di Vivarelli restino memorie divise. Si tenga pure, lui, la memoria di suo padre squadrista, marciatore su Roma, volontario in tutte le guer¬re del duce; si tenga la memoria di se stesso, im¬berbe volontario delle brigate nere. Io mi ten¬go la memoria del nonno che non ho mai cono¬sciuto: del medico che perse, dopo la cattedra universitaria, ogni diritto di curare pazienti «ariani», prima di nascondersi a Lucca come un topo braccato per sfuggire ai risultati estremi della persecuzione razziale. E mi tengo la memoria di mio padre bambino, che dovette cela¬re tra i monti della Garfagnana la sua origina¬ria condizione di «mezzo» ebreo, cosi da sottrarsi al treno per Auschwitz. Inoltre, sostengo che è assurdo pretendere di versare il sangue di mio nonno, di mio padre, o di qualunque altro ebreo fortunosamente scam¬pato alla Soluzione finale, nell'improbabile cal¬derone di un sangue dei vincitori in tutto e per tutto distinto dal sangue dei vinti. No, davvero non riesco a pensare a mio nonno come a un vin¬citore: lui che nel 1915, da fervido irredentista triestino, si era arruolato volontario nella Gran¬de Guerra per combattere sotto le insegne di Ca¬sa Savoia; lui che, vent'anni più tardi, ha letto la firma del suo maestro Pende in calce al «Ma¬nifesto della razza»; lui che il io giugno del 1940 - ormai da ebreo perseguitato - è nondimeno sceso con suo figlio (mio padre) in piazza De Fer¬rari, a Genova, per raccogliere dall'altoparlante la voce di Mussolini che annunciava stentorea l'entrata dell'Italia fascista nella seconda guerre mondiale; lui che, nell'Italia della Repubblica, non avrebbe comunque più ritrovato lo scranne della sua cattedra universitaria.
Tra i due schieramenti vi era incompatibilità di valori: "La qualità etica dei valori in nome dei quali le brigate partigiane (anche le Garibaldi) fecero la Resistenza risiede precisamente nella loro incompatibilità con i valori in nome dei quali le brigate nere spalleggiarono la Wehrmacht e le SS nell’opera di repressione del banditismo antifascista"(pag. 31). Compresi gli antifascisti comunisti. Scrive infatti Luzzatto: "Dobbiamo rimpiangere che operai comunisti delle città italiane si siano fatti gappisti e abbiano reso la vita impossibile agli occupanti tedeschi, mentre l’esistenza di Hitler e dei capi nazisti non è stata minacciata, fino all’entrata dell’Armata rossa a Berlino, se non da una trama putschista di alti ufficiali aristocratici?"
"Mi riesce più gradito riconoscere nella guerra partigiana la carta di identità del paese in cui sono nato e mi riesce necessario pensare all’Italia della Resistenza come al terreno dove gli Italiani devono tracciare ‘ora e sempre’ i confini non negoziabili della loro identità, la soglia del non rinunciabile da sé" (pag. 33).
l revisionismo politico, che fa di ogni erba un fascio, non vuole chiarezza di idee su questo punto e tende ad espungere dall’antifascismo il contributo decisivo dei comunisti. Scrive ancora Luzzatto: "Le nuove generazioni rischiano di non imparare il contributo decisivo dei comunisti italiani alla nascita dell’Italia nuova... e i bambini come i miei non sentiranno più pronunciare, sui banchi di scuola, i nomi venerandi di chi spese il meglio della propria esistenza per liberare l’Italia dalla dittatura e fondare la Repubblica: comunisti senza macchia e senza paura che si chiamavano Giorgio Amendola o Umberto Terracini, Camilla Ravera o Giancarlo Paietta" (pag. 37). E ancora: "La vittoria del comunista delle Garibaldi ha significato un’Italia libera, la vittoria del fascista di Salò avrebbe significato un’Italia schiava" (pag. 40).
