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 prof. Piero Schlesinger docente di diritto privato all'Università Cattolica:

Il giudice non è un automa, certe critiche sanno di minaccia

lettera al Corriere della sera 1 febbraio 2003

      Gentile direttore, la registrazione e diffusione per televisione di un breve discorso del presidente del Consiglio, ha acceso forti polemiche. Mi permetto di chiederle ospitalità nel tentativo di avviare, da studioso di diritto, qualche pacata riflessione sulle affermazioni del premier relative a taluni principi giuridici da lui invocati.
          In primo luogo ha affermato che «in una democrazia liberale» sarebbe essenziale che «chi governa per volontà sovrana degli elettori è giudicato, quando è in carica e dirige gli affari di Stato, solo dai suoi pari, dagli eletti del popolo», e che così «succede nel mondo». Le costituzioni delle «democrazie liberali» conoscono, effettivamente, varie forme di «immunità» per parlamentari e governanti: per la verità soprattutto per proteggere i rappresentanti delle minoranze, ma anche, talvolta, per proteggere gli stessi membri del governo dal pericolo di accuse dirette a colpirne la credibilità e l'immagine; e qualche volta, anche se raramente, per sottrarli al «giudice naturale» affidandoli, invece, al giudizio di Corti particolari, di nomina parlamentare, o soltanto per i «reati ministeriali», ovvero con riguardo a qualsiasi tipo di imputazione, quand'anche relativa a fatti anteriori alla nomina.

      Vista la varietà delle soluzioni adottate al riguardo nei vari Stati, però, può senz'altro escludersi che debba considerarsi momento caratterizzante di una «democrazia liberale» la garanzia che «chi governa per volontà sovrana degli elettori» non potrà essere giudicato se non «dai suoi pari».
          In secondo luogo merita attenzione l'affermazione che «chi governa deve essere al riparo dal rischio di persecuzione politica per via giudiziaria». Affermazione sacrosanta, che può e deve essere senz'altro condivisa, ma senza una limitazione soltanto a favore di «chi governa»: è ovvio, infatti, che, in una democrazia liberale, chiunque, e non soltanto chi governa, dovrebbe «essere al riparo dal rischio di persecuzione politica per via giudiziaria». Ma a questo scopo non occorrono particolari privilegi soggettivi, l'intero sistema giudiziario deve essere preordinato ad un obiettivo così importante.
          Forse non sarebbe male trovare qualche strumento atto ad impedire taluni abusi arroganti, che spesso si riscontrano nelle nostre aule giudiziarie: ma in via di principio, di solito, semmai si lamenta che il nostro ordinamento sarebbe perfino eccessivamente «garantista».
          La terza affermazione del presidente del Consiglio («i giudici applicano la legge, non fanno politica») appare scontata ed indiscutibile, ma richiede anch'essa qualche approfondimento. Difatti la cassetta è stata registrata e trasmessa subito dopo una decisione assunta dalla Cassazione a Sezioni Unite, ed è dunque parsa a tutti dovuta ad una reazione dell'on. Berlusconi, nel convincimento che anche quella magistratura - la più alta del Paese - non avrebbe applicato la legge, ma avrebbe viceversa «fatto politica». Ora cosa si debba intendere per «applicazione della legge» è problema delicatissimo: secondo una vecchia concezione (il giudice è «la bocca della legge») ogni disposizione legislativa consentirebbe sempre una ed una sola interpretazione ed applicazione «corretta», meccanicamente ricavabile dal testo della norma. Ma a questa tesi non crede oramai quasi più nessuno. La legge è fatta di parole, le parole sono sempre necessariamente equivoche, di qualsiasi testo sono possibili plurime interpretazioni, tra le quali ogni giudice fa una scelta, necessariamente avvalendosi di elementi che stanno fuori dalla norma (valutazioni storiche, comparatistiche, equitative, sociali, ecc.).
          Dire quindi che - quando un giudice non dà alla questione a lui sottoposta la soluzione che da lui l'interessato si attendeva, e che pur gli pareva l'unica ammissibile - quel giudice non ha applicato la legge e fa politica, significa manifestare una concezione circa il ruolo della magistratura davvero particolarmente arretrata e bisognosa di un intenso bagno culturale.
          L'aspetto più importante del discorso del presidente del Consiglio peraltro, è l'affermazione recisa e fortemente ribadita che «in Italia vi sono correnti politicizzate della magistratura, che esercitano un potere arbitrario e di casta», situazione che «va corretta per il bene del Paese e delle sue istituzioni». Affermazione programmatica poco chiara, specie se si deve ritenere, dato il contesto del discorso, che tra tali correnti «politicizzate» andrebbero annoverate le stesse Sezioni Unite della Cassazione.

      Ogni giudice, al pari di qualsiasi altra persona, è politicizzato, se si intende questo termine nel significato generico di avere delle idee lato sensu «politiche» (e guai se non fosse così, visto che già Aristotele connotava l'uomo proprio per essere «un animale politico»). Ogni giudice - ed anzi qualsiasi persona - non può mai fare a meno, nelle sue scelte, di portare l'influenza della sua mentalità, della sua cultura, delle sue preferenze ideologiche: sognare un magistrato che svolga il suo compito riuscendo ad astrarsi da quanto lo caratterizza come individuo, significa perseguire irrealizzabili utopie. Nessuno, giudice o altro, potrebbe mai trasformarsi in un automa.
          Parlare di correnti politicizzate, allora, fa pensare che si voglia accennare a vere e proprie organizzazioni, riservate a determinati gruppi di giudici, che segretamente concordano concreti programmi politici e tentano di realizzarli utilizzando illegittimamente i loro poteri. Ma dell'effettiva esistenza di organizzazioni di questo tipo per fortuna manca qualsiasi, non dico prova, ma anche semplice indizio.
          Cosicché in qual modo si dovrebbe reagire per «correggere» la situazione italiana rimane del tutto indefinito, con un vago sapore di minaccia, che non può non lasciare a disagio e preoccupati.