|
Il
film su Aldo Moro e la retorica della trattativa,
di Mario Pirani
da Repubblica - 12 settembre 2003
Se un film è tutto politico - e quello di Bellocchio lo è anche quando evoca i
sentimenti e le intime emozioni dei protagonisti - esso legittima, oltre ad una
valutazione sotto il profilo dello «specifico filmico», per dirla con un
grande teorico del cinema, Umberto Barbaro, anche un giudizio politico.
A questo aspetto limiterò le mie osservazioni avendo tanti altri, più
competenti di me sul piano critico, già scritto ampiamente sul valore di un´opera
che legge il delitto Moro secondo l´ottica claustrofobica dei quattro
carcerieri-giudici e della innocente vittima sacrificale.
Il merito indiscusso di "Buongiorno, notte" sta, a parer mio, nell´aver
rifiutato e vanificato la versione dietrologica di quel crimine che aveva
viceversa ispirato sia precedenti cinematografici sia una interminabile
proliferazione mass-mediologica, cara a una parte non secondaria della sinistra.
Secondo questa interpretazione, reiterata quanto priva del minimo elemento di
prova, la mano dei brigatisti venne guidata da qualche Grande Vecchio, da
Kissinger, da Andreotti, dalla Cia, dai Servizi sovietici e dai nostrani, dal
Mossad e chi più ne ha più ne metta, a turno impegnati a manovrare il
terrorismo in odio all´incombente «compromesso storico». Tutto, pur di non
riconoscere che il brigatismo e la scia di sangue che si lasciò alle spalle,
andavano purtroppo ricondotti a quell´album di famiglia, esattamente
individuato da Rossana Rossanda, da cui era scaturita una propaggine delle
giovani generazioni di sinistra, intossicate dal fallace mito della Liberazione
tradita e da altri cascami ideologici, una devianza estremistica parossistica.
I troppi che ne divennero preda credevano giunto il momento di scatenare la
lotta armata contro i simboli dello Stato borghese e, ad un tempo, contro
"l´opportunismo" della Cgil di Lama, del Pci di Berlinguer, della Dc
di Moro. Non per niente si ispiravano a uno slogan esplicitamente anti
riformista - «Lo Stato borghese si abbatte e non si cambia!» - in cui poteva
riconoscersi un bacino d´udienza più vasto e variegato degli stessi gruppi
terroristici.
Or bene, la radiografia di Bellocchio non lascia campo ad equivoci. I quattro di
via Montalcini non hanno dietro segreti burattinai, se non i loro compagni e
coetanei delle altre colonne e «direzioni strategiche» brigatiste.
E sono loro e solo loro i «compagni che sbagliano», figli putativi che
disconoscono e mistificano la loro ascendenza, rappresentata nella pellicola
dagli anziani partigiani che cantano "Bella ciao". Tesi limpida e
coraggiosa, una vera e propria sfida ad un universo politico e culturale aduso a
darsi spiegazioni dietrologiche in luogo di quelle logiche.