Verso la fine del suo bellissimo libro Luzzatto si chiede: "L’Italia del terzo millennio può rinunciare a quanto appreso in conseguenza di un lontano Ventennio? Per quel che vale , la mia risposta è no. Inoculato a carissimo prezzo, il vaccino antifascismo riesce tuttora indispensabile alla salute del nostro corpo politico" (pag. 88 MEZZI FINI Gli strumenti di cui l’uomo dispone hanno la tendenza a trasformare la propria natura. Da mezzi tendono a diventare scopi. Oggi questo fenomeno ha raggiunto la sua forma più radicale. L’insieme degli strumenti delle società avanzate diventa lo scopo fondamentale di tali società. Nel senso che esse mirano soprattutto ad accrescere la potenza dei propri strumenti… L’Apparato ha trasformato la propria natura, e da mezzo, strumento, è diventato scopo. Da mezzo, per la realizzazione degli scopi ideologici, l’incremento indefinito della potenza dell’Apparato è diventato lo scopo supremo delle ideologie, lo scopo cioè al quale viene subodinata la realizzazione degli scopi ideologici.
[Emanuele Severino - La tendenza fondamentale del nostro tempo] MITI Che cos'è il mito? Non una raccolta di storie, e neppure un'esperienza religiosa, bensì un puro e semplice "incontro" (basta ricordare i colloqui di Odisseo con Athena per capirlo). Scrive Calasso ne La letteratura e gli dèi:
...gli dèi sono ospiti fuggevoli della letteratura. La attraversano, con la scia dei loro nomi. Ma presto anche la disertano. Ogni volta che lo scrittore accenna una parola, deve riconquistarli. La mercurialità, che preannuncia gli dei, è anche il segno della loro evanescenza. Non sempre così era stato. Almeno, finché sussisteva una liturgia...
Ecco la linea di discrimine: la liturgia, l'interrotto contatto "diretto", la "mediazione". Odisseo parla con Athena "faccia a faccia", senza turbamento, profeticamente. Non ha bisogno di alcuna "ritualità", tranne quella, implicita, dell'accettazione del suo status di "ri-conoscente".
Ho sempre visto Athena come una dea cruciale nel complesso rapporto uomo-mito (Bachofen la fa assurgere addirittura a figura-chiave, nelle sue fasi più ancestrali, per l'acquisizione del lógos da parte dell'uomo; quasi una sorta di "Prometeo" al femminile. Mentre Gottfried Benn pensa bene di metterle in mano lo strumento dell' artistik, nel tentativo di trasformare Odisseo nell'artefice del suo piano che, seppur eterodiretto, ha - forse per la prima volta - uno sguardo che va oltre la pura e semplice idea dell'ordalìa finale. E' l'unione tutta "palladiana" tra technè e metis).
In molti hanno parlato, e tanto a lungo, del complesso rapporto di Odisseo con le donne (o con le dee) con le quali si è imbattuto nel corso del suo lunghissimo nóstos: Calipso, Nausicaa, Circe, Penelope (così mutata nel corso dei vent'anni di separazione); nessuno - forse - ha posto l'attenzione su quanto fosse saldo ed esclusivo il rapporto con Athena. Solo il vecchio Nestore pare accorgersene quando dice a Telemaco, da lui giunto implorante a cercare suo padre:
Se Athena dall'occhio azzurro tanto volesse amarti, così come proteggeva il glorioso Odisseo nella terra dei Teucri, dove tante pene soffrimmo noi Achei - e mai ho visto dèi amare così apertamente, così come Pallade Athena gli stava vicino - se tanto amarti volesse e prenderti a cuore, allora qualcuno arriverebbe persino a scordare le nozze... [Od. III, 218-224]
