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L’intervento
Un dovere patriottico
Oscar Luigi Scalfaro
 

  da l'Unità - 17 novembre 2005


Ho sperato che non si arrivasse a questo voto, ma la volontà di approvare una riforma purchessia ha prevalso. Di fronte al voto della sola maggioranza di Governo ripenso ai 556 eletti il 2 giugno 1946 e all’approvazione della Costituzione del dicembre 1947 con soli 62 «no». I dati parlano da soli.
Osservo: l’articolo 138, concernente la procedura per la revisione della Costituzione, non ritengo possa contenere questo stravolgimento dei connotati della nostra Carta costituzionale.
Oggi il Parlamento è la colonna portante dell’intero edificio costituzionale, ma qui si vota un Parlamento mortificato.

Così si mortifica il Parlamento

Sia nei rapporti con il Governo, sia per la spada di Damocle sul capo dei parlamentari dato che il potere di scioglimento passa dal Presidente della Repubblica al Primo ministro, che ne è l'esclusivo responsabile. Quindi, un Capo dello Stato inutile e fantasma, chiamato garante della Costituzione: ma come e con che poteri può essere garante?
Ancora, lo strapotere delle Regioni, specie in materia di sanità e scuola, che calpesta l'articolo 5 della Carta: «Repubblica, una e indivisibile». Constatiamo: questa cosiddetta riforma è del tutto inemendabile.
Il «no», quindi, è dovere civile e patriottico. Con il «no» l'appello ai cittadini, perché dipende da ciascuno di noi che la Costituzione, costata tanto sacrificio e tanto sangue, non sia travolta nei suoi princìpi e nei suoi valori, ancora oggi così vivi e così attuali.
Oscar Luigi Scalfaro


La legge
Uccidono l’Italia unita
Agazio Loiero

Si approva la devolution ed è il trionfo dell’egoismo, il colpo di spugna all’Italia del primo e del secondo Risorgimento, la ratifica di quell’oscuro e segreto patto tra Berlusconi e Bossi che cena dopo cena - consumata ad Arcore rigorosamente di lunedì - ha retto bene in questi anni.
Anche Fini, che, insieme a Follini, soffriva quelle “feste de noantri”, dopo una lunghissima meditazione, ha deciso qualche giorno fa di convertirsi alla corte di Gemonio. «Un atto dovuto», ha commentato in forma criptica. Non si capisce se all’unità nazionale o alle sue ambizioni di diventare premier.
Si approva un testo costituzionale che stravolge i principi fondanti dell’unità del Paese.

Quei principi - solidarietà e uguaglianza - contenuti nella prima parte della Costituzione che erano apparsi fino ad oggi intangibili.
Un giorno amaro, dunque, dovuto più agli algidi numeri della democrazia che al sentimento vero della maggioranza dell’Aula, giocati peraltro in coda alla legislatura quando la mente dei parlamentari è volta alle insidie della ricandidatura. Sono certo che, attraverso lo strumento del referendum, saranno gli italiani a cancellare questa parentesi buia della nostra vita associata. Perché, come ha ricordato un paio di anni fa Leopoldo Elia a Milano, costretto a diventare, su questo tema, all'improvviso rivoluzionario, «il Parlamento è solo la penultima istanza. L'ultima è rappresentata dal voto dei cittadini». C'è poi da rilevare un fatto curioso. La maggioranza, nel tentativo di scongiurare un esito elettorale disastroso, sta tentando di incastonare il referendum tra un tour de force elettorale e la stagione delle vacanze. L'obiettivo è la diserzione delle urne. Penso invece che sia del tutto inutile arzigogolare. Il centrodestra potrà costruire tutte le strategie del mondo ma voglio ricordare che il referendum confermativo è privo di quorum. Gli italiani, pertanto nel migliore dei casi, si divideranno tra quelli risoluti ad abbattere il testo costituzionale e quelli divorati da mille dubbi che sono in prevalenza nel centrodestra. Le paure, gli umori degli italiani sono quello che sono. Difficile immaginare che i meridionali, anche quelli che votano Berlusconi, comprerebbero una macchina usata da Bossi o da Calderoli. D'altra parte, un giornale autorevole come Il Corriere della Sera, che esce a Milano, nel cuore dell'immaginaria Padania leghista, ha bene interpretato il sentimento di unità nazionale se è arrivato, all'epoca della seconda lettura, a titolare in prima pagina: «La Patria perduta». Una frase breve, malinconica che evoca memorie risorgimentali e che comunque non compariva su quel giornale probabilmente dai tempi della disfatta di Caporetto. La verità è che con la devolution - venga o non venga approvata dagli elettori - muore un modo d'essere degli italiani e muore l'idea stessa di unità nazionale per la quale si sono battute lungo l'arco dei secoli generazioni di italiani. La conseguenza più grave è infatti di ordine psicologico. Essa inciderà profondamente nel modello di convivenza civile del nostro paese. Alcuni capisaldi della nostra cultura costituzionale, con cui siamo convissuti, saranno comunque spazzati via dalla nostra vita, persino dal nostro linguaggio. E sarà sancita ufficialmente l'esistenza di tanti territori a diverse velocità. Di quell'Italia unita sognata nel tempo da Dante a Manzoni, molto prima del 1861, non resterà più nulla. Neanche il ricordo. Quella lettera che campeggia nello studio di Ciampi al Quirinale, in cui si proclama l'Italia unita, libera e indipendente, spedita da Cavour a D'Azeglio, circa 150 anni fa, dovrà essere strappata in fretta perché ormai priva di senso.