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Chiara Saraceno,  Guai ai poveri, a l'Unità del 25/05/2001

Durante la campagna elettorale Berlusconi ha sollevato più volte la questione della presenza nel nostro paese di sette milioni di poveri, utilizzando i rapporti dell'Istat e della Commissione di Indagine sulla esclusione sociale come fonte autorevole per criticare l'operato del governo di centro-sinistra. Ma immediatamente dopo la vittoria elettorale un possibile Ministro del superministero del welfare, Alberto Brambilla, lo smentisce.
In una intervista al settimanale Vita ha dichiarato testualmente: «Non sono certo che siano sette milioni. Il problema è che non si sa bene quanti sono i poveri in Italia». Poi, da bravo tecnico, ha aggiunto che il problema è quello degli indicatori. Non vi è dubbio: le biblioteche sono piene di controversie su come si fa a misurare la povertà; ed anche nel Gruppo di Protezione Sociale dell'Unione Europea ci stanno provando (per altro, secondo le stime europee noi avremmo circa il doppio di poveri rispetto alle stime Istat/Commissione). Nessuno pretende di trovare l'indicatore perfetto. Ma tutti i paesi, incluso il nostro, hanno definito un qualche criterio per stimare la diffusione della povertà e avviare politiche conseguenti. Il fatto è che Brambilla sembra ignorare come viene stimata la povertà in Italia, dall'Istat e dalla Commissione di indagine sulla esclusione sociale. È infatti convinto che sia misurata sulla base delle erogazioni dello stato, ovvero sulla base del numero di coloro che ricevono assistenza.
Se ciò fosse vero, avremmo cifre bassissime. A differenza della maggior parte dei paesi europei, infatti, non abbiamo ancora una misura generalizzata di sostegno al reddito per i poveri, del tipo del reddito minimo di inserimento : ancora in fase sperimentale, ma che Brambilla ha già dichiarato di non voler realizzare senza neppure aspettare a leggere il rapporto di valutazione. In realtà la povertà è stimata, dall'Istat e dalla Commissione, sulla base dei consumi delle famiglie: viene considerato povero non chi riceve assistenza, ma chi ha un consumo inferiore alla metà del consumo medio procapite. Esperto di pensioni integrative, ma forse un po' meno di altre politiche sociali, Brambilla si richiama anche alle iniziative di Blair e Schroeder in tema di incentivi alla partecipazione al lavoro in contrapposizione all'assistenza. Dimentica, o forse non sa, che in entrambi i paesi continua ad esistere un meccanismo di sostegno al reddito per i poveri.
Le iniziative per far sì che lavorare paghi più che rimanere in assistenza richiedono innanzitutto che ci sia assistenza, e poi che ci siano politiche, economiche, del mercato del lavoro, ma anche di consulenza, di creazione di servizi, della casa, ecc. che rendano praticabile passare dalla assistenza al lavoro. Senza ignorare che vi è chi, temporaneamente o forse stabilmente, non è in grado di lavorare. Affidare costoro puramente e semplicemente al Terzo settore e al volontariato, come suggerisce Brambilla e con lui molti esponenti della Casa delle Libertà, mi sembra poco rispettoso dei diritti e della dignità delle persone. E forse non molto gradito dallo stesso terzo settore. In Italia, vorrei sommessamente informare Brambilla e tutti gli aspiranti futuri ministri del welfare, la durezza e persistenza della povertà non dipendono dall'eccesso di assistenzialismo. Piuttosto, a fronte di uno sviluppo diseguale e di rischi diffusi, poche, disuguali e inefficaci sono le politiche. Il nostro paese, come tutti gli altri europei, deve presentare entro la fine del mese un piano biennale contro l'esclusione sociale. Certo il nuovo governo dovrà verificarlo ed eventualmente adeguarlo alla propria linea politica. Ma non potrà esimersi dal presentare un piano in questo campo, della cui attuazione sarà responsabile. Il gioco sui numeri dei poveri a seconda delle convenienze del momento non mi sembra un buon inizio.