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I GIOCOLIERI DELLA COSTITUZIONE
ANDREA MANZELLA

 

da Repubblica - 23 luglio 2002

 

L´ATTUAZIONE della riforma federale nella Repubblica «una e indivisibile» è impresa difficile di per sé. Non a causa di deficienze di impianto (come invece continuano meccanicamente a ripetere, da ruoli istituzionali, quelli che, per ragioni elettorali, l´avversarono). Ma per l´intrinseca «povertà» del diritto costituzionale, inadatto da solo a rifinire gli edifici che fonda. Da che mondo è mondo, infatti, l´intervento costituente deve essere seguito da una fedele «intendenza».

SEGUE A PAGINA 15

I giocolieri della Costituzione tra esperimenti e proclami show
Come dimostra l´ultima polemica la prevalenza parlamentare del Polo invece di stabilizzare il sistema politico sembra metterlo in emergenza permanente
Il presidenzialismo appena rilanciato è solo l´etichetta di una bottiglia vuota. Tuttavia va preso sul serio: riflette la tendenza della maggioranza a forzare situazioni istituzionali

Sono le leggi ordinarie, i regolamenti parlamentari, le convenzioni istituzionali, i provvedimenti amministrativi che si devono avvitare ad esso e completarlo. La maggioranza di governo si trova dunque, da un lato, a rispondere a questo dovere costituzionale. E deve fare appello perciò a tutte le energie istituzionali, dal Parlamento alla Corte costituzionale, dalle Università all´intero mondo delle autonomie, perché questa cruciale transizione repubblicana proceda con ordine e rapidità, al minore tasso possibile di conflittualità. Il recente accordo interistituzionale di Palazzo Chigi e certe iniziative del ministro delle regioni corrispondono a questa logica.
Ma questo necessario clima di pace istituzionale ad un certo punto si rompe proprio all´interno della maggioranza di governo. Essa infatti deve continuare a sostenere che il «vero» federalismo non è quello della Costituzione votata dal corpo elettorale nel referendum. Ma quello contenuto nello squinternato progetto di devolution dell´on. Bossi. Quello che sancisce un «fai-da-te» regionale, un costituzionalismo «à la carte», del tutto opposto alla logica cooperativa e solidale del federalismo entrato in Costituzione. La maggioranza si trova dunque di fronte, tanto per cambiare a un conflitto di fedeltà.
L´obbligo istituzionale ad attuare al meglio la riforma e l´obbligo politico a sabotarla, nella sua vera sostanza, per far posto a quella della Lega.
Davanti al Capo dello Stato, questo conflitto è stato svelato soprattutto dalle dichiarazioni senza fronzoli dei rappresentanti delle regioni, delle province, dei comuni. Tutti preoccupati dei ritardi nell´attuazione. Tutti concordi nel rifiutare la deviazione senza uscita della devolution.
È da questa strettoia che la maggioranza ha inventato il rilancio del presidenzialismo. Per ora, come etichetta su una bottiglia piena di vuoto. Da allineare accanto a quella della devolution, nella stanza dei giocattoli della Casa delle Libertà. E tuttavia da prendere sul serio nei suoi effetti d´annuncio. Perché anche nell´invenzione di diversivi, viene fuori la pericolosa tendenza della maggioranza a forzare le situazioni istituzionali, a cercare protesi e additivi istituzionali. Come se non bastassero i numeri parlamentari a rassicurarla della sua capacità di governare. La larga prevalenza parlamentare invece di stabilizzare il sistema politico, agisce così come una minaccia che lo pone in emergenza permanente, in crisi continua.
È avvenuto così anche per la sbrigativa idea (un po´ scolastica, un po´ datata, un po´ sbagliata) di puntare al presidenzialismo come contropotere al federalismo. Quell´annuncio improvvisato ha saltato infatti almeno tre passaggi di sicurezza.
