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Il dibattito sullo "spoils system"
12-11-2002
Dopo gli articoli di Sabino Cassese, Daniele Checchi e Pietro Garibaldi e Pasquale Cerbo, ospitiamo due nuovi interventi: Franco Bassanini, "Una risposta a lavoce.info" e Elisabetta Gualmini, "La riforma dei ministeri: verso quale modello di pubblica amministrazione?"

Una risposta a lavoce.info, di Franco Bassanini

I tre articoli sulla riforma della dirigenza pubblica pubblicati da lavoce.info offrono un quadro interessante delle principali opinioni in materia. Mi pare utile tuttavia precisare alcuni dati di fatto e sottolineare alcuni criteri di valutazione che rischiano di essere trascurati nel dibattito in corso.

1. Troppi parlano di spoils system senza conoscerlo. Forse sarebbe il caso di ricordare: - che lo spoils system non caratterizza l’amministrazione dei paesi anglosassoni, ma solo di alcuni di essi (e in specie gli Stati Uniti), - che anche negli Stati Uniti si applica solo ad una parte dei dirigenti delle amministrazioni e agenzie federali; - che il sistema americano ha una serie di importanti checks and balances (come l’advice and consent del Senato su tutte le principali nomine). In più: nello spoils system americano il dirigente rimosso perde il posto; nella "variante italiana" (ma può considerarsi una variante di quel sistema?) perde l’incarico, non il posto.

2. Non è vero che l’amministrazione italiana sia stata caratterizzata fino al 1998 dalla inamovibilità degli incarichi dell’alta dirigenza; e non è vero che lo spoils system all’italiana è stato introdotto solo con l’affermarsi dei sistemi maggioritari. Da sempre, e dunque anche quando vigevano sistemi elettorali proporzionali, vige un regime di precarietà degli incarichi per i capi delle ambasciate, delle prefetture, e delle grandi unità militari: possono essere in qualunque momento sollevati dall’incarico e messi a disposizione per decisione dell’autorità politica (Consiglio dei ministri, su proposta del ministro di settore). Si tratta, a ben vedere, della maggioranza assoluta della dirigenza "apicale" delle amministrazioni dello Stato. Aggiungo che, dal 1988 (riforma Manzella), i Capi dei dipartimenti della Presidenza del Consiglio (una ventina di dirigenti) possono essere sostituiti da ogni nuovo governo.

3. All’opposto di quanto era stabilito per prefetti, ambasciatori, generali e ammiragli in comando, negli altri ministeri gli alti dirigenti, pure anch’essi di nomina politica (ancorché, spesso, estranei all’amministrazione, e dunque non filtrati da un concorso pubblico), godevano della inamovibilità dell’incarico: un dirigente incapace o negligente poteva essere sostituito solo promuovendolo, col suo consenso, ad altro più prestigioso incarico. A tacer d’altro, il nostro ordinamento appariva inspiegabilmente contraddittorio. Il ministro della Funzione Pubblica Sabino Cassese non fece nulla per risolvere questa contraddizione, anzi non ebbe nulla da dire né contro la situazione di precarietà degli incarichi di una metà della nostra alta dirigenza, né contro l’irresponsabilità dell’altra metà.

4. La distinzione tra funzioni e responsabilità politiche e funzioni e responsabilità di direzione delle amministrazioni fu bensì introdotta nel 1990 (legge 142) e nel 1992-93 (decreto 29) ma con molti limiti e molta confusione. I politici conservavano poteri di avocazione, riforma, revoca degli atti delle amministrazioni; di contro, non disponevano di adeguati uffici di staff per l’elaborazione degli indirizzi politici e il controllo sui risultati conseguiti dalle amministrazioni. La riforma del 1998 eliminò le forme di ingerenza della politica nella gestione delle amministrazioni (incontrando anche molte reazioni: per es. di sindaci ed assessori abituati a gestire in prima persona le concessioni edilizie o le gare di appalto di opere e servizi…); e distinse nettamente tra le amministrazioni, vincolate al principio costituzionale della imparzialità, e gli uffici di diretta collaborazione, per i quali valeva il rapporto fiduciario con l’autorità politica.

