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DEVOLUTION EVERSIVA
ANDREA MANZELLA

 

da Repubblica - 27 giugno 2002

 


DA BRUXELLES a Roma, c´è un legame tra la Convenzione che lavora sulle istituzioni europee e l´accidentata fase italiana di attuazione del federalismo. Le dichiarazioni avventuristiche in Senato del ministro Bossi incidono anche su questo legame. Nel 1957 quando a Roma si firmarono i Trattati fondatori, nell´Europa che cominciava a unificarsi, soltanto la Germania aveva struttura federale. Ora nella matura Unione europea che si avvia ad un trattato costituzionale non c´è Stato, di quelli già membri e di quelli candidati, che conservi la vecchia forma accentrata.

SEGUE A PAGINA 17

La devolution eversiva che minaccia l'unità dello Stato
Il rischio è trovarsi con più "senati" contrapposti, ciascuno con una sua parte di Paese: una specie di secessione per implosione Allora servirebbe un altro Garibaldi
In Italia si assiste a una schizofrenia governativa: Umberto Bossi cerca di disfare un disegno già in via di attuazione sostenendo un piano denso di strappi pericolosi
Il processo federativo europeo è una necessità dovuta anche alla globalizzazione Infatti un localismo ben strutturato può sfruttarne i benefici e gestirne gli effetti negativ
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La prise de pouvoir a Parigi di Jean Pierre Raffarin, pioniere della Francia «profonda» della regionalizzazione e della décentralisation, è un po´ il simbolo alto e riassuntivo di questo processo federativo europeo.
Un processo «spinto» dalla stessa Unione. Che ha preferito per la sua politica di coesione, interlocutori istituzionali in «prossimità» alle aree di intervento. Un processo favorito dagli stessi Stati nazionali. Che hanno visto nell´«altro» confine, quello concentrico dell´Unione, la nuova garanzia di contenimento delle storiche spinte autonomistiche nel proprio seno. Un processo necessitato dall´onda lunga della globalizzazione. Rispetto a cui si è subito capito che solo la flessibilità di un localismo ben strutturato poteva sfruttarne i benefici e, insieme, ammortizzarne le forze di devastazione economica e culturale.
Insomma, negli ultimi decenni, l´Europa che ha inventato gli Stati nazionali, è stato anche il posto del mondo dove è stato meglio inteso l´insegnamento che dall´università di Tel Aviv ci dava Daniel J. Elazar: «Il federalismo è la sola forma di unità possibile nella modernità».
Dopo il pallido regionalismo italiano che comincia a funzionare nel 1970, sarà l´elezione diretta dei sindaci, nel 1993, il vero inizio del nostro processo federativo. Perché radicato nelle perduranze della storia nazionale, perché finalmente capace di far venire fuori le energie delle comunità di «destino». E si capisce che le regioni, per acquistare vitalità, dovranno seguire quella strada. Non solo in senso istituzionale (a questo provvederà l´elezione diretta dei presidenti regionali, oggi ciecamente rimessa in discussione a favore di un´Italia a pezze d´Arlecchino...). Ma soprattutto in senso culturale: per la necessità, cioè, di connettersi intimamente alle stesse radici dell´autonomia territoriale del Paese. Insomma, per dirla tutta, in Italia non è possibile un federalismo regionale che non sia, innanzitutto, federalismo municipale. Come non è possibile concepire regioni vitali che non siano anche regioni-federazioni di comuni.
Risponde a queste coerenze il referendum popolare che il 7 ottobre 2001 conferma la riforma «federale»: non a caso co-decisa insieme dalla maggioranza parlamentare dell´Ulivo e dall´unanime «mondo» di regioni, province, comuni.
Una riforma che capovolge il sistema delle attribuzioni nella Repubblica per fondare una nuova, più salda unità repubblicana, basata su tre pilastri.
Il pilastro della coesione territoriale. Ora la posizione delle componenti territoriali della Repubblica è paritaria. Non è più legittimo il centralismo nazionale ma neppure il centralismo regionale. Ora i comuni hanno una tutela costituzionale nei loro statuti, nella loro legge elettorale, nei loro organi di governo, nella loro autonomia finanziaria. Sono la base generale delle funzioni amministrative. Partecipano al sistema regionale con i Consigli delle autonomie locali e al sistema parlamentare con propri rappresentanti nella Commissione per le questioni regionali.
Il pilastro della coesione sociale. La compagine delle autonomie territoriali è tenuta insieme, come dice la Costituzione, dalla garanzia «su tutto il territorio nazionale» - e dunque «prescindendo dai confini territoriali dei governi locali» - dei «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali». È tenuta insieme da un «fondo perequativo» istituito «per i territori con minore capacità fiscale per abitante». È tenuta insieme da «interventi speciali» e dalla destinazione di «risorse aggiuntive in favore di determinati comuni, province, regioni».
