Www.segnalo.it

HOME PAGE

FORMAZIONE    

BIBLIOTECA / CINETECA   

POLITICHE / LEGGI    

TRACCE / SENTIERI

Alessandro Pizzorusso 

Il valore della Costituzione nell’Italia del 2005 

(testo riveduto di una conversazione tenuta presso l’Associazione culturale “Il Ponte” di Empoli)

Segnalato da: A.R.I.F.S. onlus - Casella Postale 103 - 25100 Brescia Tel. 00 39 348

5178633 - Fax 00 39 030 3757341 E-mail: arifs@arifs.it - Sito Internet:

http://www.arifs.it

1. La nozione di costituzione che oggi comunemente utilizziamo ha qualche importante precedente già nell’antichità classica, ma taluni dei risultati che furono allora raggiunti nel campo della scienza politica furono poi perduti (e poi temporaneamente ritrovati e riperduti) nel corso dei secoli che seguirono. La nozione moderna di costituzione si è venuta invece precisando più stabilmente nel corso degli ultimi quattro secoli, con la rivendicazione della dignità e della libertà della persona nell’Inghilterra del XVII secolo, con l’idea della separazione dei poteri nella Francia del XVIII (e poi negli Stati uniti, con la costituzione del 1787 e l’affermazione del judicial review of legislation nel 1803), e con la diffusione della rappresentanza politica, del principio democratico e del principio di eguaglianza, in vari paesi, a partire dalla rivoluzione francese.

Nel corso del XIX secolo, i principi affermatisi con l’Illuminismo vennero gradualmente prevalendo, soprattutto in Europa, nei confronti delle idee su cui basavano le monarchie assolute che avevano governato in precedenza e, nel corso del XX, essi si imposero nei confronti delle nuove forme di autoritarismo che si erano venute contrapponendo ad essi (la seconda guerra mondiale portò al crollo degli ordinamenti di tipo nazista e fascista; mentre le dittature militari che si erano affermate soprattutto in molti paesi dell’America latina nel periodo successivo, il regime dell’apartheid in Sudafrica e gli ordinamenti di tipo sovietico furono rovesciati senza grandi spargimenti di sangue). Nello stesso periodo lo sviluppo delle dottrine socialiste portò alla rivendicazione di nuove categorie di diritti, detti per lo più “diritti sociali”, che gradualmente si affiancarono ai diritti “civili e politici” individuati nella fase precedente, mentre è proprio dell’epoca più recente lo sviluppo dei cosi detti “diritti della terza generazione”, come il diritto all’ambiente, alla casa, ecc., peraltro esercitabili con modalità diverse rispetto a quelli precedentemente affermatisi. Donde l’assestamento della nozione di “diritti fondamentali” come nucleo essenziale della tutela giuridica della persona umana.

            Il complesso di principi che formano quello che viene generalmente chiamato il “costituzionalismo” venne così diffondendosi e la relativa nozione si venne precisando in quella rivendicazione dei principi della democrazia liberale e sociale che oggi è ritenuta la forma di organizzazione dei pubblici poteri più adatta a combinare la tutela dei diritti della persona con un’efficiente gestione dei pubblici poteri. Anche se l’attuazione dei principi del costituzionalismo è stata realizzata nei vari paesi con modalità più o meno incomplete (e in taluni paesi è ancora di la da venire), può dirsi che agli albori del terzo millennio l’aspirazione alla realizzazione di tali principi, pur se con modalità eventualmente diverse nelle varie aree del pianeta, è generalmente considerata in tutto il mondo come un obiettivo da perseguire in vista della realizzazione di un migliore assetto dei rapporti civili, politici e sociali.

            In base a questa impostazione, la parola “costituzione” ha assunto il significato di un documento – o di un complesso di precetti ricavabili da una pluralità di fonti – nel quale si riassumono i principi dell’ordinamento giuridico di un paese. E’ da notare però che il termine può essere impiegato in due significati diversi. Da un punto di vista strettamente giuridico, infatti, ogni paese dotato di un’organizzazione politica ha una “costituzione” (“formale”, ove risultante da un concreto documento, o “materiale”, ove composta di principi eventualmente anche non scritti), indipendentemente dal fatto che essa sia conforme o meno ai principi del costituzionalismo. Secondo questi principi, invece, ha una costituzione soltanto un paese il cui ordinamento risponde ai principi della democrazia liberale e sociale. Questa formula riassuntiva corrisponde all’impostazione che era alla base dell’art.16 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino che fu approvata in Francia nel 1789, ove si legge che “una società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione”. Se assumiamo la nozione di costituzione in un senso meramente tecnico questa affermazione è evidentemente inesatta, poiché giuridicamente anche un ordinamento autoritario ha una costituzione, ma un tale ordinamento non ha una costituzione corrispondente ai principi del costituzionalismo, cioè della democrazia moderna, E questa seconda nozione di costituzione è quella cui si deve avere riguardo quando si compie una valutazione, non puramente giuridica, ma anche politica di una determinata situazione.

            E’ da notare anche che lo sviluppo che ha portato all’affermazione del costituzionalismo ha avuto uno sviluppo parzialmente diverso, in Europa e negli Stati uniti. In quest’ultimo paese, dove, una volta vinta la guerra d’indipendenza nei confronti della potenza coloniale, non esisteva un ancien régime cui sostituire nuove regole della convivenza, i principi del costituzionalismo trovarono applicazione sulla base dell’idea che la costituzione fosse una “legge superiore” (higher law), la cui osservanza poteva essere richiesta anche mediante un normale ricorso ad un giudice e il potere giudiziario si affermò quindi come garante dei diritti sulla base della doverosa applicazione della legge (rule of law). In Europa, invece, nel corso del XIX secolo e della prima parte del XX, la protezione dei principi del costituzionalismo fu ritenuta piuttosto di competenza dei parlamenti, considerandosi la costituzione più come un documento politico che come un testo giuridico. Le esperienze compiute nella prima metà del XX secolo, quando personaggi come Hitler o Mussolini, riuscirono a conquistare il potere assoluto anche mediante l’uso demagogico delle opportunità loro offerte dagli istituti propri della democrazia, indussero però molti paesi ad adottare forme di garanzia della costituzione ispirate al modello americano, a cominciare dal controllo di costituzionalità della legge, e ciò fece si che anche in Europa le costituzioni assumessero sempre più spesso il valore di un documento giuridico.