Eppure il rapporto con la dèa sembra non varcare mai i limiti del lecito; da nessuna delle due parti si intravede un gesto, una parola, una situazione che possa far intuire una "relazione" più diretta. Questo perché il rapporto Athena-Odisseo, non è mai stato un rapporto "paritario". Odisseo è sempre stato (e ha accettato sempre di essere) uno "strumento" nelle mani di Athena (basti pensare alle continue trasformazioni somatiche alle quali essa "magicamente" lo sottopone, e delle quali l'eroe mai si lamenta). Athena infatti, attraverso Odisseo, vuole ripristinare uno statu quo ante la guerra di Troia, un conflitto a cui Odisseo era ostile e contro cui ha fatto il possibile per non partecipare (e non perdonò mai a Palamede di averlo costretto a partire suo malgrado). Ecco dunque il "matrocinio" del viaggio à rebours verso Itaca; ecco l'accorato appello davanti al consesso divino; ecco il rivendicare davanti a Zeus il suo ruolo di "generata dal padre", fino a far vincere a quest'ultimo ogni ritrosia davanti al fatto di esautorare il fratello Poseidone del "diritto" alla vendetta su colui che aveva accecato Polifemo. Athena vuole, fortissimamente vuole, restituire Odisseo al suo mondo. Un mondo sovvertito dal movimento tellurico della guerra, un mondo che egli dovrà riacquisire così come lo ha lasciato, intatto. Per cui dovrà lottare fino in fondo, in una sorta di palingenesi che, pur chiedendo altro sangue, sfocerà - sempre sotto i buoni uffici della "dèa dagli occhi azzurri" - nella pace finalmente raggiunta con i maggiorenti di Itaca. Solo allora la parentesi di una guerra infame sarà finalmente chiusa, anche se tutto, fuori dell'assolato e finalmente pacifico mondo di Itaca, sarà ormai ineluttabilmente cambiato. Per sempre. Tanto che Odisseo sarà di nuovo "costretto" a partire, come gli aveva predetto Tiresia. Senza che Athena - questa volta - possa far niente per proteggerlo e farlo tornare.
369. Se, frantumati i loro simulacri, / noi li scacciammo via dai loro templi, / non sono morti per ciò gli dèi. / O terra della Ionia, ancora t'amano, l'anima loro ti ricorda ancora. / Come aggiorna su te l'alba d'agosto, / nell'aria varca della loro vita un èmpito, / e un'eteria parvenza d'efebo, / indefinita, con passo celere, / varca talora sulle tue colline. [Costantino Kavafis - Ionica in " Poesie"]
370. Forse così presi dal cercare il tempo perduto non abbiamo tenuto conto di un fattore importante che riguarda proprio il Tempo. Siamo sicuri che lui voglia farsi trovare?
inserito da Clelia Mazzini @ 03:05 - permalink MODERNITA' TRADIZIONE PARZIALITA' VITTIME COLPEVOLI ... Il passato è ridotto ad unica valenza negativa. Il nuovo è il solo bene. Esiste solo io, oggi, primo e ultimo giorno del mondo e un domani preteso garantito e definito, copia dell'oggi, migliore. Tutto è giustificabile, giustificato. I carnefici riscuotono interesse e simpatia, le vittime ripugnanza. Il male è sempre nuovo, eccitante. Il bene superato noioso comunque. Molto moderno e indice di ottimi sentimenti altruistici è il ribaltamento dei ruoli. Il colpevole è vittima. La vittima a ben vedere colpevole. Vacante il senso di responsabilità e riconoscere le proprie colpe, caso mai succeda, serve a fare risaltare quelle ben più gravi degli altri. Perso il senso dell'onore. Tutto è dovuto e un desiderio formulato ed espresso equivale ad un diritto. All'idea del nuovo si è intrecciata l'idea di totalità come moderna categoria dell'umano. L'uomo totale, padrone assoluto di tutto, proteso senza limiti tende all'onnipotenza. Politica, economia, scienza anche in ordine inverso sono le tre idolatrie del moderno. Non parzialità indispensabili alla convivenza degli uomini. Non tensione ad un equilibrio tra l'irriducibile individualità e l'altrettanto irriducibile esigenza della collettività in cui ogni essere nasce, cresce, vive e muore, che niente è a sè nè l'uno nè i tanti. ... morire LUTTO "....Anzitutto per noi non c'è nulla che possa rimpiazzare l'assenza di una persona cara, ne è cosa questa che dobbiamo tentare; è un fatto che