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L´AUTOCRITICA ASSENTE SUL FEDERALISMO
MARIO PIRANI
 

  dal Repubblica - 27 settembre 2004


Un tempo nei partiti di sinistra vigeva l´istituto della autocritica. Nei paesi comunisti era, però, applicato soprattutto per indurre gli accusati dei processi staliniani a confessare preventivamente i presunti crimini. Il famoso libro di Koestler, «Buio a mezzogiorno», ne ha dipinto un quadro agghiacciante. Ciò malgrado in Italia, se l´autocritica fu talvolta utilizzata come strumento di mortificazione di militanti non allineati, essa conobbe anche una applicazione estremamente utile quando avveniva in nome collettivo. In particolare, di fronte a sconfitte che implicavano gravi errori di analisi, il Pci procedeva, in nome dell´autocritica, ad una revisione generale dell´azione condotta, coinvolgendo in essa l´assieme dei militanti, dalla direzione alla base. Lo scopo era di individuare le cause dei rovesci subiti - naturalmente senza mettere in discussione la natura del partito medesimo-, rivedere giudizi, applicare gli indispensabili mutamenti, così da legittimare e sublimare quella che veniva chiamata la «svolta». Ricordo, tanto per fare un esempio, che quando nel 1954 le liste della Fiom-Cgil nelle elezioni delle commissioni interne alla Fiat subirono una imprevista disfatta, che metteva in forse lo storico rapporto tra Pci e classe operaia, l´autocritica comportò la «scoperta» di quanto stesse mutando l´industria italiana e l´organizzazione del lavoro e quanto fosse superata una linea di politica sindacale imperniata tutta sul contratto nazionale di categoria. A questo seguì la scoperta, sia pur tardiva, delle trasformazioni in corso nel capitalismo italiano, culminate nel boom a cavallo degli anni ´50 e ´60, che il partito faticava addirittura a percepire nella loro dinamica dirompente.
Da tempo l´autocritica è, però, venuta meno anche in veste di strumento correttivo di una linea politica. Così l´effetto di decisioni, rivelatesi radicalmente erronee, permane come un impaccio non biodegradabile che appesantisce e compromette l´azione politica. Così gli errori di ieri generano quelli di oggi. Cosa è, ad esempio, il criticato voto di astensione di Ds e Margherita alla Camera sull´articolo che introduce il Senato federale, se non il punto di arrivo della dissennata riforma del Titolo V della Costituzione approvata con 4 voti di maggioranza in chiusura della passata Legislatura? In quel momento si è aperta la falla attraverso cui sta passando la devoluzione e lo sfascio dell´impianto costituzionale repubblicano (premessa, sia pur virtuale e in un contesto politico diverso, furono le modifiche di eguale segno ventilate alla Bicamerale). Ora siamo alla resa dei conti: entro qualche giorno la maggioranza approverà in prima lettura la riforma. Passati tre mesi il Parlamento procederà alla seconda lettura.
Frattanto la sinistra tenta di porre rimedio e annuncia il ricorso al referendum. Meglio tardi che mai, pur tuttavia un referendum, non accompagnato da una radicale autocritica sul federalismo imputabile alla sinistra, apparirebbe quanto meno incoerente (non ha torto, ad esempio, chi ricorda la propensione ds per il premierato o il deferimento di sanità e scuola alle Regioni).
Tutto ciò è ancor più indispensabile sia perché, come provano i sondaggi di Ivo Diamanti («Repubblica» 19 sett.) la propensione al federalismo, al di fuori dell´alta Lombardia e del Nordest, «crolla sommersa dal dissenso sociale», sia perché le decisioni che portarono la sinistra ad imboccare la deriva federalista vennero assunte sempre da ristretti gruppi dirigenti politici e parlamentari senza alcun coinvolgimento democratico degli iscritti e tanto meno degli elettori. Inascoltati rimasero i sindacati che paventavano giustamente una differenziazione dei diritti sociali, inascoltato il Meridione in ogni sua istanza. Fece premio l´illusione di inseguire la Lega sul suo terreno, addirittura immaginandosela come «una costola della sinistra», fece premio un costituzionalismo di recente conio, incantato da velleità moderniste di efficienza. Si disse che si voleva rendere più vicino il popolo alle istituzioni ma si trascurò che già vigeva il regionalismo e che andava, se mai, potenziata l´autonomia dei comuni. Si ignorò che le radici storiche della democrazia italiana risiedevano nell´unità raggiunta col Risorgimento contro borbonici, austriacanti e papalini, consolidata dalla sinistra con l´alleanza tra lavoratori del Nord e contadini meridionali, difesa durante la Resistenza da quanti non a caso si chiamavano «garibaldini», definita infine dalla Costituzione del ´48. E invece di difendere questo patrimonio di valori si è preferito far concorrenza a Bossi. Volete almeno chiedere scusa?