 

            2. L’evoluzione italiana ha seguito quella europea, incontrando molte difficoltà dovute all’arretratezza economica e culturale del paese, nonché alla sua divisione fra una pluralità di stati. Dopo il periodo di influenza francese che, all’indomani della rivoluzione d’oltralpe, portò all’adozione anche in Italia di effimeri regimi ispirati ai principi rivendicati in seguito ad essa, la Restaurazione dei monarchi assoluti portò, negli stati riordinati dal Congresso di Vienna, ad un generale ritorno ai principi dell’ancien régime. Contro tale assetto si rivolsero i moti risorgimentali, i quali aspiravano, oltre che all’unità ed all’indipendenza del paese, anche all’instaurazione di un regime “costituzionale”. Nel corso di tali moti, infatti, venne spesso richiesta l’applicazione della “costituzione di Spagna”, cioè del documento adottato a Cadice nel 1812 e rimasto per breve tempo in vigore in quel paese, che si ispirava ai principi del costituzionalismo inglese.

            Come è noto, l’iniziative che fra queste ebbe maggiore successo fu quella che portò, in Piemonte, alla promulgazione dello Statuto albertino del 1848 il quale, pur conservando al Re gran parte dei suoi poteri, gli contrapponeva una Camera elettiva dotata di potestà legislativa e riconosceva ai cittadini un complesso di diritti. La forma di governo che la lettera dello Statuto prevedeva però era conforme all’impostazione propria delle costituzioni della Restaurazione (e in particolare di quella francese e di quella belga) e seguiva quindi i principi propri della forma di governo detta “monarchia costituzionale pura”, che lasciava poco spazio agli istituti della democrazia. Nella pratica, tuttavia, lo Statuto fu applicato (in virtù delle così dette “modificazioni tacite”) come se adottasse i principi vigenti in Gran Bretagna, cioè come se prevedesse una “monarchia parlamentare”. Principalmente, ciò comportava una riduzione dei poteri del Re, con trasferimento della maggior parte di essi al suo “Governo”, e l’obbligo di quest’ultimo di conseguire la “fiducia” della camera elettiva e di dimettersi in caso di “sfiducia”.

            Lo Statuto albertino fu conservato in vigore nonostante la sconfitta subita dal Piemonte nella prima guerra d’indipendenza e fu esteso all’intero Regno d’Italia all’indomani delle successive vicende che portarono alla proclamazione dell’indipendenza. Questa soluzione rappresentò un compromesso fra le proposte dei moderati, i quali si facevano forti del diffuso timore che soluzioni più avanzate sul piano dell’attuazione dei principi del costituzionalismo potessero mettere in pericolo l’unità e l’indipendenza così faticosamente raggiunte, e quelle dei progressisti, i quali avrebbero voluto che fosse convocata un’assemblea costituente per dare al paese una nuova costituzione più aderente a tali principi. Lo spirito di questo compromesso è efficacemente espresso dalla formula che individuava il fondamento del potere del monarca, al tempo stesso, nella “grazia di Dio” e nella “volontà della Nazione”, unendo così l’antica legittimità fondata sull’investitura ereditaria (e divina) con la nuova fondata sulla sovranità popolare.

            Per qualche tempo il debole compromesso così raggiunto funzionò abbastanza bene, permettendo un certo consolidamento del nuovo Stato, ma già negli anni di fine secolo XIX si sviluppò una grave crisi costituzionale, nel corso della quale venne rivendicato (in un celebre articolo di Sidney Sonnino) un “ritorno allo Statuto” che avrebbe significato, quanto meno, il regresso ad una forma di governo costituzionale puro. La crisi fu superata ma lasciò strascichi i quali portarono a nuove e più gravi difficoltà in occasione della decisione relativa all’entrata in guerra nel 1915 e soprattutto nel dopoguerra. A seguito di una lunga serie di errori, ciò portò all’avvento del fascismo ed all’instaurazione di un regime autoritario, gradualmente trasformatosi nella dittatura personale di un avventuriero.

            La partecipazione dell’Italia alla seconda guerra mondiale come alleato della Germania nazista (e poi anche del Giappone) si concretò nella dichiarazione di guerra da parte nostra alla Francia, alla Gran Bretagna, alla Grecia, alla Jugoslavia, all’Unione sovietica, agli Stati uniti d’America ed a molti altri stati. Ove si considerino le condizioni economiche ed organizzative del paese, non può sorprendere che, per gli italiani, ne derivassero lutti, sofferenze e devastazioni. Ben si comprende pertanto come, all’indomani della fine della guerra, gli orientamenti politici dominanti in Italia fossero espressi da un gruppo di partiti, riuniti nel “Comitato di liberazione nazionale”, i quali auspicavano la realizzazione di un ordinamento ispirato ai principi del costituzionalismo, non solo attraverso l’eliminazione delle istituzioni introdotte dal regime fascista, nel quale giustamente vedevano la causa delle sventure nazionali, ma tale da rappresentare, anche rispetto all’ordinamento precedente al fascismo, un avanzamento verso i principi democratici ed in particolare verso un maggiore riconoscimento dei diritti civili, politici e sociali della persona umana.

