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De  Rita: “tanto decisionismo, ma la sostanza è poca” , di Carlo Clericetti ,   in l'Espresso 3.2.2002

E DAI TEMPI DI CRAXI CHE NELLA POLItica italiana c'è una sorta di virus, quello del decisionismo. Magari allora fu una reazione alle estenuanti mediazioni democristiane, ma ormai la politica non si cura più di autonomia, distribuzione del potere, rappresentanza: è solo decisione. Alla Craxi, appunto...

Per Giuseppe De Rita, lo studioso che con il suo Censis ha scandagliato le pieghe del sociale, del locale, delle diversità delle cento Italie di cui è fatta l'Italia, questa riduzione della politica a sola decisione è particolarmente indigesta. «Persino Bossi, pochi giorni fa a una riunione di rappresentanti delle Province, ha detto: "Difendiamo lo Stato nazionale". E non a caso è alleato di Berlusconi:

“il decisionisno va a braccetto con la personalizzazione della politica».

Eppure questo governo parla di federalismo, devolution, sussidiarietà...

«Si. E poi fa un provvedimento come questo sulle fondazioni ex bancarie: è un riaccentramento del potere, sfere di autonomia che vengono cancellate. A parte il fatto che secondo me è incostituzionale».

E perché lo avrebbero fatto?

«Intanto perché, come dicevo, si centralizza il potere decisionale. E poi c'è anche il problema di dare più spazio al governatore Fazio. Si sa che per la successione a Berlusconi ci sono in campo quattro protagonisti: Fini, Casini, Tremonti e Fazio. In questo modo magari gli possono dire: tu hai già avuto, da questa partita resta fuori».

Ma il governo non si sta muovendo verso la devolution e la sussidiarietà, un principio particolarmente caro al mondo cattolico a cui lei appartiene?

«Può darsi, ma la sussidiarietà non funziona, lo vado ripetendo da tempo.

Secondo questo principio lo Stato non deve fa­re ciò che può fare la Regione, questa quello che può fare la Provincia, la Provincia quello che può fare il Comune, eccetera. Il risultato pratico è che abbiamo, per fare un esempio, un ministro dell'Ambiente, un assessore regionale dell'Ambiente, poi uno provinciale, poi uno comunale, poi uno di municipio cittadino. E alla fine, quando le cose non funzionano, non si riesce ad attribuire la responsabilità a un soggetto preciso, perché ognuno può dare la colpa all'altro. In un mondo multipolare, il potere, anche in Italia, non può che essere policentrico: ma non è replicando le funzioni che si ottiene una vera devolution, nè una vera diffusione del potere».

«Bisogna far crescere diversi livelli di responsabilità periferici. Ma senza una devolution della devolution, cioè senza stabilire tutti i livelli del processo, si an­rebbe verso un fallimento. Soprattutto, la base è individuare la funzione, bisogna partire da lì e non da chi deve svolgerla: quello si individua dopo. Ri­prendendo l'esempio, vogliamo dare l'Ambiente, che so, alle Province? Bene, ma solo ad esse, in modo che si sappia chi ha colpa se qualcosa non funziona».

Quali ruoli dovrebbero avere pubblico e privato? Lei non sembra avere un'opinione molto favorevole verso le privatizzazioni...

«Sogno un nuovo Beneduce, che sappia mescolare il pubblico e il privato con il primo di supporto al secondo. Stiamo passando dallo statalismo al privato ma con una sorta di schizofrenia. Si dice privatizziamo tutto, e poi magari riesce fuori il riaccentramento, come per le fondazioni; si dice vendiamo tutto, ma a chi? A privati che si stanno

dimostrando capaci solo di staccar bollette, perché al di là delle imprese di servizi pubblici non vanno. E senza liberalizzare i mercati: sbaglio o il famoso "ultimo miglio", il collegamento telefonico dalle centraline alle case, lo fa ancora sol tanto la Telecom?

E il welfare? Come vede la tendenza ad affidare sempre più spazi al cosiddetto non profit, o al privato sociale, come lo chiamano altri? Anche lei pensa che possano gestire me­glio del pubblico?

«Il problema non è tanto chi gestisce meglio, ma la differenza tra stakeholders (portatori di interessi) e shareholders (chi ha potere decisionale). Il vo­lontariato è uno stakeholder; ma se vuole entrare nel comitato che decide gli interventi e assegna gli appalti di­venta shareholder, e questo non va  affatto bene».

Il volontariato e il privato sociale sono no però cose diverse, no?

 « Sì, potremmo dire che il privato  sociale nasce come volontaria­to e poi lo "tradisce", probabilmente perché i giovani non hanno abbastanza tempo libero per  fare volontariato puro. C'è  bisogno di dar loro un lavoro , magari anche precario, per farli tornare ad  agire nel sociale. Ma que sto può funzionare, a patto che queste organizza si limitino a rappresentare  la domanda sociale. Se invece pretendono di  entrare nelle cabine di regia, nelle istituzioni, allora  no: il meccanismo inevitabilmente si altera».