bisogna semplicemente sopportare e davanti al quale bisogna tener duro. A prima vista sembra molto difficile, mentre è anche una grande consolazione: perché, restando effettivamente aperto il vuoto, si resta anche reciprocamente legati da esso. Si sbaglia quando si dice che DIO riempie il vuoto; non lo riempie affatto anzi lo mantiene appunto aperto e ci aiuta in questo modo a conservare l'autentica comunione tra di noi, sia pure nel dolore. Inoltre quanto più belli e densi sono i ricordi, tanto più pesante è la separazione. Ma la gratitudine trasforma il momento del ricordo in una gioia silenziosa. Portiamo allora dentro di noi tutta la bellezza del passato non come una spina, ma come un dono prezioso. Bisogna guardarsi dal frugare nel passato, dal consegnarsi ad esso, così come un dono prezioso non lo si rimira continuamente, ma solo in momenti particolari,e per il resto lo si possiede come un tesoro nascosto della cui esistenza si è sicuri; allora dal passato si irradiano una gioia e una forza durature …” morire LUTTO "....Anzitutto per noi non c'è nulla che possa rimpiazzare l'assenza di una persona cara, ne è cosa questa che dobbiamo tentare; è un fatto che bisogna semplicemente sopportare e davanti al quale bisogna tener duro. A prima vista sembra molto difficile, mentre è anche una grande consolazione: perché, restando effettivamente aperto il vuoto, si resta anche reciprocamente legati da esso. Si sbaglia quando si dice che DIO riempie il vuoto; non lo riempie affatto anzi lo mantiene appunto aperto e ci aiuta in questo modo a conservare l'autentica comunione tra di noi, sia pure nel dolore. Inoltre quanto più belli e densi sono i ricordi, tanto più pesante è la separazione. Ma la gratitudine trasforma il momento del ricordo in una gioia silenziosa. Portiamo allora dentro di noi tutta la bellezza del passato non come una spina, ma come un dono prezioso. Bisogna guardarsi dal frugare nel passato, dal consegnarsi ad esso, così come un dono prezioso non lo si rimira continuamente, ma solo in momenti particolari,e per il resto lo si possiede come un tesoro nascosto della cui esistenza si è sicuri; allora dal passato si irradiano una gioia e una forza durature …” MORTE il pensiero della morte, a volte
Quando arriva, e in un piccolo giornale di provincia ne arrivano, la notizia della morte di qualcuno che magari ho conosciuto, tempo fa, mi soprendo, sempre, nel sentirmi sorpreso di fronte alla morte. (Penso anche alla donna che parla con i morti, no, non al libro, a quella che ho conosciuto: perché per lei la morte è una pausa, un riposo, tra una morte e una ri-nascita). Comunque, ho frugato negli archivi del mio blog. Trovando queste due cose.
aprile 2006
Per strada un gatto, bianco e rosso. Accanto a lui, sull’asfalto, una grande macchia, di sangue. Parrebbe adagiato, come usano fare i gatti quando dormono, ma la testa è eretta, pare staccata, non appartenere al corpo. Fissa il vuoto, maestoso. Sembra irreale, scolpito, di pietra. Aspetta. Piove, appena appena.
maggio 2006
Poco più di un anno fa in un paesino al confine di due province non importa Dove morì una giovane donna. Aveva 39 anni. Noi giornalisti usiamo scrivere “aveva solo 39 anni”. Fu uccisa da un male incurabile: nel giornalismo si usa scrivere così. Per una notizia così basta una breve, oppure niente. Dipende dal giornale, dal caporedattore, dalle altre notizie: che, se ci sono, a quella la fanno finire nel cestino. E invece si parlò molto di questa donna. Una donna particolare. Il giorno primo di morire inviò degli sms ai suoi amici. Poi contattò l’agenzia di pompe funebri. E dettò il testo del suo manifesto listato a lutto e comprensivo della sua foto. Dettò: Vi annuncio la mia morte.