            In attuazione di taluni dei progetti che non avevano potuto essere realizzati nel corso del Risorgimento, si ebbe così il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, mediante il quale gli italiani si pronunciarono per la forma di governo repubblicana, e l’elezione, in quello stesso giorno, di una Assemblea costituente, incaricata di scrivere una nuova Costituzione, capace di realizzare finalmente i principi di un ordinamento democratico moderno. Così avvenne e il 1° gennaio 1948 la Costituzione repubblicana entrò in vigore, compiendo così il ciclo iniziato con i moti risorgimentali.

 

            3. Il documento approvato il 22 dicembre 1947 da una larghissima maggioranza, in una situazione di unità morale del paese quale non si era mai realizzata in precedenza, contiene un ampio catalogo di diritti di libertà (enunciati nei 54 articoli che formano la prima parte di essa, compresi i 12 dedicati ai “principi fondamentali”) ed un complesso di norme organizzative che attribuiscono a questo documento il carattere di costituzione “rigida” (cioè modificabile soltanto con una procedura, regolata dall’art.138, più complessa di quella prevista per le leggi “ordinarie”) e protetta mediante il controllo di costituzionalità delle leggi affidato ad una “corte costituzionale”. La Costituzione prevede una forma di governo parlamentare, nell’ambito della quale il Presidente della Repubblica assume un ruolo neutrale rispetto alle diverse forze politiche, con poteri limitati a funzioni qualificabili prevalentemente come di garanzia del corretto funzionamento delle istituzioni, mentre le due Camere del Parlamento, ambedue elettive, esercitano la funzione legislativa e quella di controllo politico sul Governo, e quest’ultimo è titolare del potere esecutivo. La Costituzione non regola esplicitamente il sistema elettorale, ma un ordine del giorno approvato dall’Assemblea costituente auspicò l’adozione della rappresentanza proporzionale e il testo della Costituzione in talune sue parti chiaramente la presuppone. E’ inoltre stabilito un sistema di autonomie regionali e locali, cui sono assegnate funzioni amministrative e (alle regioni) anche legislative. E’ garantita infine, con profonde innovazioni sull’ordinamento anteriore, l’indipendenza della Magistratura in attuazione del principio di legalità.

            Non è il caso di addentrarsi qui in un’analisi più dettagliata del testo della Costituzione; basterà dire che esso offre un’interpretazione moderna ed equilibrata del costituzionalismo quale risulta, sia dalla fondamentale rivendicazione dei diritti di libertà posta fin dalle celebri Carte inglesi precedenti la rivoluzione francese, sia dall’affermazione dell’eguaglianza sviluppatasi nel corso di questa e successivamente precisata con lo sviluppo delle dottrine socialiste, sia da tutta una serie di principi più specifici (dal pluralismo istituzionale all’internazionalismo, ecc.).

 

            4. L’attuazione della Costituzione comportava la necessità di una vasta riscrittura della legislazione ordinaria, nonché una capillare penetrazione dei principi su cui essa si fondava nelle coscienze dei cittadini, la cui educazione civica era avvenuta sotto regimi ben diversamente orientati. Per quanto riguarda la legislazione ordinaria, al momento della determinazione dei compiti dell’Assemblea costituente, nella primavera del 1946, le forze politiche antifasciste avevano convenuto sull’opportunità che questa si dedicasse essenzialmente alla redazione della Costituzione, senza lasciarsene distrarre dalle riforme legislative che avrebbero comportato un ingente lavoro. Salvo che per talune riforme urgenti (come, ad esempio, l’abolizione delle leggi razziali), la revisione della legislazione ordinaria fu così demandata al Parlamento che sarebbe stato eletto in base alla nuova Costituzione. Ma quando tale Parlamento poté riunirsi, nel maggio 1948, la situazione di concordia che si era realizzata all’indomani della Liberazione del paese dal nazi-fascismo era venuta meno a causa del sopravvenire della “guerra fredda” che vedeva schierati l’uno contro l’altro, gli Stati uniti e l’Unione sovietica ed i rispettivi alleati e che aveva importanti ripercussioni anche sulla politica italiana, nell’ambito della quale due schieramenti si erano aspramente contrapposti già in occasione delle elezioni del 18 aprile 1948.

            In questa situazione, l’attuazione dei principi costituzionali risultò molto più difficile di quanto fosse stato previsto e, in una prima fase, gran parte dei nuovi istituti che i costituenti avevano concepito (la Corte costituzionale, il Consiglio superiore della Magistratura, le Regioni, ecc.) rimasero sulla carta. Fu solo con l’evoluzione della situazione politica che si ebbe verso la fine degli anni ’50 e poi soprattutto negli anni ’60 e ’70 che la Costituzione cominciò a trovare più frequentemente applicazione e ciò fu favorito in particolare dall’inizio dell’attività della Corte costituzionale, avvenuta nel 1956, che portò alla dichiarazione di incostituzionalità (e quindi all’eliminazione) di gran parte delle leggi più caratteristiche del precedente ordinamento. In questo modo, il Parlamento, che non era stato capace di procedere alla loro riforma, si trovò costretto a sostituirle con nuove leggi, per lo più maggiormente ispirate ai principi costituzionali.

            In virtù di un complesso lavorio, che impegnò per decenni le istituzioni e le forze politiche, l’ordinamento legislativo venne ampiamente riformato, seppur non senza difficoltà, e intorno agli anni ’80 il lavoro necessario per dotare il nostro paese di leggi conformi ai principi del costituzionalismo ed altresì adeguate all’evoluzione dei tempi moderni poteva dirsi, se non concluso, quanto meno assai avanzato. Ad ostacolarlo avevano giocato un ruolo di rilievo, non soltanto tutto un complesso di fattori di arretratezza culturale che rappresentavano una conseguenza dei ritardi accumulati nei secoli passati, ma anche nuovi fattori di divisioni, fra i quali si doveva annoverare l’abnorme sviluppo della criminalità (particolarmente elevato per un paese europeo), l’emergere di movimenti terroristici (peraltro sgominati pur se con qualche difficoltà) e l’apparire di una serie di vicende più misteriose, generalmente ricondotte alla nozione di “strategia della tensione”, nelle quali era chiaramente leggibile un tentativo di sovvertire l’ordinamento costituzionale in vista della restaurazione di un regime autoritario.

