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QUEL CONFLITTO CHE SOFFOCA LE ISTITUZIONI
EZIO MAURO

 

da Repubblica - 27 febbraio 2003


QUALCOSA di vergognoso, e di assolutamente inedito, è andato in onda ieri, nel programma di occupazione a reti unificate di ogni spazio televisivo da parte di Silvio Berlusconi e della sua maggioranza. Incurante di ogni decenza, della propria dignità istituzionale, delle leggi e delle prerogative dei presidenti delle due Camere, il presidente del Consiglio ha infatti riunito per tre volte in poche ore i vertici del Polo nella sua abitazione privata, per discutere il futuro della Rai. In cinquant´anni di lottizzazione, di qualsiasi colore, credevamo di averle viste tutte. E invece, incredibilmente, un ministro della Repubblica come Umberto Bossi è uscito da quel palazzo annunciando che c´era un accordo sul nuovo Consiglio di amministrazione Rai, i nomi erano pronti ed erano già state prese anche le prime decisioni strategiche dell´azienda, come la conferma dello spostamento di Rai Due a Milano. Il Parlamento si è sentito aggirato e defraudato, ma soprattutto offeso con la violazione patente della legge che assegna ai presidenti delle due Camere il compito di nominare il vertice Rai. Il piccolo, vergognoso e spaventato golpe televisivo del Cavaliere è rimbalzato nelle due aule, finché il presidente Casini (costringendo Pera a seguirlo) ha assicurato formalmente alla Camera che non accetterà diktat e fotocopie. Ma intanto la bulimia di potere berlusconiana, unita ad un disprezzo ignorante delle regole, ha già trasformato la questione televisiva in una questione istituzionale, con uno scontro aperto tra i poteri dello Stato.
Fermiamoci un momento su quel palazzo privato, arredato in brutta copia di palazzo Chigi, come nell´ossessione sudamericana di un ex governante in esilio. Qui dentro, fuori da ogni sede istituzionale, da ogni tradizione della vita politica italiana, da ogni consuetudine di Stato, si gioca ormai gran parte della lunga partita di potere cominciata con la conquista del governo del Cavaliere. È come se Berlusconi, anche dopo la vittoria elettorale che lo consegna alla storia della Repubblica, anche quando può contare su una larga maggioranza in Parlamento, anche mentre il picchetto militare gli rende gli onori del presidente del Consiglio, non riuscisse a trasformarsi compiutamente in un uomo di Stato.

