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La grazia del Cavaliere? Sì
Ogni essere umano vive più vite. E quella di Sofri oggi non merita di essere vissuta tra le mura del carcere di Pisa

di Giampaolo Pansa

 

Adriano Sofri mi è sempre piaciuto poco. Forse perché mi sono imbattuto in lui tanti anni fa, quando era al culmine della sua vicenda politica. Parliamo degli anni Settanta, un'era tragica, segnata dall'emergere del terrorismo rosso e nero. E da un estremismo ideologico e nei comportamenti che avrebbe connotato per sempre più di una generazione.

In quel tempo, Sofri aveva meno di trent'anni (oggi ne ha sessanta giusti), ma mi sembrava un poco più anziano, come un ragazzo che si truccasse da vecchio. Piccolo, smilzo, lo sguardo febbrile, una carica inesauribile di intelligenza gelida che lo rendeva sideralmente lontano dagli altri capi di Lotta continua. Lo trovavo arrogante, gonfio di disprezzo per chi la pensava diverso, spesso pervaso da un odio politico così assoluto da farmi paura. Al tempo stesso, mi appariva tanto doppio e triplo che il mio giudizio su di lui risultava difficile da mettere a fuoco sino in fondo. E tutto si complicava alla luce di quegli occhi freddi o inespressivi, la spia di pensieri quasi tutti cattivi.

Attorno a lui ribolliva il magma di Lotta continua, un piccolo mondo abitato da caratteri e da intelligenze che si sarebbero rivelati compiutamente soltanto negli anni a venire. Erano ragazzi e ragazze spesso del tutto speciali. Dei primi della classe che, per furore politico e spirito di fazione, si erano rinchiusi in un mondo irreale nel quale progettavano costruzioni fantastiche che, alla fine, si sarebbero disfatte e li avrebbero travolti. Ma tutti erano comprimari che pesavano poco al confronto di Sofri. Lui era il monarca assoluto del reame di Lc. L'unico a contare. Il solo a decidere. Un leader dal carisma totale. E anche un giudice inappellabile.

Me ne resi conto di persona per un microscopico incidente che mi capitò nell'estate del 1971. Lotta continua aveva deciso di riunirsi a convegno in una città rischiosa per l'estremismo di sinistra, la placida, compatta e ostile Bologna. «Vai a vedere e racconta quel che succede» mi ordinò Alberto Ronchey, direttore della "Stampa". Obbedii senza entusiasmo. Il congresso vero Lc l'aveva tenuto il 10 e 11 luglio a Pavia. Quella al Palazzetto dello sport di Bologna era soltanto una parata di militanti, più o meno duemila, per ratificare scelte già decise, a cominciare dalla mutazione di Lc in un movimento organizzato, un quasi-partito.

Così, quel sabato 24 luglio entrai presto al Palasport con il mio quaderno e una cartocciata di pesche comprate a un banchetto politico che diffondeva a tutto volume "Il cuore è uno zingaro" cantato da Nicola Di Bari. Mi vide subito un dirigente che conoscevo, Franco Bolis, di Pavia, da poco coordinatore nazionale di Lc con Giorgio Pietrostefani, allora per niente famoso. Dal palco, Bolis mi chiese: «Hai pagato?». Gli risposi di no, che non avevo versato la tassa prevista per la stampa borghese, ma in compenso mi ero comprato tanta della loro carta stampata: opuscoli, giornali, manifesti, cartoline.

Bolis sembrava incline ad accontentarsi dei miei acquisti, pesche comprese. Ma alle sue spalle comparve un robustone per niente cordiale. Ringhiò: «Quella roba non conta. Paga. Devi pagare. Fatelo pagare. Almeno 50 o 100 mila lire» (un quotidiano, allora, costava 90 lire). «Non credo che pagherò» annunciai, piccato. Cominciò una contesa verbale che si trascinò per un pezzo, sino a quando si affacciò dal palco Sofri. Mi guardò ed emise la sentenza su di me: «Io mi sono già espresso su questo qui». Non ci fu Cassazione né legittimo sospetto a salvarmi. Sofri aveva deciso e dovevo alzare i tacchi. Così, venni accompagnato alla porta con ruvida cortesia da un giovanotto in camicia verde e rettangolo rosso (come si vede Umberto Bossi non ha inventato niente).

Quell'episodio da nulla mi ritornò in mente tanti anni dopo, quando emerse lo schema del delitto Calabresi, secondo la confessione del pentito Leonardo Marino: lo stesso Marino che guida l'auto dell'agguato, Ovidio Bompressi che spara, Pietrostefani che organizza l'omicidio e Sofri che dà il suo assenso. Avrà detto a Marino: «Su quel poliziotto mi sono già espresso», o qualcosa di analogo? Non lo so. Ma, a questo punto, per me non conta più molto come siano andate le cose allora. Sono e resto un colpevolista, per usare una parola spiccia. Però...

Il però l'ho già descritto tante volte su queste colonne. Dall'assassinio di Luigi Calabresi sono trascorsi trent'anni e sei mesi. L'Italia di quel tempo non c'è più. Siamo un altro paese, migliore o peggiore non lo so. Anche gli uomini che io penso responsabili di quel delitto non sono più gli stessi. Per di più, soltanto uno di loro, Sofri, sta in carcere. Marino è libero. Bompressi è a casa, ammalato. Pietrostefani è uccel di bosco, a Parigi o chissà dove.

Dunque, un solo problema pesa su di noi o su quel che resta dell'opinione pubblica italiana: Sofri, appunto. Da quando sta in carcere, non ci siamo mai parlati né scritti. Ma ho stampato molte parole su di lui e ho letto le parole che lui stampa su "Repubblica", su "Panorama", sul "Foglio". A poco a poco, il tempo e i suoi scritti me lo hanno reso quasi un amico. Beninteso, è una faccenda che riguarda me, e non lui nei miei confronti. Ma è una faccenda seria che è cominciata quasi dieci anni fa. Quando Sofri, sull'"Unità" di Walter Veltroni, scriveva il suo "Diario" da una Jugoslavia straziata da una pazzesca guerra insieme civile ed etnica.

Voglio dirlo: in ogni puntata di quel diario, l'arrogante, il doppio, il gelido Sofri scoccava una freccia che mi centrava il cuore. E mi faceva sentire quel che ero: un italiano apatico e menefreghista. Che per anni, quattro anni!, aveva cancellato l'orrore del ghetto di Sarajevo, chiudendo gli occhi della pietà e della ribellione. E che non sapeva neppure collocare sulla carta geografica mentale dove fosse Vukovar, e dove Tuzla, e dove Mostar est...

Ogni essere umano vive più vite. Quella di Sofri oggi non merita di essere vissuta tra le mura di un carcere. La grazia è possibile, se non vogliamo continuare a essere una nazione in stivali di ferro, sempre pronta a schiacciare i vinti. Anche il Sofri degli anni Settanta è uno sconfitto. E chi se ne importa se a chiedere la grazia è, buon ultimo, Silvio Berlusconi! Ben venga anche la voce del Cavaliere. Forse ci aiuterà a tirare fuori dal carcere pure i vecchi terroristi rossi e neri che ancora vi stanno.

E a una certa sinistra, la sinistra dei Vattimo e dei Pancho Pardi, che chiede a Sofri di restarsene in prigione, voglio dire: attenti alla vostra faziosità cieca. Rischiate di diventare uguali a quella Lotta continua che, trent'anni fa, costruiva i roghi sui quali si bruciò e scomparve.

21.11.2002

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