Ora
La morte è un brutto pensiero. O forse no. Pensandoci, almeno qualche volta, ci si accorge che il tempo, grosso modo, può essere diviso in due categorie: quello perso, e quello no.
Remo Bassini in http://www.remobassini.it/blog/?p=1016 MORTE 'A livella
Ogn'anno,il due novembre,c'é l'usanza per i defunti andare al Cimitero. Ognuno ll'adda fà chesta crianza; ognuno adda tené chistu penziero.
Ogn'anno,puntualmente,in questo giorno, di questa triste e mesta ricorrenza, anch'io ci vado,e con dei fiori adorno il loculo marmoreo 'e zi' Vicenza.
St'anno m'é capitato 'navventura... dopo di aver compiuto il triste omaggio. Madonna! si ce penzo,e che paura!, ma po' facette un'anema e curaggio.
'O fatto è chisto,statemi a sentire: s'avvicinava ll'ora d'à chiusura: io,tomo tomo,stavo per uscire buttando un occhio a qualche sepoltura.
"Qui dorme in pace il nobile marchese signore di Rovigo e di Belluno ardimentoso eroe di mille imprese morto l'11 maggio del'31"
'O stemma cu 'a curona 'ncoppa a tutto... ...sotto 'na croce fatta 'e lampadine; tre mazze 'e rose cu 'na lista 'e lutto: cannele,cannelotte e sei lumine.
Proprio azzeccata 'a tomba 'e stu signore nce stava 'n 'ata tomba piccerella, abbandunata,senza manco un fiore; pe' segno,sulamente 'na crucella.
E ncoppa 'a croce appena se liggeva: "Esposito Gennaro - netturbino": guardannola,che ppena me faceva stu muorto senza manco nu lumino!
Questa è la vita! 'ncapo a me penzavo... chi ha avuto tanto e chi nun ave niente! Stu povero maronna s'aspettava ca pur all'atu munno era pezzente?
Mentre fantasticavo stu penziero, s'era ggià fatta quase mezanotte, e i'rimanette 'nchiuso priggiuniero, muorto 'e paura...nnanze 'e cannelotte.
Tutto a 'nu tratto,che veco 'a luntano? Ddoje ombre avvicenarse 'a parte mia... Penzaje:stu fatto a me mme pare strano... Stongo scetato...dormo,o è fantasia?
Ate che fantasia;era 'o Marchese: c'o' tubbo,'a caramella e c'o' pastrano; chill'ato apriesso a isso un brutto arnese; tutto fetente e cu 'nascopa mmano.
E chillo certamente è don Gennaro... 'omuorto puveriello...'o scupatore. 'Int 'a stu fatto i' nun ce veco chiaro: so' muorte e se ritirano a chest'ora?
Putevano sta' 'a me quase 'nu palmo, quanno 'o Marchese se fermaje 'e botto, s'avota e tomo tomo..calmo calmo, dicette a don Gennaro:"Giovanotto!
Da Voi vorrei saper,vile carogna, con quale ardire e come avete osato di farvi seppellir,per mia vergogna, accanto a me che sono blasonato!
La casta è casta e va,si,rispettata, ma Voi perdeste il senso e la misura; la Vostra salma andava,si,inumata; ma seppellita nella spazzatura!
Ancora oltre sopportar non posso la Vostra vicinanza puzzolente, fa d'uopo,quindi,che cerchiate un fosso tra i vostri pari,tra la vostra gente"
"Signor Marchese,nun è colpa mia, i'nun v'avesse fatto chistu tuorto; mia moglie è stata a ffa' sta fesseria, i' che putevo fa' si ero muorto?
Si fosse vivo ve farrei cuntento, pigliasse 'a casciulella cu 'e qquatt'osse e proprio mo,obbj'...'nd'a stu mumento mme ne trasesse dinto a n'ata fossa".