Meno convincente è l´altra caratteristica del film, da molti privilegiata come
la più apprezzabile: quella di mostrarci i terroristi nei loro sentimenti,
personali emozioni, incubi e sogni contraddittori. Ambigua operazione non perché
Mario Moretti, Prospero Gallinari, Germano Maccari e, in primo piano l´ispiratrice
dell´opera, Anna Laura Braghetti, non possedessero una loro umanità degna di
essere scandagliata e in una certa misura bisognosa di pietas, ma per l´esito
raggiunto. Forse occorreva il Dostoevskij de "I demoni" per tracciare
un profilo verosimile anche degli odierni nichilisti e non è un caso se quel
romanzo, apparso nel 1871, venne definito da Berdjaev, «non dell´epoca
contemporanea, ma di quella futura». Comunque non è, neanche in questo caso,
la resa estetica che mi induce a qualche perplessità ma il risvolto politico:
quei carcerieri, giudici e, al termine, carnefici, finiscono per apparire allo
spettatore, sovente ignaro o dimentico, come poveri diavoli, abitati sì da
qualche idea balzana, ma pur sempre tormentati da dubbi irrisolti, in bilico tra
un privato di buoni cristiani e un operare pratico segnato dalla P38 e dalla
mitraglietta Skorpion. Un dramma compassionevole che culmina addirittura nella
buona volontà, ancorché frustrata, di liberare il prigioniero, tanto che il
sogno della Braghetti in proposito, si traduce nella pellicola in un Aldo Moro
che apre la porta dell´appartamento in cui è rinchiuso ed esce a passeggio per
le strade di Roma. Il che andrebbe anche bene se allo spettatore venisse in
qualche modo fornita una postilla, ricordando che la vivandiera di via
Montalcini, la quale oggi con encomiabile sincerità dice di se stessa «da
quella persona lì sono lontana anni luce... ero inorridita dall´esecuzione ma
è comodo dirlo adesso, a quei tempi non ho agito, ho immaginato di lasciar
andare Moro ma non l´ho fatto, ho lasciato che accadesse e sono rimasta nelle
Br», ebbene se si rammentasse che quella stessa Braghetti, due anni dopo,
partecipò all´agguato sulle scale dell´Università di Roma che costò la vita
al professor Vittorio Bachelet, ucciso perché simbolo del Csm di cui era vice
presidente, come rivendicarono le Br.
Questo gli spettatori non lo sanno. Poco male se il sogno salvifico che conclude
idealmente il film - dove non si vede, invece, il momento della uccisione -
fosse una licenza della fantasia. Ma invece non è così o solo così: quel Moro
«libero», secondo il sogno della brigatista, è una ipotesi politica che viene
riproposta, ancora una volta, come una soluzione possibile.
Se non si è avverata la responsabilità non è di chi ha rapito, giudicato e
ucciso la vittima dopo 55 giorni di sequestro, ma di coloro i quali non hanno
accettato il compromesso, lo scambio richiesto dallo stesso Moro nelle sue
strazianti lettere (le quali, peraltro, nella loro tragicità avevano una chiave
etica opposta a quella delle "Lettere dei condannati a morte della
Resistenza", che il film invece impropriamente richiama, come se quei
martiri avessero anch´essi impetrato salvezza ai loro carnefici e non, invece,
accettato l´estremo sacrificio in nome degli ideali di Patria e libertà). I
"colpevoli" veri vengono viceversa rappresentati con le loro facce
impietrite.
Sono gli uomini della Dc e del Pci, del governo e delle istituzioni: Andreotti e
Berlinguer, Ingrao e Zaccagnini, Cossiga e Lama che assistono muti alla messa
funebre senza cadavere. E lo stesso Paolo VI compare in sedia gestatoria,
simbolo di una liturgia vuota, visto che anche lui si è allineato al fronte
della fermezza, quando, qualche fotogramma prima, viene mostrato mentre scrive
ai brigatisti chiedendo loro, niente meno, di rilasciare l´ostaggio «senza
condizioni».
La tesi che il film fa propria non è nuova. Marcò quei giorni drammatici e
cupi del ´78 e trovò la sua espressione sia sul piano politico, da Craxi a
Pannella e ai movimenti extra parlamentari, sia sul piano culturale fra quegli
intellettuali che si trinceravano dietro la parola d´ordine «né con lo Stato
né con le Br». Rivista al giorno d´oggi - ma per taluni anche allora - quell´idea
di uno "scambio" che salvasse la vita dello statista rapito può
apparire ragionevole mentre la fermezza, rappresentata in primo luogo, ma non
solo, dalla Dc e dal Pci, sembrare disumana ragion di Stato. È proprio su
questa falsa rappresentazione, psicologicamente suadente, che si è andata, del
resto, elaborando la dietrologia del grande complotto, ordito ben più in alto,
per assassinare l´incomodo leader del cattolicesimo democratico, il cui
atlantismo non era inoltre del tutto inossidabile.
