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La Stampa 18-06-2006

 
L’Opa politica sulla Costituzione
 
Barbara Spinelli
 
Se tre Presidenti della Repubblica hanno parlato della Costituzione italiana con parole che rimandano al sacro - Oscar Luigi Scalfaro la ricorda come resurrezione civile, Carlo Azeglio Ciampi la chiama sua Bibbia laica, Giorgio Napolitano la paragona alla mosaica tavola dei valori e dei principi in cui riconoscersi - vuol dire che c’è qualcosa di essenziale, nella scelta che gli italiani compiranno il 25-26 giugno quando approveranno o respingeranno la riforma costituzionale varata dalla precedente maggioranza. Secondo alcuni si tratta di scegliere tra il vecchio e il nuovo, fra conservazione e modernità. Altri hanno l’occhio fisso sui futuri negoziati tra partiti, e danno al voto un valore puramente strumentale: c’è chi sostiene che il No faciliterà la ripresa di trattative bicamerali, e chi invece ritiene che solo il Sì la permetterà. Difficile sapere esattamente dove stia la verità, ma non è questa l’essenza su cui saremo chiamati a pronunciarci.
L’essenza su cui voteremo è la natura non immediatamente politica della carta costituzionale: il suo esistere e durare a dispetto dei governi che passano, delle maggioranze che prendono il sopravvento, del voto che porta al potere queste maggioranze, della morte che naturalmente caratterizza il loro destino e sempre sta loro allato. Nell’aureo libretto che ha scritto sulla Corte Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky sottolinea proprio questo punto, pur non negando affatto che la Costituzione e la Corte siano anch’esse figure del vivere politico.

 

Ma lo sono in modo radicalmente diverso, distinto dalla politica che si fa tutti i giorni in Parlamento, nei partiti, e a intervalli regolari nelle urne. La prima politica, quella della Carta, fonda il pactum societatis: il patto fra cittadini, le condizioni istituzionali che consentono loro di non perire in guerre civili, la fiducia che le norme saranno rispettate da tutti. Esso presuppone l’adesione a regole condivise. La seconda politica è il pactum subjectionis: essa produce il governo, e ha al suo centro la forza (Zagrebelsky, Principî e voti, Einaudi 2005).

 

La Costituzione ritaglia nella democrazia uno spazio sacro che protegge la cosa pubblica dalla contingenza e non a caso predispone argini contro il prevalere del numero, contro il dispotismo potenziale d’ogni maggioranza. È fin da principio che Dio dice a Mosè: «Non seguirai la maggioranza per agire male e non deporrai in processo per deviare verso la maggioranza, per falsare la giustizia. Non favorirai nemmeno il debole nel suo processo» (Esodo 23: 2-3). Quel che Zagrebelsky scrive a proposito della Consulta vale per la Costituzione: la sua funzione «è politica, ma allo stesso tempo non appartiene alla politica; è essenziale al nostro modo d’intendere la democrazia, ma allo stesso tempo non viene dalla democrazia». In democrazia sono cruciali il numero, la maggioranza. Nella Costituzione il numero non è tutto: le sue leggi valgono quale che sia il numero dei vincenti, e protegge dall’annientamento i perdenti. Sulla Costituzione «non si vota». I suoi principi «non dipendono dall’esito di nessuna votazione».

Precisamente su quest’essenza voteremo: sull’opportunità o no di sottrarre la Costituzione alle peripezie della politica intesa come governo e come forza basata sui numeri. Sull’opportunità o no di restringere lo spazio sempre più grande, soffocante, che la seconda politica rischia di prendere nella vita dei cittadini e nel loro patto di convivenza. Sul principio che quando è in gioco la Carta non si vota, e in ogni caso non si delibera nei modi in cui ordinariamente si vota in democrazia: a maggioranza. Per questo la scelta non è tra innovazione e conservazione. Non è il vecchio che vale la pena conservare né l’immutabilità d’un ordine, ma l’idea che debbano esistere regole e patti le cui tradizioni e i cui tempi non coincidono con quelli di partiti, governi, programmi.

Quello che si tratta di salvare o non salvare è il corpo duraturo, metafisico, non transeunte del re. I re passano, e ciascuno di essi preso individualmente è mortale e triste - ha «occhi pieni di lacrime», subisce usurpazioni e quando precipita non può che «parlare di tombe, di vermi e di epitaffi», dicono i re spodestati nel ciclo delle Guerra delle Rose di Shakespeare. Quel che non cambia di contro è la Corona, è la regalità: acquisite in tempi passati per elezione divina, incarnate nel pactum societatis a partire dal giorno in cui il diritto divino venne meno. I due corpi del re vanno tenuti disgiunti, perché resti vivo l’inaugurale patto che dissuade dalla guerra di tutti contro tutti, e che fonda un rapporto non effimero, non continuamente modificabile, fra i cittadini e chi li comanda. Nella ricostruzione di Ernst Kantorowicz la Corona è il corpo mistico e immortale del re, ha un carattere sacramentale e indelebile (character indelebilis), non ha i naturali difetti che possiede il monarca: a seconda dei due corpi sono diversi gli onori, il tempo, la natura della forza, l’idea di ciò che è privato e di ciò che è pubblico (I due corpi del Re, Einaudi 1989).

La modernità democratica mostra ogni giorno di non poter fare a meno di queste categorie. Le rivoluzioni stesse sono state negli ultimi secoli stratagemmi cruenti per restaurare il corpo mistico di re che avevano perso la regalità, e che avevano fuso quel che non andava fuso (i due corpi, il privato e il pubblico). Anche i tumulti hanno spesso quest’obiettivo inconfessato. Nel ’68 tutto era votato a negazione, distruzione. Nel Policlinico a Roma ogni cosa venne imbrattata, disfatta: pareti, mobili, autorità. Una sola cosa gli studenti non toccarono mai, misteriosamente: il busto di Umberto I che sta a metà scalinata all’ingresso della direzione dell’ospedale. Il corpus indelebilis doveva restare tale. Sulla corona «non si vota», come non si vota sulla Costituzione.

