www.segnalo.it - Politica dei servizi sociali - Saggi e Articoli

HOME PAGE

FORMAZIONE    

BIBLIOTECA / CINETECA   

POLITICHE / LEGGI    

TRACCE / SENTIERI

TRE FERITE ALLE ISTITUZIONI
ANDREA MANZELLA
 

  da Repubblica - 21 ottobre 2005


ORA, manca solo lo «scivolo» al Senato: e la devolution sarà pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Non però come una legge effettiva di revisione costituzionale. Ma come un progetto approvato sotto condizione. La condizione della conferma da parte di un referendum popolare. Che certamente ci sarà: e certamente l´affonderà.
E tuttavia questo progetto, benché abbia il destino segnato, suscita un malessere che va oltre il normale dissenso giuridico e politico. Non tanto perché sarà usato come bandiera elettorale, sia pure di carta, da un partito di ristretti confini territoriali e di ancor più angusta cultura storica. Ma perché è stato approvato con la copertura politica e la connivenza parlamentare di partiti che nella loro ditta recano scritte come «Italia» e «nazionale».

Dalla devolution al proporzionale
tutte le ferite alle istituzioni

Questo uso adulterato di posizioni che si richiamano al profondo senso unitario del Paese impone non solo una grave questione costituzionale ma una ancor più grave, se possibile, questione di coscienza. Una questione che rischia di dividere, con durature conseguenze, al di là dei cicli elettorali, coloro che a questo stravolgimento costituzionale si oppongono e coloro che concorrono ad attuarlo. Nessuno può dunque illudersi che si tratti di frattura marginale da ridurre prima con un´approvazione provvisoria «per finta», fatta per far contento qualcuno, e poi con un referendum liquidatorio. L´attentato alla Costituzione vale (e pesa) quanto la sua violazione.
C´era una volta l´idea di «arco costituzionale» Non se ne parla più, ma non è tramontata. Essa rinasce infatti tutte le volte che vi è negazione delle ragioni fondative della nostra Costituzione, come espressione dell´unità politica della comunità nazionale. In questi momenti o si è dentro o si è fuori. Certe scelte di verità non consentono vie di mezzo.
I nostri costituzionalisti, di ogni tendenza, hanno scritto contro questo progetto. Alcuni denunciando le rotture di equilibri e di garanzie tra governo e parlamento, tra Stato e regioni, tra la parte valoriale della Costituzione (i diritti e i principi) e la sua parte strumentale (i meccanismi istituzionali). Altri puntando sugli aspetti funzionali: gli effetti paralizzanti di certi congegni improvvisati (come per la relazione tra Camera e Senato). Questo complessivo giudizio negativo risulta però ora aggravato, per il sopravvenire di un progetto elettorale, radicalmente diverso da quello attuale. Il ritorno, addirittura, dal sistema maggioritario al sistema proporzionale. La legge elettorale, anche se adottata nella flessibile forma della legislazione ordinaria, non può considerarsi infatti separatamente dagli istituti costituzionali e dal loro funzionamento. Essa ne è, semplicemente, il telaio portante.
A questo punto, un ordinario buon senso, al sopraggiungere di una proposta elettorale – che ha imboccato, per prepotere di maggioranza, una rapida corsia di scorrimento – avrebbe consigliato di fermarsi. Per «incrociare» il già maturo progetto costituzionale con il progetto elettorale: per farne una lettura comparata, per verificarne le coerenze, per eliminarne le contraddizioni. Niente. Si prosegue su piani separati come se una intima logica di rappresentanza e di governo non obbligasse a legare i due progetti.
Si dice che a nulla varrebbe questa pausa di controllo. Perché i regolamenti della Camera e del Senato non consentono varianti e neppure la votazione dei singoli articoli. è una fase, appunto, di «scivolo». In questo modo si svela però la sostanziale irragionevolezza e la illegittimità costituzionale di quelle norme regolamentari. Irragionevolezza, perché nel trascorrere dovuto del tempo tra una deliberazione e l´altra possono sorgere, come in questo caso esemplare, ragioni di modifiche o, addirittura, di radicale novazione del progetto. Ragioni appunto che oggi vengono ignorate. Illegittimità costituzionale perché, vietando, nella seconda deliberazione legislativa, la