Il primo è che la dimensione unitaria del federalismo non va ricercata in poteri fuori da esso, ma in meccanismi interni al sistema stesso federale.
Precisamente in quei principi fondamentali di legislazione concorrente con cui lo Stato difende l´uguaglianza repubblicana (e che la maggioranza vorrebbe abolire come fonte di «confusione»). Precisamente, ancora, in quella compartecipazione delle autonomie ai meccanismi parlamentari: nella Commissione per le questioni regionali (in ritardo ostruzionistico, dopo oltre 9 mesi dal referendum, nonostante gli sforzi di Nicola Mancino per trovare una ragionevole soluzione); nel Senato della Repubblica federale (in attesa di un progetto che dopo tanti anni sviluppi l´antico embrione concepito in Assemblea Costituente).
Precisamente, infine, in quel punto strategico di ogni Stato composito che è la ripartizione equilibrato delle risorse finanziarie (ora oggetto, invece, di una contro-legislazione di riaccentramento).
Il secondo passaggio omesso è che l´idea di garanzia contro i rischi di disunione nazionale verso il basso, deve combinarsi con una riserva intangibile di unione nazionale nel punto più alto della Repubblica. Dinanzi ad un regionalismo che deve fare i conti ogni giorno, letteralmente, con il potere centrale di governo, valgono sempre più le motivazioni a favore di un Capo dello Stato che sia la garanzia «di chiusura», l´ultima risorsa della «Repubblica di tutti». E perciò espresso da un´assemblea parlamentare a cui partecipino le regioni come istituzioni (quella partecipazione rafforzata dal Senato federale). Rinunciare alla forza, non solo simbolica, di una rappresentanza dell´unità nazionale sopra le parti, è ancora una fuga verso super-poteri assoluti. Nell´illusione di bloccare il sistema con un meccanismo monolitico in cui i poteri di capo dello Stato si cumulino con quelli di capo del governo. (Mentre un certo presidenzialismo italiano potrebbe tranquillamente continuare a svilupparsi lungo il naturale cammino già intrapreso: con il confronto elettorale per la carica di primo ministro tra leader di coalizioni...).
Il terzo passaggio logico, contraddetto più che omesso, è la necessità sempre più forte di elevare - e non ulteriormente abbassare - le soglie delle garanzie in un ancor giovane sistema bipolare. Invece di sognare un presidenzialismo assoluto alla Chirac (ma senza le garanzie della Costituzione francese) una classe di governo cosciente del rischio democratico, dovrebbe preoccuparsi delle garanzie reciproche dell´alternanza. E porsi le domande che chi guarda lontano già si pone. Sono costituzionali i regolamenti parlamentari quando assommano fatto elettorale maggioritario ai vincoli che per la minoranza pone il parlamentarismo «razionalizzato»? costituzionale, in base al principio del giusto processo («un giudice terzo e imparziale»), l´articolo 62 della Costituzione che consegna alla maggioranza parlamentare il giudizio sulla composizione delle Camere? È costituzionale, in base al principio di eguaglianza, l´articolo 68 della Costituzione quando riserva al giudizio di maggioranza l´impunità per fatti estranei alle funzioni parlamentari? E, per tornare al federalismo, è costituzionale, sul metro della cittadinanza politica nazionale, quella legge costituzionale che attribuisce ad ogni singola regione il potere di darsi una forma di governo diversa, facendo dell´Italia una Repubblica a pezze d´Arlecchino?
Insomma sono ormai divenuti reali certi paradossi di manutenzione delle libertà politiche. Democratizzare la democrazia. Costituzionalizzare la Costituzione. Il problema è infatti quello di far combaciare i pezzi ora sparpagliati del puzzle istituzionale che si chiama Italia. E solo una classe politica tutta intera, responsabile e persuasa dello scopo comune, e non costretta a sfiancarsi nei sospetti di una crisi istituzionale permanente, potrebbe farcela.