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      Il referendum di un anno fa. Il referendum nel Nordest. La finanziaria.
      Tre cose apparentemente lontane ma in realtà vicinissime. Perché tutt´e
      tre legate alla questione della governabilità italiana. Alla maniera con
      cui si sta attuando il nostro federalismo. 
      È una maniera confusa e cattiva. Eppure potrebbe essere questa un´area
      ideale d´intesa tra maggioranza e opposizione. Perché le istituzioni
      territoriali, a differenza di quelle centrali, non hanno un solo colore.
      La geografia politica italiana è cangiante e variegata. Dare una
      struttura funzionale a regioni, province e comuni è nell´interesse di
      tutti. Poi, a parità di macchine, si vedrà chi sono i piloti migliori. 
      Ha tanto più senso questa intesa fra i duellanti, in quanto, ormai e
      sempre più, il sistema-paese non dipende dagli apparati centrali. Esso
      esprime l´efficienza complessiva d´un pluralismo istituzionale ed
      economico che è esso stesso il "centro", senza più
      "periferie" né "deserti" provinciali. 
      Promuovere e sviluppare questo pluralismo territoriale non è un capriccio
      o un bisogno di marca italiana. Se c´è una necessità dappertutto
      riconosciuta in tempi di globalizzazione è proprio quella della
      riorganizzazione del territorio in nuclei produttivamente e culturalmente
      coesi. In grado di sfruttare al meglio le risorse pubbliche (locali,
      nazionali, europee). Capaci d´attivare investimenti e immigrazione.
      Idonei a segnare una cornice di sicurezza per le persone e le famiglie. È
      il connubio, ormai non più misterioso, tra il globale e locale. È per
      questo che qualsiasi abbecedario istituzionale racconta d´un vertiginoso
      processo di regionalizzazione che investe l´intera Unione europea (dove
      la promozione di soggetti territoriali efficienti è legata al bisogno di
      piani regionali di coesione e di sviluppo). 
      Ma l´Italia, di suo, in questa diffusione di strutture federali, ci mette
      la straordinaria intensità della dimensione comunale. "Stato
      regionale a tendenza municipale", com´è stata definita. Che,
      dunque, nel confronto tra sistemi, potrebbe mettere a frutto anche questa
      sua storia. L´Italia non ha bisogno, come si dice in Francia, di
      ripartire "dal basso". Dato che la "vera" Italia
      istituzionale è da sempre lì: negli 8000 e passa comuni. Le regioni come
      federazioni di comuni. 
      Eppure le meschinerie della politica s´accumulano l´una sull´altra,
      consolidando rancori e suscitando rivalità in una zona per sua natura
      destinata a un lavoro cooperativo. 
      Fra pochi giorni, il 7 ottobre, sarà un anno che il corpo elettorale ha
      approvato con il 64 per cento dei voti, la riforma federalista. Non era
      accaduto mai, nella storia dell´Italia unita, che un pezzo di
      Costituzione fosse adottato con voto popolare. Prima del corpo elettorale,
      vi era stato però sulla riforma il "sì", quasi una
      co-decisione, dell´intero sistema delle autonomie, senza distinzione di
      partiti. Ma, prima ancora, le formule accolte nella riforma erano state
      discusse e approvate dalla Commissione bicamerale e poi dalla Camera dei
      Deputati nel febbraio-aprile 1998. Due mesi dopo saltava quel tavolo di
      regole ma le regole che si erano scritte assieme rimasero scritte... Come
      si fa ancora a dire, dopo questa storia circostanziata, che quella riforma
      fu solo il frutto frettoloso di una risicata maggioranza in Parlamento? È
      questo un piccolo frammento di verità formale che cerca di nascondere,
      imbrogliando, i cinque anni di gestazione "aperta" della nostra
      riforma federale. 
      Certo, un meccanismo così complesso è sempre migliorabile. Ormai, come
      ogni macchina, anche le parti organizzative delle Costituzioni, sono
      soggette a periodiche revisioni. Ma come si fa a pensare che le rettifiche
      debbano cominciare con lo smontare l´elezione diretta dei
      presidenti-"governatori"? Ognuno può constatare che proprio l´elezione
      diretta ha dato stabilità di legislatura e, insieme, vincolato la
      responsabilità finanziaria dei governi regionali. Si stanno confermando
      tutte le analisi d´economia delle istituzioni. Le analisi che vedono i
      maggiori rischi della spesa pubblica nell´opacità dei sistemi
      proporzionali e puntano invece sulla trasparenza della responsabilità
      personale di chi è eletto direttamente. 