"E cosa aspetti,oh turpe malcreato, che l'ira mia raggiunga l'eccedenza? Se io non fossi stato un titolato avrei già dato piglio alla violenza!"
"Famme vedé..-piglia sta violenza... 'A verità,Marché,mme so' scucciato 'e te senti;e si perdo 'a pacienza, mme scordo ca so' muorto e so mazzate!...
Ma chi te cride d'essere...nu ddio? Ccà dinto,'o vvuo capi,ca simmo eguale?... ...Muorto si'tu e muorto so' pur'io; ognuno comme a 'na'ato é tale e quale".
"Lurido porco!...Come ti permetti paragonarti a me ch'ebbi natali illustri,nobilissimi e perfetti, da fare invidia a Principi Reali?".
"Tu qua' Natale...Pasca e Ppifania!!! T''o vvuo' mettere 'ncapo...'int'a cervella che staje malato ancora e' fantasia?... 'A morte 'o ssaje ched''e?...è una livella.
'Nu rre,'nu maggistrato,'nu grand'ommo, trasenno stu canciello ha fatt'o punto c'ha perzo tutto,'a vita e pure 'o nomme: tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?
Perciò,stamme a ssenti...nun fa''o restivo, suppuorteme vicino-che te 'mporta? Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive: nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"
Tot', Antonio De Curtis musica Musica: tu ci hai insegnato a vedere con l'orecchio e a udire con il cuore. Kahlil Gibran MUSICA Ci sono solo due modi per riassumere la musica: o è buona, o è cattiva. Se è buona non te ne fai un problema, te la godi semplicemente MUSICA Ora, qualche minuto appena dopo che il piccolo pianista aveva cominciato a suonare ... tutt'a un tratto, dopo una nota alta lungamente tenuta per due battute ... egli riconobbe, segreta, frusciante e divisa, la frase aerea e olezzante che amava. Ed era così particolare, aveva un fascino così singolare e insostituibile, che per Swann fu come ritrovare in un salotto amico una persona che avesse ammirata per la strada e disperato di poter mai rivedere.
Marcel Proust, Dalla parte di Swann MUSICA La musica è un regalo e una difficoltà che ho avuto sin da quando riesco a ricordare di esistere
Nina Simone musica bach Ogni nota che suoni è legata alla successiva,ed ogni nota deve essere eseguita perfettamente o si perde l'effetto d'insieme. Una volta che capii la musica di BACH, non volli pensare ad altro, se non diventare una concertista; BACH mi ha portato a dedicare la mia vita alla musica, e fu Mrs Massinovitch che mi fece conoscere questo mondo. Avevo cominciato un viaggio che diventava più bello ed eccitante ogni giorno NINA SIMONE) MUSICA BLUES Non sempre, ma ogni tanto ci vuole un po’ di blues per vivere. Senza sarebbe ancora più difficile, perché questa musica possiede la magia di emanare una sorta di malinconica forza in grado di scuoterti dentro senza mentirti. Una forza di cui tutti sentiamo il bisogno senza preavviso. Perché il blues è così: schietto, forte, autentico, immediato… necessario.