            Occorre aggiungere che, nei decenni in cui si ebbe un’evoluzione del paese, tutto sommato positiva, che lo indirizzò verso un più alto livello di sviluppo economico e verso un assetto politico e civile più vicino agli standards delle grandi democrazie, risultò tuttavia assolutamente insufficiente l’opera di educazione delle nuove generazioni che favorisse una loro piena adesione ai principi del costituzionalismo. Il vecchio sistema scolastico che, pur essendo chiaramente inadeguato alla ormai inevitabile partecipazione delle masse alla vita del paese in condizioni di maggiore eguaglianza di diritti, forniva almeno un’élite di buon livello culturale, fu lasciato deteriorarsi senza riuscire ad adattarlo alle nuove esigenze.

 

            5. Tornando alla Costituzione bisogna dire che, nel corso degli anni, era emersa sempre di più l’importanza della funzione che essa era venuta svolgendo, sia come parametro cui riferirsi per la revisione degli ordinamenti legislativi ereditati dai precedenti regimi, sia come punto di riferimento cui guardare per la determinazione delle nuove leggi che avrebbero dovuto sostituirli. In questa funzione, manifestata tanto attraverso le pronunce della Corte costituzionale, quanto nelle decisioni, spesso da esse ispirate, adottate dal Parlamento o dalla Magistratura, la Costituzione italiana del 1947 svolse in realtà un ruolo che raramente altre costituzioni hanno svolto con tanto intensità ed in ciò è da ravvisare pertanto un “valore” del tutto particolare, legato alle circostanze eccezionalmente favorevoli nelle quali essa era stata adottata, in un momento in cui l’Assemblea costituente aveva potuto avvalersi della collaborazione di tutto il paese, non esclusi i migliori rappresentanti della cultura e le più elevate professionalità di cui esso disponeva.

            Come abbiamo visto, infatti, la fase storica nella quale l’Assemblea costituente lavorò, fra la Liberazione e l’inizio della “guerra fredda”, è stata l’unica della storia dell’Italia unita nella quale il popolo italiano si presentò senza grandi divisioni interne di fronte al problema della propria organizzazione costituzionale e le circostanze lo condussero a scegliere come unica soluzione possibile quella che si ispirava ai principi del costituzionalismo, cioè alla realizzazione di una forma di governo democratico-parlamentare, rispettosa dei diritti fondamentali della persona e del principio della separazione dei poteri. Alla realizzazione di questi obiettivi, infatti, collaborarono nel corso dei lavori dell’Assemblea esponenti di tutte le tre culture che avevano raccolto fino ad allora maggior seguito fra gli italiani, cioè la cultura liberale, la cultura cattolica e la cultura socialista, e molti importanti esponenti degli ambienti scientifici e culturali del tempo fecero parte dell’Assemblea e la valorizzarono con i loro interventi.

            Le decisioni adottate con l’approvazione del Costituzione, il 22 dicembre 1947, trovarono attuazione nei decenni che seguirono, nonostante che motivi di divisioni vecchi e nuovi tornassero a determinare ostacoli, come già si ricordato, ma un sufficiente grado di unità continuò ad aversi, come risulta specialmente dall’impiego della formula dell’”arco costituzionale” per indicare appunto il complesso delle forze politiche che si riconoscevano nelle scelte compiute dall’Assemblea costituente sulle tracce di quelle che avevano ispirato la Resistenza al fascismo ed all’occupazione tedesca, contrapponendosi così ai neofascisti, che avevano dato vita ad un partito denominato Movimento sociale italiano, il quale si richiamava, fin dal nome, alla “Repubblica sociale italiana”, cioè allo pseudo-stato organizzato dai tedeschi nell’Italia da essi occupata. Anche la grande maggioranza di coloro che in occasione del referendum del 1946 avevano votato per la soluzione monarchica, infatti, avevano comunque accettato i principi della Costituzione repubblicana redatta in conformità al voto del 2 giugno 1946.

            In questa situazione, le discussioni che si ebbero talora circa l’opportunità di apportare modifiche al testo della Costituzione riguardarono generalmente aspetti secondari (cui furono dedicate le “leggi costituzionali” e “di revisione costituzionale“ adottate fino agli anni ’80, le quali furono rivolte al completamente del testo del 1947 su aspetti particolari, oppure a talune correzioni di portata limitata), mentre i dibattiti su temi di più ampio respiro si svilupparono quasi esclusivamente in ambiti accademici e comunque furono orientati anch’essi al perfezionamento della Costituzione onde pervenire ad una più efficace e completa attuazione dei principi del costituzionalismo.

 

            6. La situazione mutò invece a partire dagli anni ’90 quando si cominciarono a rivendicare soluzioni che i presentavano in parte almeno come alternative rispetto a quelle cui si erano principalmente orientati i lavori dell’Assemblea costituente. In un primo tempo i sostenitori di queste posizioni si richiamarono a modelli ispirati alle esperienze di altri paesi riconducibili anch’esse al quadro del costituzionalismo, come il liberismo economico (che avevano raccolto importanti successi negli Stati uniti d’America, ma anche nel quadro dell’attività della Comunità economica europea), il presidenzialismo (mediante il quale si voleva ovviare alle difficoltà di funzionamento che aveva incontrato il Governo italiano per il fatto di essere troppo condizionato dalle decisioni – o dalle non-decisioni – delle assemblee parlamentari, a loro volta soggette alle ingerenze, spesso determinate da interessi particolari, di partiti politici e di “gruppi di pressione”) e il federalismo (concepito come un rafforzamento del sistema delle autonomie regionali e locali già previsto dalla Costituzione, ma decollato con difficoltà).