      Soltanto infatti con la piena assunzione di responsabilità
      "nazionale" da parte dei "governatori" e dei sindaci,
      si sono potuti stipulare i due "patti" fondamentali che sono la
      vera "costituzionale materiale" che regge i rapporti tra Stato e
      sistema delle autonomie territoriali. Uno è il "patto di stabilità
      interna", sottoscritto nella legislatura di centro-sinistra, che
      riproduce su scala regionale e locale vincoli e criteri del patto di
      stabilità europea. 
      L´altro è l´"accordo interistituzionale", concluso in questa
      legislatura di centro-destra, per un´ordinata e graduale attuazione della
      riforma. 
      È vero che, rispetto alla piena luce su sindaci e presidenti di regione e
      provincia, vi è il cono d´ombra in sui soffrono i consigli territoriali.
      Come, del resto, i parlamenti: in regimi sempre più di democrazia diretta
      e non mediata. 
      Ma la strada per l´equilibrio passa per un creativo ammodernamento delle
      funzioni delle assemblee elettive, non per il ritorno a governi
      territoriali impotenti, che la mediazione partitica sfiniva prima ancora
      che cominciassero a lavorare. 
      Lo ha capito perfettamente domenica scorsa la "minoranza attiva"
      degli elettori del Friuli-Venezia Giulia che ha sotterrato con il 73 per
      cento dei voti l´idea di una retrocessione al passato. 
      È invece una rottura in avanti, quella che si tenta con il disegno di
      legge, detto di devolution. La cui prospettiva è l´implosione del quadro
      costituzionale federalista e l´abbandono del principio di unità
      repubblicana. 
      Il fine apparente della devolution è creare una sorta di regionalismo
      differenziato. Ma la Costituzione, approvata con il referendum del 7
      ottobre, già prevede la possibilità che ci siano regioni "più
      robuste" delle altre in determinate materie. Solo che questa
      previsione è circondata da tre garanzie fondamentali. Che la
      "differenziazione" sia approvata dal Parlamento nazionale con
      legge a maggioranza rinforzata. Che siano consultati province e comuni
      della regione. Che siano rispettati i canoni d´equilibrio e solidarietà
      del federalismo fiscale. Nessuna di queste tre garanzie è rispettata
      nella devolution. Le regioni che vogliono più competenze se le
      prenderanno, con la Costituzione ridotta a self-service, senza passare dal
      Parlamento nazionale. La ponderazione degli interessi di comuni e province
      non è prevista: come se il nostro federalismo regionale non dovesse
      sempre tenere conto di quel vincolo municipale che è vecchio come l´Italia
      stessa. La solidarietà fiscale è saltata come un optional. La filosofia
      del neo-separatismo è tutta in queste omissioni: più che in qualsiasi
      programma. E nessuno, sinora, è riuscito a spiegare come questo progetto
      eversivo, possa conciliarsi con quel disegno di "normale"
      attuazione della riforma federale nel frattempo presentato dal ministro
      per le regioni. 
      In questo quadro viziato da omissioni e distorsioni, s´inserisce la
      finanziaria 2003. La cui "delusione maggiore" - come ha scritto
      Giacomo Vaciago sul Sole-24 Ore - è proprio quella di "non esser
      riusciti a concordare una strategia economica condivisa tra i livelli di
      governo che, con pari dignità, costituiscono la Repubblica". È
      infatti una legge di sospetto. 
      Vi è, da un lato, la denuncia generica di "sprechi",
      accomunando nei tagli governi territoriali virtuosi e quelli che non lo
      siano. Dall´altro, la stupefacente distinzione tra enti locali e
      cittadini: come se le restrizioni imposte a quelli non si traducessero in
      minori o peggiori servizi per questi. 
      E, infine, come botto maggiore in fuoco d´artificio, la surreale
      "promessa" d´un federalismo fiscale che già è scritto nell´articolo
      119 della nuova Costituzione. E che, dunque, non doveva essere smentito,
      almeno nei suoi termini fondamentali, dalla legge finanziaria soprattutto
      per la fondamentale "priorità nazionale" del Mezzogiorno.
      Mentre i "principi di coordinamento della finanza pubblica e del
      sistema tributario" che la norma costituzionale richiede sono ancora
      "incommissionati"... 
      È per queste inadempienze che la maggiore riforma d´ammodernamento
      strutturale del Paese trasmette un´immagine di disordine e di rischio. A
      Venezia, la signora Lucia Massarotto ha messo quest´anno il lutto al
      tricolore esposto dalla sua casa contro i simboli della devolution
      separatista. 
      Aveva ragione, il pericolo c´è 
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