Il pilastro della coesione istituzionale, infine. Spetta allo Stato assicurarla. Allo Stato-governo con la sua responsabilità primaria per l´osservanza dei vincoli comunitari europei; con il suo potere di controllo anche sostitutivo per violazioni e omissioni regionali. Allo Stato-parlamento, con la legislazione esclusiva sulle materie che «tengono» l´intero sistema e per quella che detta i principi fondamentali nelle materie di competenza regionale.
È questo il disegno visibile della riforma federale del 7 ottobre. Non vi è più centralismo statale. Ma non vi è neppure diaspora di autonomie. Vi è un´articolazione precisa dei governi territoriali. Ma vi sono anche tutte le possibilità per una politica di unità nella diversità.
E poi vi sono le garanzie della Costituzione che, certo, la nuova forma repubblicana richiama alle armi. Il Presidente della Repubblica per il quale le parole della Costituzione - «rappresenta l´unità nazionale» - ora significano qualcosa di più di quanto significassero ieri. La Corte costituzionale che ora, sbaraccato il vecchio ordine dei controlli statali, si vede attribuire, in prima e ultima istanza, i conflitti tra i governi del sistema. Ma anche il Parlamento che il referendum ha chiamato alla riforma perché divenga, con un Senato federale, il luogo naturale di riconduzione, a centro della Repubblica, di tutte le periferie italiane e la stanza di compensazione dei loro interessi. Insomma, anche per l´Unione europea, la Repubblica italiana resta quella dell´articolo 5 della Costituzione: "Una e indivisibile".
Rispetto a questo panorama - che è anche cantiere aperto - si sta manifestando una straordinaria schizofrenia governativa. C´è, da un lato, il ministro delle Regioni ha imboccato, finalmente, la via maestra dell´attuazione costituzionale. Una via che passa, come fu già per la grande riforma dell´Ulivo, per una intesa con il mondo delle autonomie. Una intesa generale interistituzionale conclusa il 30 maggio e intese specifiche sui punti cruciali. E c´è, dall´altro lato, il ministro per le Istituzioni, l´on. Bossi, che cerca di sfasciare punto per punto quel disegno e le sue garanzie. Attenzione: non è il Bossi un po´ così dei comizi padani. È il ministro Bossi che esterna, come ieri, in Parlamento e si fa approvare solennemente dal Consiglio dei ministri un insostenibile progetto di legge: quello che porta il nome di devolution, già in discussione al Senato.
Insostenibile perché condensa, in poche righe, tanti strappi eversivi della sostanza costituzionale. I fatti più gravi di quel progetto non sono tanto nella implicita fine del sistema sanitario nazionale o nella creazione di una polizia regionale competente per i «piccoli crimini» o nella «regionalizzazione» dei programmi di insegnamento scolastico. Sono tutti questi, certo, fatti impensabili per l´unità repubblicana. Eppure quello che preoccupa di più è l´attacco metodico ai pilastri del nuovo sistema federale.
Basta confrontare il progetto «leghista» con le «forme e le condizioni particolari di autonomia» previste già dalla Costituzione (art. 116).
La devolution scuote il pilastro della coesione territoriale: escludendo dalla sua attuazione ogni coinvolgimento dei governi locali. L´ossessione è per le regioni, per i loro poteri, per i loro confini. In questo neo-centralismo, è ormai abusivo il ricordo del Carroccio comunale.
Il pilastro della coesione sociale è ignorato perché una devoluzione, fatta regione per regione, prescinde dai principi di coordinamento e di solidarietà fissati, in una visione nazionale, dall´art. 119 della Costituzione. Insomma: Mezzogiorno, addio.
Il pilastro della coesione istituzionale salta perché con la devolution si vorrebbe introdurre una sorta di legislazione regionale «esclusiva»: che è un non senso nei moderni sistemi federali fatti di interdipendenze e non di separatezze.
E anche le garanzie della Costituzione in questo gorgo annegano. La rigidità delle norme costituzionali è messa in crisi da un meccanismo di autoapplicazione, secondo il quale ogni regione modifica da sola, à la carte, le proprie competenze. La Corte costituzionale, massima garanzia di unità del nostro sistema come di ogni altro sistema federale, diverrebbe una sorta di collegio arbitrale in cui ciascuno si sceglie i suoi rappresentanti (ci sarebbe, per farlo, una pomposa «assemblea permanente dei delegati regionali»...). Il Parlamento vedrebbe "territorializzato", e dunque squartato, il suo Senato. Nord, Centro, Sud: a ciascuno il suo Senato. Così il disegno di un Senato federale, luogo centrale dell´incontro fra lo Stato e le autonomie - e perciò garanzia unitaria della Repubblica delle diversità - cederebbe il passo a un opposto disegno. Quello di "senati" contrapposti tra loro, ciascuno con un pezzo di Italia in bocca. La secessione per implosione, insomma.
Sarebbe questo il sistema Italia da inserire nella Costituzione europea. E ognuno capisce che di fronte a tanto sconquasso, non basta più l´inno di Mameli. Bisognerebbe far tornare Garibaldi: per cominciare. Questa volta da Marsala a Bruxelles.