            Nel corso degli anni ’90 e soprattutto dopo le elezioni del 2001, queste rivendicazioni, che in questi termini erano certamente legittime (pur se discutibili, come ovviamente ogni legittima proposta di riforma costituzionale), hanno subito un’evoluzione che ne ha progressivamente mutato i caratteri. Mentre infatti le discussioni circa la “Costituzione economica” sono progressivamente uscite dal quadro entro il quale si discute di riforme costituzionali, venendosi a riconoscere, sostanzialmente da tutti, che i principi enunciati nella Costituzione per l’attuazione del “Welfare State” (“Stato sociale”) non debbono essere abbandonati, ma soltanto applicati tenendo conto dell’evoluzione della situazione dell’economia nazionale, europea e mondiale, sulla base di opportuni bilanciamenti con i principi che tutelano la libertà dei mercati e lo sviluppo dell’iniziativa economica privata – che, del resto, la Costituzione non esclude affatto - la concezione del presidenzialismo che si è venuta delineando, sia nella pratica, attraverso “modificazioni tacite” della Costituzione e attraverso l’approvazione di leggi ordinarie che non è stato possibile sottoporre al controllo di costituzionalità, sia attraverso l’evolversi dei progetti di riforma della Costituzione, si è spinta oltre i limiti della sua compatibilità con i principi del costituzionalismo.

            Per quanto riguarda il federalismo (che non è privo di tradizioni nella storia del Risorgimento), la spinta riformatrice si è sviluppata particolarmente attraverso le iniziative di un piccolo partito, radicato esclusivamente in alcune aree periferiche dell’Italia settentrionale, il quale – non senza minacciare una improbabile “secessione” della così detta “Padania” dall’Italia – mostra chiaramente di voler proteggere gli interessi particolari dei suoi aderenti contro quelli dei cittadini delle altre regioni d’Italia e dell’Unione europea e contro gli stranieri in genere (non senza atteggiamenti del tipo di quelli che tanti lutti determinarono nella prima metà del XX secolo). Come slogan mediante il quale indicare riassuntivamente questo tipo di rivendicazioni, si è fatto ricorso al termine inglese Devolution, che indica la riforma realizzata in Gran Bretagna per potenziare le autonomie della Scozia e del Galles, in un contesto largamente diverso, e conseguentemente è stato incluso nel Governo formato all’indomani delle elezioni del 2001 un “Ministro per le Riforme costituzionali e per la Devoluzione”che ha curato la presentazione da parte del Governo stesso di un disegno di legge costituzionale, attualmente in corso di approvazione, destinato a riformare la seconda parte della Costituzione. A parte l’uso improprio e grottesco della comparazione giuridica, queste iniziative realizzano pericolose forzature di problemi in parte reali.

            Ancor più grave è stata però l’evoluzione che ha avuto la rivendicazione presidenzialista la quale, nell’ambito del suddetto disegno di legge costituzionale, si è concretata nella previsione di un modello di “premierato” che conferisce al presidente del consiglio dei ministri una concentrazione di poteri assai superiore a quella di cui dispongono tutti i capi di stato o di governo dei paesi democratici nei quali vigono forme di presidenzialismo compatibili con i principi del costituzionalismo (a cominciare dal Presidente degli Stati uniti e dal Primo ministro inglese).

            La soluzione adottata in relazione a questo problema dal disegno di legge costituzionale in corso di approvazione si presenta inoltre particolarmente pericolosa per il fatto che la previsione del “premierato” (a ragione definito “assoluto” dalla migliore dottrina, per l’analogia che i poteri conferiti al capo del governo in base al progetto presentano con quelli che furono un tempo propri dei monarchi dell’ancien régime) non è accompagnato da un rafforzamento del sistema di garanzie affidate dalla Costituzione all’opera della Corte costituzionale, del Potere giudiziario, del Presidente della Repubblica e dello stesso Parlamento. Al contrario, il disegno di legge costituzionale suddetto prevede numerose modifiche del testo costituzionale che vanno tutte nel senso di ridurre le garanzie da esso previste e molte importanti modifiche orientate nello stesso senso sono state introdotte in via di fatto o con riforme della legislazione ordinaria (a cominciare dall’importante riforma dell’ordinamento giudiziario, rinviata dal Presidente Ciampi in ragione della sua evidente incostituzionalità, che la maggioranza parlamentare sembra tuttavia orientata a riproporre con modifiche minime).

            Con riferimento al problema delle garanzie costituzionali occorre del resto segnalare come il problema del rafforzamento di esse si fosse posto fin da quando, con il referendum svoltosi il 18 aprile 1993 e con le leggi elettorali adottate dal Parlamento in seguito ad esso, si era passati dall’impiego di un sistema elettorale di tipo proporzionale ad un sistema di tipo maggioritario, il quale consente ad uno schieramento che può anche non corrispondere alla maggioranza degli elettori poteri molto più vasti di quelli di cui disponga normalmente una maggioranza parlamentare in regime di proporzionale. Questo fatto aveva indotto giustamente molti a ritenere indispensabile un rafforzamento del sistema delle garanzie (mediante ricorso a maggioranze qualificate per l’adozione di determinate scelte o ad altre misure analoghe), ma nulla di questo genere è stato fatto e i pericoli per le istituzioni e per i cittadini sono conseguentemente aumentati.