In: http://ruckert.splinder.com/post/11460021 musica drone drone, ovvero la dilatazione parossistica della nota, del rumore e della vibrazione. MUSICA JAZZ Oggi, in sottofondo costante, le note di un superbo lavoro di Thelonius Monk (Monk Alone: The Complete Solo Studio Recordings of Thelonious Monk 1962-1968 ), pieno di quella semplicità disadorna e di quella linearità compositiva che sembrano rasentare spesso la banalità (e lo dico in senso buono, perché è ideale per accompagnare lo scorrere lento della mia vita quotidiana). Mi pare che le armonie di Monk siano pura economia della materia musicale, e che contribuiscano a quella identificazione estrema dell'autore con quell'oggetto musicale che risponde al nome di pianoforte. I surrender, dear, il mio pezzo preferito in assoluto. MUSICA KEITH JARRETT DARK INTERVALS Piccoli istanti ne' giorno ne' notte, come il disco di Keith Jarrett, quel magnifico inno panteistico che rappresenta il disco del 1988, un susseguirsi di piccoli intensi intervalli scuri, aperture improvvise di un lirismo struggente, la meraviglia di queste note che riverberano. Si sente la gioia del suono, la meraviglia di ascoltare quelle note apparire e vivere di tutta l’intensita’ che solo la creazione spontanea ed istantanea sa creare e portare a galla MUSICA Modern Jazz Quartet Fontessa Modern Jazz Quartet
{Fontessa a Milano, 1958)
(pianoforte e vibrafono)
Da Piace Vendòme a la Concorde discorrono fiori di stucchi e specchi dove in piatti d'ottone tremano coppe fragili. Fuori uno spruzzo di pioggia è di prammatica: un carillon. Qualcuno scende in fretta la scalinata - un soffio di piumino sulle guance paffute - mani brune intinti di rosolio e d'anice offrono pasticcini. (pianoforte) Sull'argine il pioppeto frulla al vento un tremolo ora verde ed ora argento - alla chiusa il canale nella bruma è (quello sfregare in cerchio delle spazzole) gorgoglio e risucchio: una gorgiera di schiuma. Filtra il brusio della gora nel silenzio che c'era. (batteria e contrabbasso) Folate di piovasco. La marea risale a tonfo a tonfo sulle sponde - batte nel rio un alone che dilata gonfi profili in concavi fiamminghi. Ombre nel chiaroscuro delle calli - balla la masquerade.
Gian Citton, Devozioni musicali per vecchi fan, Mobydick, 2008 musica rock blog Il rocker è un po' il poeta metropolitano del '900; colui che spesso ha descritto in maniera essenziale e lucida la vita nani sulle spalle dei giganti «Siamo come nani sulle spalle dei giganti, sì che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non per l’acutezza della nostra vista, ma perché sostenuti e portati in alto dalla statura dei giganti» Bernardo di Chartres, XII secolo NATURA Leopardi: la presenza del male nella natura nostalgia Nostalgia: sentimento di lontananza da un luogo o un’epoca in cui siamo stati felici. In origine è un termine medico (nostos, ritorno + algos, dolore = dolore del ritorno), coniato da Johannes Hofer nel XVII secolo per descrivere il male dei mercenari. La parola assume un significato poetico con il Romanticismo: prima in rapporto a un’epoca storica di perfezione estetica o morale (la Grecia classica, il Medioevo cristiano), poi come condizione esistenziale, rimpianto di un’età dell’oro indefinita e irraggiungibile. Nell’arte si può forse parlare di una “nostalgia dello sguardo”. È il senso di esilio caro a Henry James, per cui è possibile scrivere di un luogo soltanto da lontano, e di un’epoca dopo che è passata. È uno sguardo sensibile al tempo, allo scorrere del tempo che rende la scrittura necessaria: scriviamo storie per fermare il fiume, per superare la nostra natura mortale, per costruire luoghi in cui le persone che abbiamo amato, e noi stessi mentre le amavamo, possano vivere per sempre. Paolo cognetti NOVECENTO Il mondo di ieri di Stefan Zweig compendia gli orrori e le memorie del '900. Descrive il maestoso congedo di un'epoca, sotto i colpi di due guerre mondiali e due totalitarismi. Zweig, inconsciamente conservatore, tratteggia l'avvento di un'età pervasa di fanatismo e di giovanilismo che volta le spalle alla tradizione. Pur annunciando una catastrofe, il testo di Zweig (assieme a quelli magistrali di Roth, Lernet-Holenia e Kraus) conserva l'aura serena di un caffè viennese: è difficile pensare che dopo aver scritto quel libro e prima che fosse pubblicato, lo scrittore austriaco, assieme a sua moglie, si sia tolto la vita nel tragico inverno di 65 anni fa. Di quel tramonto Zweig fu testimone e vittima, consegnò la sua vita al mondo di ieri, rifiutando categoricamente il passaporto per quello di domani. |