approvazione articolo per articolo, quelle norme si scontrano frontalmente con l´art. 72 della Costituzione che quella votazione invece impone. Quando nel lontano 1958 queste norme impedienti furono approvate, parlamentari di lunga esperienza (Alfonso Tesauro, Tozzi Condivi) capirono la loro pericolosità. Ma esse «passarono» ugualmente. Era il tempo in cui risultava impossibile approvare una legge costituzionale a maggioranza semplice (il referendum confermativo fu regolato solo a partire dal 1970). E ancora non era venuta la sentenza della Corte costituzionale del 1959 a dire che i regolamenti parlamentari non possono violare le (poche) norme sul procedimento legislativo fissato in Costituzione. Giuristi famosi come Mortati e Barile ebbero infatti a criticarle poi, sostenendo la necessità costituzionale di un «ciclo legislativo completo» anche nella seconda deliberazione.
In conclusione, però, oggi le Camere non sono poste in grado - per un autovincolo ormai privo di senso giuridico e che, per obbedienza alla Costituzione, dovrebbe essere disapplicato dai presidenti d´Assemblea - di valutare il progetto costituzionale alla luce della rivoluzione elettorale in arrivo.
In realtà, lungo e articolato, e non privo di capovolgimenti di fronte, sarebbe il giudizio sui 53 articoli di modifica: nell´ottica di in un nuovo regime elettorale. Ma qui, per ora, dobbiamo limitarci a quel che cambia per la devolution: riconosciuta ormai nel comune linguaggio, e con quel nomignolo, come la proposta-simbolo dell´intero progetto. E anche quella che più peserà nell´opinione pubblica: a cominciare dalle elezioni del 9 aprile 2006 (il giorno in cui gli italiani si giocheranno praticamente, in una sola puntata, un favoloso tris: la Costituzione, la presidenza del consiglio e la presidenza della Repubblica).
E allora, già sappiamo che in nome della devolution, si vogliono arrecare tre profonde ferite al nostro assetto repubblicano. La ferita dell´esclusività: per cui, con concezione sconosciuta perfino negli Stati federali più avanzati, le regioni avrebbero legislazione «esclusiva» non solo in materie essenzialmente «nazionali» come scuola e sanità, ma anche «in ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato» (art.117). La ferita della nazionalità: quella per cui si è introdotta la distinzione tra «Nazione» e «Repubblica» per la rappresentanza parlamentare (art. 67). In nome di essa, la Lega ha potuto dire che l´Italia è uno «Stato eterogeneo dal punto di vista etnonazionale»; e che per i «padani», gruppo nazionale, la «lealtà» verso la Nazione e quella verso lo Stato «sono distinte e possono entrare in competizione tra loro». La ferita della frammentazione territoriale: quella per cui al referendum per «formare nuove regioni» possono partecipare soltanto i «cittadini residenti nei comuni e nelle province di cui si propone il distacco dalla regione» esistente. È la norma (art. 53, commi 13, 14 del progetto) che farebbe saltare per cinque anni le precise garanzie costituzionali richieste dall´attuale art. 132.
Ebbene, ognuna di queste tre ferite verrebbe ora esasperata dal progetto elettorale di introdurre un «premio di coalizione regionale». Per eleggere il Senato, ramo del Parlamento nazionale, ogni regione farebbe infatti «Stato a sé» e avrebbe un «suo» moltiplicatore di voti per la propria maggioranza politica. Non, come già avviene, per autogovernarsi: ma per concorrere a governare la Repubblica. Non ci vuole molto per capire che le pulsioni separatistiche racchiuse nelle idee di «esclusività» legislativa, di «nazione regionale», di scissioni e di proliferazione, trovano nel «premio di coalizione regionale» il più potente dei motori e degli avalli politici.
Questa è la trama contro l´Italia e la sua storia che si sta dipanando sino in fondo in questo finale di legislatura. Chi fa analisi costituzionale deve noiosamente citare commi e articoli. E non può permettersi un aggettivo come quello usato da Claudio Magris sul Corriere della Sera del 18 ottobre. Ma certo definire «ributtante» una riforma costituzionale come questa ha una straordinaria forza evocativa, propria di una ribellione di coscienza, che nessuna critica tecnico-giuridica potrebbe mai sognarsi di raggiungere.