 

            7. Anche se la Costituzione non disciplina esplicitamente i sistema elettorali, rimettendo questa decisione al legislatore ordinario, come già abbiamo visto, molte soluzioni adottate dall’Assemblea costituente presupponevano chiaramente l’adozione di questo sistema, che era apparso preferibile, sia perché più rispettoso del principio di eguaglianza, sia perché più congruo all’assetto dei partiti italiani. Su tale presupposto l’Assemblea costituente si era chiaramente fondata quando aveva stabilito una serie di regole destinate a garantire il rispetto dei diritti delle minoranze, sia nell’ambito dei lavori parlamentari, sia con riferimento alla designazione dei componenti delle autorità “neutrali”, a cominciare dalla Presidenza della Repubblica e dalla Corte costituzionale, sia per quanto riguarda il procedimento di revisione della Costituzione.

            Invano, come si è ricordato, alcuni costituzionalisti fecero presente la necessità che, a fronte di tale innovazione era indispensabile accrescere le garanzie; al contrario, non soltanto le misure che sarebbero state necessarie non furono adottate, ma furono anzi sviluppate una serie di iniziative tendenti a delegittimare tutti quegli organi di garanzia che, in un modo o in un altro sembrassero voler resistere alla spinta rivolta alla conquista del potere “assoluto” da parte del capo della coalizione che aveva vinto le elezioni del 2001.

            Queste iniziative consistettero soprattutto in una continua campagna mediatica volta a squalificare agli occhi degli italiani tutti coloro che si ostinassero ad applicare la Costituzione e le leggi della Repubblica anche quando ne derivassero conseguenze sgradite per i detentori del potere, sia sostenendo – come se fosse una verità ovvia e indiscutibile – che il titolare di una carica elettiva, per il fatto di fruire di una corrispondente investitura democratica, non è tenuto a rispettare le leggi che valgono per tutti i cittadini e che pertanto, ad esempio, non può, né deve essere perseguito ove commetta (perfino nel perseguimento dei suoi interessi privati) azioni previste dalla legge come reato.

            E’ appena il caso di segnalare l’enormità di tale lesione dei più elementari principi di convivenza. L’applicazione del principio democratico non può portare alla disapplicazione del principio di legalità, così come del resto l’applicazione del principio di legalità non può interferire con la portata del principio democratico: Ma è non meno evidente che il mandato che i cittadini conferiscono a coloro che eleggono alle cariche pubbliche non comporta alcuna esenzione di responsabilità (penale o di altro tipo), tranne che nei precisi limiti in cui la Costituzione stabilisca una forma di immunità a garanzia del corretto funzionamento delle istituzioni, e non certamente per accordare un privilegio alla persona, come accadeva invece nei secoli passati.

            Oltre alle campagne mediatiche, le iniziative del Governo formato all’indomani delle elezioni del 2001 si sono tradotte anche in una serie di riforme delle leggi ordinarie tendenti ad impedire l’applicazione della legge in molti casi nei quali essa avrebbe comportato l’adozione di provvedimenti sgraditi al Presidente del Consiglio dei ministri o di suoi collaboratori (fino ad applicare il “segreto di Stato” sui lavori che egli ha ordinato per rendere più accogliente una sua villa ove si reca in vacanza!) e si parla ormai comunemente di leggi “ad personam”, cioè di leggi destinate a favorire singoli, nel più assoluto disprezzo di quel principio di eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, che già fu uno dei cardini del pensiero politico della rivoluzione francese. E, ancora, si è adottata una legge di riforma dell’ordinamento della Magistratura (che, come si è visto, per ora, è stata respinta dal Presidente della Repubblica, ma che il Governo dichiara di voler riproporre con minime modifiche), la quale praticamente eliminerebbe molte delle garanzie di indipendenza della Magistratura stessa che sono state introdotte in applicazione della Costituzione del 1947.

            Conseguentemente è evidente che limitare le riforme della Costituzione alla seconda parte di essa (cioè alle norme organizzative) non garantisce affatto il mantenimento della prima parte (quella relativa ai diritti dei cittadini), poiché limitare o eliminare le garanzie dei diritti (o non rafforzarle ove necessario) equivale a attenuare o abolire la tutela giuridica dei diritti stessi.

 

            8. Queste ed altre ragioni fanno dello scontro attualmente in corso intorno alla riforma costituzionale un problema di difesa della democrazia e del costituzionalismo quali trovarono attuazione in Italia mediante i lavori dell’Assemblea costituente che operò fra il 1946 ed il 1947.

            Il pericolo per la democrazia che deriva dal disegno di legge costituzionale attualmente in corso di approvazione non è infatti escluso o ridotto per il fatto che il “Premier” debba comunque essere eletto dai cittadini. L’esperienza di molti paesi (incluso il nostro) ci mostra come molti dittatori si siano avvalsi degli strumenti che erano offerti anche ad essi da un ordinamento democratico per conquistare il potere, onde poi avvalersi del potere conquistato per cambiare le regole a proprio favore, o comunque per realizzare situazioni tali da escludere qualunque possibilità di alternativa democratica.

Ciò è quanto si è verificato nella prima parte del XX secolo in Italia e in Germania, ma anche in altri paesi nei quali sono state adottate forme di governo come il bonapartismo, il caudillismo sud-americano ed altre simili. I mezzi impiegati in questi casi variano, ma il risultato finale è rappresentato comunque da una forma di monopolio del consenso, spesso procurato non tanto con la bruta violenza cui facevano ricorso fascisti e nazisti, quanto attraverso l’impiego della demagogia, del controllo dei mezzi di comunicazione o di forme di corruzione diffusa.