Il conflitto di interessi che soffoca le istituzioni

La sua dimensione precedente - ed eterna - lo cattura, lo definisce e lo imprigiona, insieme con i suoi «amici», con i suoi interessi, con le sue proprietà, con i suoi carichi pendenti e le sue paure. È come se quest´uomo dovesse in qualche modo guardarsi dallo Stato mentre è chiamato a guidarlo. Da qui l´ossessione di occupare ogni spazio, di munire ogni feritoia, di blindare ogni bastione, di trasformare la politica e persino il governo in propaganda permanente, nella concezione davvero «rivoluzionaria» che vede nella vittoria elettorale non la conquista del governo, ma la presa del potere. E da qui, pure, la sensazione che nel berlusconismo tutto è parallelo, anche lo Stato. Come conferma il fatto che mentre lo Stato ufficiale affida a due istituzioni super partes la nomina dei consiglieri Rai, nello Stato parallelo del Cavaliere decide il presidente del Consiglio, a casa sua, dove indecentemente arrivano - appena lui li chiama - ministri della Repubblica, vicepresidenti del Consiglio e segretari di partito.
Sulla porta dello scandalo, ubbidiente agli ordini anche in punto di morte, aspettava il presidente uscente Baldassarre che aveva preannunciato le dimissioni a Pera e Casini, con la riserva (mai vista) di renderle operative solo dopo che fosse stato raggiunto un accordo sul nuovo Consiglio di amministrazione: in pratica, dimettendosi a metà, Baldassarre impediva a Pera e a Casini di pensare ad un nuovo vertice Rai, cioè di esercitare la loro autonomia prevista dalla legge ma pericolosa per il Cavaliere, mentre dava via libera al gioco dei partiti. E a completare l´opera di questo mondo a parte, dove lo Stato non c´entra, travolto dagli interessi privati di un uomo solo, non poteva mancare Maurizio Costanzo: che prima si è offerto inopinatamente come mediatore dell´ultimo pasticcio interno alla Rai tra festival e dopofestival, e poi ha pensato bene di anticipare in una sua trasmissione (sbagliandoli) i nomi dei nuovi consiglieri dell´azienda concorrente, decisi poco prima dal suo datore di lavoro, trasformando una questione istituzionale in uno spettacolo televisivo, naturalmente tra i consigli per gli acquisti.
Fatte le nomine nell´universo extrastatuale di Palazzo Grazioli, certificate dal timbro privato di garanzia Mediaset, finalmente Baldassarre ha potuto prendere atto che istituzionalmente - diciamo così - la sua ora era giunta, e si è dimesso.
Tutto questo quadro è ridicolo, dal punto di vista dell´ossessione che i nuovi potenti hanno per la televisione, scambiandola per la politica e sacrificando ad essa ogni regola, come se fosse l´ultima, moderna ideologia superstite. È suicida dal punto di vista della managerialità, della competitività di una grande azienda culturale sul mercato, degli interessi del Paese. È osceno dal punto di vista della democrazia. Lo spettacolo di ieri, nel suo arrogante dilettantismo, certifica infatti che il conflitto di interessi sta soffocando ogni regola e ogni decenza nella vita politica e istituzionale del nostro Paese, proprio in quel nodo cruciale che è l´informazione e il pluralismo, e che inutilmente il presidente Ciampi continua a sottolineare in ogni suo intervento. Voglio essere più chiaro. La Rai è stata lottizzata selvaggiamente ad ogni cambio di governo e le stagioni del centrosinistra gridano anch´esse vergogna, come tutte le altre nel dopoguerra. Ma qui, siamo in presenza di un´anomalia in più, un´anomalia costituente e connaturata al berlusconismo, che cambia da sola tutto il quadro di riferimento. Il capo del governo, infatti, è proprietario di metà dell´etere, per la prima volta nella storia della politica italiana, e anche per la prima volta in Europa. Controlla dunque per via proprietaria tre reti televisive. È indecente che attraverso il controllo politico si annetta con le tre reti pubbliche la totalità dello spazio tivù, vale a dire il moderno luogo del dibattito e dell´informazione politica, la sede principale della formazione del consenso. Poiché il Cavaliere non intende - con ogni evidenza non intende - risolvere in modo trasparente e definitivo il conflitto di interessi, va evitato un accumulo di potestà televisiva tale da squilibrare il gioco democratico.

Dovrebbe essere lo stesso Berlusconi a sentire questo dovere e a fissare una regola capace di correggere almeno per la questione televisiva l´anomalia del conflitto di interessi. Dovrebbe farlo per rispetto di sé, per liberare se stesso in un gioco aperto di competizione democratica, per dare più forza alla sua vittoria. Non lo farà mai, per le ragioni che dicevamo prima, e perché invece di usare la politica per diventare davvero uomo di Stato, la usa strumentalmente per ridurre lo Stato a sua misura. Tocca dunque ai presidenti delle Camere, che hanno il potere di nomina, e al capo dello Stato, che in questo caso ha come unico potere l´arma nuda della moral suasion, ma che più volte si è mostrato consapevole della stortura rappresentata dal conflitto di interessi. Non ci vuole troppo coraggio, perché è giusto che anche la Rai tenga conto dell´indirizzo politico scelto dagli elettori. Dunque non si tratta di regalarla al nemico. Ma si dia al Paese la sensazione che in questo quadro il vertice non prende ordini dal Cavaliere o da Mediaset: si nomini dunque un presidente di sicura garanzia (ci sono i nomi adatti, da Mieli a De Rita) e poi, invece di credere alla favola indecente di Berlusconi che ripete di non conoscere nemmeno il numero telefonico della Rai, si incominci a non rispondere al telefono. Fingendo per la prima volta che la Rai sia un´azienda.