Può sembrare un paradosso ma proprio su questo voteremo: se sia lecito votare, sulla Costituzione. Se bastino i numeri e le maggioranze tipiche delle democrazie, per riscriverla senza violare magari la lettera della Carta, ma violando di sicuro l’etica istituzionale che l’impregna. Se l’ultima riforma risponda all’esigenza della prima politica o della seconda, se sia il risultato d’una adesione o d’una prova di forza. Per il modo in cui è stata imposta contro la minoranza sembrerebbe che il corpo mistico sia stato offeso, gravemente, anche se l’offesa non è nuova.

Già prima di Bossi e Berlusconi fu un governo di sinistra a imporre modifiche unilaterali, riformando nel 2001 il titolo V della Carta con la sola forza dei propri numeri, e in fine legislatura. Quella fu la prima rottura, irresponsabile; quella la breccia attraverso cui poi ha fatto irruzione Berlusconi. Quel che venne dopo fu una riscrittura ben più sostanziale (non qualche paragrafo ma ben 52 articoli, cui se ne aggiungono 3 nuovi), ma è con piccole smagliature che l’etica istituzionale comincia ad alterarsi. Tanto più che nella riforma del 2005 non mancano correttivi - è lo stesso Augusto Barbera, costituzionalista Ds, a dirlo - che son stati introdotti «per rimediare ai pericoli per l’unità nazionale del federalismo sgangherato del Titolo V dell’Ulivo»: è il caso della clausola sull’interesse nazionale, che può esser invocato per far valere le ragioni dello Stato unitario in caso di crisi di competenze.

Tuttavia non è questo il punto: non è la bontà o malvagità di singoli paragrafi, anche se i paragrafi malvagi sono davvero numerosi. Quel che insidia la Costituzione è l’Opa che vien lanciata su di essa dalla politica, dai partiti, non per ultimo dalle Regioni. Altri modi di mutarla ci devono pur essere, basati sul consenso non di una maggioranza - di parlamentari o Regioni - ma su alleanze ampie almeno quanto fu ampio l’arco costituzionale. Quel che mina la Carta sono le molte bicamerali non sempre trasparenti, che hanno preceduto il finale colpo di forza di Berlusconi. La minoranza di sinistra presentò nel settembre 2003 un suo disegno di legge (i relatori erano Villoni e Bassanini), proponendo alla maggioranza un testo comune, ma quest’ultima la respinse perché ormai voleva una Costituzione nata dalla sola forza dei numeri: una Costituzione non costituzionale, dicono alcuni. È così che ha prevalso il corpo naturale e mortale del re, sulla regalità dell’istituzione che lo trascende perché gli sopravvive. Il corpo naturale s’è impossessato del secondo corpo, ha deciso di far tutt’uno con esso, e lo ha stritolato. Tutti i punti contestati discendono da questa volontà: il potere assoluto dato al primo ministro, il depotenziamento e l’abolizione di un’enorme quantità di contrappesi (presidenza della Repubblica, opposizione, Parlamento), la politicizzazione della Corte Costituzionale (le nomine politiche aumentano rispetto a quelle non politiche). Discende da questa volontà anche il potere esclusivo dato alle Regioni in materie come scuola, polizia, sanità, cultura. Il giurista Andrea Manzella ricorda come i poteri esclusivi siano assurdi, in una Carta destinata a intrecciarsi con future costituzioni europee e con l’esigenza (già presente nel nostro profetico articolo 11) di superare i poteri sovrani assoluti dello Stato nazione. Certo è importante che la Costituzione si adatti a un ordinamento mutato, dove la scelta del governo è ormai nelle mani dei cittadini anziché del Parlamento. Il referendum che introdusse il maggioritario, nel 1993, prolungò discussioni già iniziate negli Anni 80. Ma qui siamo di fronte a un patologico accanimento terapeutico, come scrive Luciano Vandelli in Psicopatologia delle riforme quotidiane (il Mulino 2006): siamo di fronte a riforme ciclotimiche, che - come la devoluzione - oscillano tra frenesie e lunghe indolenze; a riforme autistiche, elaborate da un legislatore che è stato indifferente a ogni critica e stimolo esterno; a riforme schizofreniche, che predicano il decentramento e praticano l’accentramento massimo dei poteri del Premier.

La Costituzione sarà cambiata ma - si spera - con metodi diversi da quelli adottati dalla sinistra e poi, con decuplicata faziosità giacobina, dalla destra. Si spiega così, forse, il tiepido impegno del nuovo governo in una campagna referendaria che pure concerne l’essenza del rapporto fra cittadini e potere. Si spera che la Carta cambi non in segrete baite montane come ai tempi di Berlusconi, non in esoteriche bicamerali dove solo conta il rapporto di forza tra partiti: ma all’aperto, sapendo che in discussione è il patto della società, è il corpo non transeunte della cosa pubblica, è la regola di Montesquieu riguardante i contropoteri («È necessario, perché non ci sia abuso di potere, che il potere arresti il potere»). Questo è il sacro che conviene salvare: non la politica alta rispetto alla bassa, ma la sussistenza di due politiche, ciascuna con tempi e aspirazioni differenti. Questa è la dissacrazione (la de-regalizzazione, dice Kantorowicz) cui non sarà irragionevole dire no.