Perciò deve chiedersi alle forze politiche e a tutti i cittadini di mobilitarsi affinché il disegno di legge di riforma della seconda parte della Costituzione non consegua l’approvazione definitiva, il che può verificarsi in tre possibili ipotesi. La prima di esse risulterebbe ovviamente da un eventuale voto contrario (o favorevole, ma con una maggioranza inferiore alla maggioranza assoluta, cioè alla metà più uno dei componenti) di una delle Camera in sede di seconda (e definitiva) approvazione, ma sembra improbabile che ciò possa avvenire, data l’attuale composizione del Parlamento. La seconda potrebbe risultare dal fatto che le Camere non avessero modo di deliberare sulla seconda (e definitiva) approvazione prima della fine della legislatura (il che potrebbe avvenire soprattutto qualora intervenisse lo scioglimento anticipato di esse da parte del Presidente della Repubblica), con conseguente decadenza del disegno di legge, ma anche questa ipotesi non sembra di probabile verificazione. La terza infine potrebbe conseguire allo svolgimento del referendum confermativo che, una volta intervenuta la seconda approvazione a maggioranza assoluta (ma non a maggioranza dei due terzi, il che sembra altresì improbabile), potrebbe venir chiesto da un quinto dei membri di una Camera, oppure da 500.000 elettori oppure da cinque consigli regionali (o da più di uno di questi soggetti) ed allo stato questa terza ipotesi appare quella di più probabile verificazione ed alla quale occorre pertanto prepararsi.

Invece l’eventuale sconfitta della maggioranza che attualmente sostiene il Governo in occasione delle prossime elezioni politiche generali (o in altre competizioni elettorali) non ha di per sé alcun effetto giuridico sul procedimento di approvazione del disegno di legge costituzionale; ove la sconfitta avvenisse in sede di elezioni politiche generali, dopo che il disegno di legge costituzionale fosse stato definitivamente approvato, ma fosse pendente la richiesta di referendum, questo dovrebbe comunque svolgersi; ove avvenisse in un altro tipo di elezioni, essa potrebbe eventualmente soltanto concorrere a determinare lo scioglimento delle Camere, soprattutto ove il Governo si dimettesse e la maggioranza parlamentare non riuscisse a formarne un altro, con le conseguenze già viste.

Evidentemente, infine, nulla ha a che fare col problema in esame il referendum abrogativo della legge sulla procreazione assistita che avrà luogo il 12 giugno 2005.

 

9. Ma c’è ancora un altro problema che non bisogna perdere d’occhio. Questo nasce dalla constatazione che, quand’anche il disegno di legge attualmente in discussione venisse a cadere per effetto del voto popolare contrario espresso in sede di referendum confermativo, oppure in virtù di uno scioglimento anticipato delle Camere intervenuto prima della definitiva approvazione da parte di esse, non verrebbe certamente meno l’opportunità di valutare l’esigenza di adottare talune riforme costituzionali e ciò neppure ove in seguito alle prossime elezioni politiche generali si avesse una maggioranza parlamentare diversa dall’attuale.

E’ indubbio infatti che negli oltre cinquant’anni trascorsi dalla data di entrata in vigore della Costituzione (e nonostante le leggi di revisione fin qui intervenute) si siano manifestati alcuni problemi che qualsiasi Parlamento dovrebbe affrontare. Senza affrontare qui il problema in tutti i suoi aspetti, basterà ricordare la necessità di definire meglio l’assetto dei rapporti fra l’ordinamento giuridico italiano e quello dell’Unione europea, il problema dei rapporti fra Governo e Parlamento, il problema delle garanzie (sopra ricordato, soprattutto nel caso in cui si ritenga di continuare ad impiegare sistemi elettorali di tipo maggioritario), la tutela costituzionale dei così detti “nuovi diritti”, il perfezionamento dell’ordinamento delle autonomie regionali e locali ed altri ancora.

A fronte di questi problemi, un’ipotesi di riforme costituzionali indubbiamente si pone. Per valutare il modo di affrontarle, tuttavia, occorre tenere fermi alcuni punti. Uno di questi deriva dal fatto che affrontare un problema di riforme costituzionali (che non riguardi secondari aggiornamenti o integrazioni) è necessario che nel paese si realizzi un sufficiente grado di unità di orientamenti (e ciò non soltanto perché ciò è condizione per ottenere le maggioranze necessarie, che in talune circostanze sono maggioranze qualificate). E’ indubbio, infatti che dopo le vicende che hanno determinato la crisi costituzionale sviluppatasi in Italia negli anni ’90 del XX secolo e tuttora in corso, una tale situazione di unità non esiste affatto e che, per realizzarla non bastano gli appelli, per quanto autorevoli e ben argomentati, o le emozioni derivanti da fatti extra-politici. Né la pur auspicabile uscita di scena di un personaggio anomalo come Silvio Berlusconi, che enormi danni ha arrecato al nostro paese, ma che ha costituito più una conseguenza che una causa delle difficoltà che esso ha attraversato, può essere ritenuta sufficiente a realizzare un tale riequilibrio. Presupposto essenziale per il ripristino di un sentimento di unità di questo tipo, ora che la guerra fredda è finalmente terminata e che non vi sono all’orizzonte altri fattori di divisione del tipo di quelli che hanno operato nelle precedenti fasi della nostra storia nazionale, è che siano chiaramente sconfitti quel complesso di movimenti politici che hanno cercato di far ritornare indietro lo sviluppo del costituzionalismo nel nostro paese e che si sono manifestati dapprima, in forme misteriose e clandestine, con la strategia della tensione e successivamente, in forme più esplicite e sedicenti democratiche, con il berlusconismo.

 

10. Per realizzare tale unità, se è indubbiamente necessario recuperare quanti, per interesse o perché vittime della demagogia o di altri inganni, si sono lasciati indurre a partecipare a questi movimenti, occorre innanzi tutto restaurare la fiducia nei principi del costituzionalismo e quindi confermare la validità e l’efficacia giuridica della Costituzione del 1947 che, come abbiamo visto, ha costituito finora l’unica occasione di proclamazione ed attuazione di tali principi che si sia avuta in Italia dall’unificazione nazionale ai nostri giorni. Conseguentemente, non sembra necessario, né opportuno, ipotizzare la convocazione di una nuova assemblea costituente, la quale quasi inevitabilmente assumerebbe il significato di un rifiuto della Costituzione del 1947 considerata nel suo complesso.