Ma la situazione non si presentava affatto come gli "scambisti"
preconizzavano. In via Fani la scorta era stata falciata e cinque agenti erano
restati sul terreno. Si sarebbero dovuti graziare in partenza gli assassini ed,
anzi, liberarne altri, incarcerati per precedenti delitti, in nome della
salvezza di un uomo politico? Con quali effetti sui principi generali della
Giustizia e sul morale delle forze dell´ordine, duramente impegnate
quotidianamente in prima persona? Inoltre riconoscere le Br come interlocutrici
di uno Stato arrendevole non sarebbe servito per fermare la spirale di attentati
che mieteva vittime tra magistrati, poliziotti, insegnanti, giornalisti,
dirigenti politici e sindacali ma solo per avallare, con una conferma clamorosa,
l´allucinato teorema terrorista che presupponeva una riscossa rivoluzionaria
del proletariato, risvegliato dall´azione di una avanguardia armata e
combattente. Una tattica che pur quando adombrò confusamente, durante il
rapimento di Moro, un possibile compromesso riduttivo, quale la liberazione di
qualche carcerato, non preannunciava alcuna rinuncia alla lotta armata ma
continui ricatti per indebolire lo Stato e le istituzioni, demoralizzare l´opinione
pubblica, debellare la capacità di tenuta delle forze politiche. Una conferma
la avemmo anche noi di Repubblica che, sotto la direzione di Eugenio Scalfari,
tenevamo ben salda la linea della fermezza, quando, nel gennaio del 1981, dopo
aver ucciso il generale Galvaligi, i terroristi rapirono il magistrato Giovanni
D´Urso e lo sequestrarono per 21 giorni, annunciando la sua condanna a morte a
meno che il nostro giornale non avesse pubblicato, in prima pagina, un loro
lunghissimo e farneticante proclama, specificando persino le caratteristiche
tipografiche da osservare. Si levò anche in quella occasione il coro dei
propugnatori del cedimento, le tv e radio radicali trasmisero i numeri di
telefono del nostro quotidiano e del domicilio del direttore, invitando i
lettori a chiamare personalmente per ottenere la stampa, infine la disperata
moglie del rapito si rivolse personalmente a Scalfari, sottoposto a una tensione
personale lacerante, per ottenerne il placet. Ma il direttore scrisse un
editoriale in cui, pur confessando di passare ore tra le più angosciose della
sua vita, respingeva il diktat perché, accettandolo, una nuova catena di
ricatti avrebbe avuto inizio e, da allora in poi, avremmo avuto organi di
informazione «requisiti per ragioni umanitarie, a simboleggiare la potenza dei
terroristi e a diffonderne i messaggi». La vicenda fortunatamente si chiuse
bene: le Br si accontentarono di vedere la loro prosa su l´Avanti! e Lotta
continua, malgrado la loro esigua diffusione, e due giorni dopo liberarono D´Urso.
Abbiamo ricordato tutto ciò per dare contezza ai lettori di oggi di quale fosse
l´atmosfera e quali dilemmi allora si ponessero, così che il messaggio
trasmesso dal film di Bellocchio sia inteso in quello che, almeno a nostro
giudizio, ha di buono e di non accettabile. Non solo la corretta interpretazione
del passato ci ha, però, spinto ad esprimere la nostra opinione ma anche il
convincimento che quei dilemmi, anche se con formulazioni in parte diverse, sono
destinati a riprodursi. Il giudizio sul terrorismo, in Italia e nel mondo,
seguita purtroppo ad incombere e sarebbe ipocrita non vedere come, anche oggi,
la risposta resta sovente incerta e titubante, proprio perché si fatica a
coglierne la radice inaccettabile, quali che ne siano le motivazioni: il
massacro di uomini e donne innocenti, assunti come «simbolo» o come strumento
di ricatto, da parte di gruppi politici e religiosi che si immaginano una realtà
illusoria e perseguono deliri di distruzione. Come quei giovani delle Br,
raccontati da Marco Bellocchio.