Assunta invece tale Costituzione come un testo da rilanciare, e tuttavia da correggere su taluni punti specifici, sarebbe opportuno affrontare il lavoro di revisione attraverso l’elaborazione di singoli disegni di legge costituzionale da approvare con il procedimento di cui all’art.138, mediante i quali affrontare specifici argomenti sui quali i membri del Parlamento, ed eventualmente gli elettori, possano pronunciarsi con un sì o con un  no, senza essere indebitamente influenzati dalla pluralità delle questioni da affrontare con un unico voto. Ed ove si ritenesse, non senza ragione, di elevare la maggioranza richiesta per l’approvazione delle riforme costituzionali, una corrispondente riforma dell’art.138 (da effettuare ovviamente secondo la procedura da essa prevista) dovrebbe precedere tutte le altre.

Solo nel caso in cui, una volta recuperata la necessaria unità di intenti in vista della realizzazione di un moderno costituzionalismo, si ritenesse indispensabile far ricorso ad una revisione totale della Costituzione, non già per stravolgerne i principi, ma per una sorta di riordinamento del suo testo, anche in vista delle necessarie innovazioni (come è stato fatto recentemente in Svizzera), si potrebbe organizzare una procedura ad hoc (da disciplinare ex art.138 e da dotare di garanzie superiori a quelle normalmente richieste per le stesse revisioni ordinarie). Allo stato, tuttavia, un’ipotesi di questo genere sembra invero collocarsi oltre l’orizzonte.

Nell’attuazione di un programma di questo tipo è naturale che vengano tenuti presenti i molti materiali che sono stati raccolti nel corso dei passati trent’anni di dibattiti sulle possibili revisioni costituzionali, a cominciare da quelli costituiti dai lavori delle tre commissioni bicamerali ad hoc che hanno lavorato nel 1983-85, nel 1992-92 e nel 1997.

In proposito è tuttavia da osservare che gran parte di tali materiali appaiono da scartare a prima vista per il fatto di avere percorso vie che, alla luce delle esperienze fatte nel corso della crisi che abbiamo attraversato, sono risultate chiaramente sbagliate. Ed una delle constatazioni più importanti da fare a questo proposito è come la stessa opzione per la democrazia maggioritaria che fu compiuta con il referendum del 18 aprile 1993 si sia rivelata fondata su evidenti errori di prospettiva (oltre che su un uso manifestamente scorretto del diritto comparato). Lungi dal restituire lo scettro al principe, cioè agli elettori, l’introduzione del sistema maggioritario ha provveduto a rinsaldare il potere dei partiti politici – nonostante la crisi in cui si trovavano – e più specificamente il potere dei loro organi dirigenti, nonostante che la crisi generale del sistema politico, intervenuta in seguito alle inchieste sulla corruzione diffusa, avesse notevolmente indebolito il loro rapporto con la base.

Il risultato più vistoso di questa evoluzione è stato rappresentato dai trionfi del berlusconismo, il cui protagonista ha potuto sviluppare la sua azione di leader politico applicando ad essa, senza modificarle quasi per nulla, le tecniche di direzione con le quali era abituato a gestire le sue aziende e così ingaggiando persone da far eleggere o nominare a cariche pubbliche nello stesso modo in cui avrebbe scelto e incaricato delle diverse funzioni i propri dirigenti, i propri commessi viaggiatori ed i propri capi-operai (senza alcun riguardo al fatto che avessero o non avessero proprie idee qualificabili come opinioni politiche). E la prospettiva del “partito personale” si è fatta strada anche in altri settori dello schieramento politico.

Né l’avvento del maggioritario ha realmente favorito l’avvento del tanto auspicato bipartitismo all’inglese, dimostrando (se ce ne fosse stato bisogno) che un’evoluzione di questo tipo non può essere conseguita soltanto con la modifica delle leggi elettorali, ma presuppone una ben diversa maturazione dei cittadini, la quale richiede appunto quella più profonda educazione civica di essi che nel nostro paese è chiaramente mancata, anche per responsabilità dei partiti che avrebbero dovuto curarla dopo la Liberazione.

Non è il caso di affrontare qui in profondità questi temi, come i molti altri che occorrerà analizzare senza fretta. Le sole urgenze che si pongono (una gran parte delle quali non richiede revisioni costituzionali) sono quelle necessarie per eliminare i guasti della legislazione e delle prassi adottate nel corso della crisi costituzionale, in materia di sistemi elettorali, in materia di ordinamento delle fonti del diritto, in materia di tutela dei diritti fondamentali, in materia di indipendenza della Magistratura e di ordinamento del processo penale, onde ripristinare l’operatività dei principi costituzionali ed eliminare le “modificazioni tacite” ad essi apportate. Delle modificazioni intervenute in questi anni sono da salvare probabilmente una parte di quelle che hanno impostato lo sviluppo delle autonomie e le misure di diritto parlamentare che hanno corretto il sistema dei rapporti fra Parlamento e Governo in modo di per sé sufficiente ad assicurare la governabilità (rendendo peraltro superfluo il ricorso, in aggiunta ad esse, a misure più difficilmente compatibili con i principi costituzionali, come i premi di maggioranza e altre simili modifiche delle leggi elettorali).

Ma, se il disegno di legge costituzionale potrà essere fermato prima che divenga operativo e sarà possibile ripristinare il valore della Costituzione repubblicana, non sono moltissime le misure di questo tipo che appaiano veramente urgenti. E, soprattutto, sarà inutile (e pericoloso) mettere troppa carne al fuoco prima che ci si sia assicurati che una classe politica opportunamente rinnovata - e, soprattutto, i cittadini italiani - siano maturi per digerirla.

 

                                                                                  ALESSANDRO PIZZORUSSO