5. Non si può comprendere la riforma della dirigenza del 1998 se non la si inquadra nel più generale disegno di riforma avviato in quegli anni: al posto di uno Stato invadente, autoritario, centralizzato, burocratico, rigido, inefficiente, la riforma progettò uno Stato più leggero, più flessibile, più decentrato. Outsourcing e liberalizzazioni dovevano consentire alle amministrazioni di concentrarsi sul loro core business (attività di regolazione, fonctions régaliennes); l’applicazione del principio di sussidiarietà doveva avvicinare l’amministrazione ai cittadini, alle imprese, ai sistemi produttivi territoriali; la riorganizzazione dei ministeri superare la storica frammentazione del nostro esecutivo (finanze e tesoro, infrastrutture e trasporti); la semplificazione dei procedimenti, l’autocertificazione, l’introduzione dell’AIR ridurre i costi burocratici e da regolazione; l’aziendalizzazione delle amministrazioni, la pluralizzazione dei loro modelli organizzativi (dipartimentalizzazione, agenzie), l’introduzione di indicatori e controlli di performance, la privatizzazione del rapporti di impiego pubblico, la contrattualizzazione della dirigenza doveva spingere le amministrazioni a misurarsi sul terreno della qualità dei servizi e delle prestazioni, non solo su quello del rispetto formalistico di norme e procedure. I risultati ottenuti appaiono, a consuntivo, solo in parte soddisfacenti. Ma l’OCSE, nella Regulatory Reform Review dedicata all’Italia, registrò tuttavia importanti progressi. L’autocertificazione e gli sportelli unici per lo start up di nuovi impianti produttivi sono best practices studiate nelle conferenze internazionali. E la spesa per il personale delle PP.AA. calò dal 12,8% del 1990 (rispetto al PIL) al 10,5% del 2000 (a fronte del 14,6% della Francia).

6. Con la riforma, abbiamo cominciato ad importare molti principi e istituti propri dell’esperienza anglosassone, e a mettere in discussione il modello statalistico, autoritario e centralistico dominante nell’esperienza continentale europea e basato sulla rigida separazione tra diritto amministrativo e diritto comune. Per quanto possibile, le amministrazioni devono comportarsi come aziende, usare strumenti contrattuali e non autoritativi nei rapporti con i cittadini, ed anche nei rapporti con i loro dirigenti e dipendenti. Sapevamo che ciò avrebbe innescato resistenze corporative e culturali forti, che si sono puntualmente verificate: gli articoli di Cassese ne sono l’espressione più nobile.

7. La privatizzazione e contrattualizzazione del rapporto di impiego pubblico si inquadra in questo disegno. La riforma del 92-93 aveva avviato il processo, ma con molte timidezza, e ne aveva escluso l’alta dirigenza. La scelta del governo Prodi fu invece netta: le pubbliche amministrazioni hanno i poteri e gli obblighi del privato datore di lavoro: dunque massima possibile assimilazione del rapporto di lavoro dei dipendenti e dirigenti pubblici con quello delle imprese private. Contratto collettivo nazionale, per stabilire i minimi retributivi e le garanzie contro rimozioni e licenziamenti arbitrari; contratti individuali, per definire incarichi, obiettivi, risorse attribuite, trattamenti stipendiali, in gran parte correlati alle responsabilità e ai risultati. Per impegnare le amministrazioni sul terreno della qualità dei servizi, occorreva correlare le carriere ai risultati conseguiti. Dunque superare il principio della inamovibilità e affermare la temporaneità dell’incarico. Ma insieme, prevedere una durata dell’incarico correlata alla missione: dunque non troppo breve, né troppo lunga. Ma soprattutto occorreva vietare rimozioni arbitrarie e ancorare il rinnovo dell’incarico alla valutazione oggettiva dei risultati. Furono previsti: un collegio di garanzia col potere di impedire "rimozioni politiche"; indicatori di performance e organi di valutazione; un procedimento di contestazione in contradditorio per la valutazione dei risultati; il diritto alla conferma e alla promozione in caso di valutazione positiva, ecc. E’ proprio per l’esistenza di queste garanzie (oggi in gran parte cancellate dalla riforma Frattini) che la Corte Costituzionale ha ritenuto la riforma del 1998 costituzionalmente legittima; cioè conforme ad una Costituzione, come la nostra, che stabilisce il principio della imparzialità dell’amministrazione. La temporaneità degli incarichi non configge con l’imparzialità. Ma solo se è correlata alle performance, non se dipende dalle esigenze e dalle vicende della politica.

8. Per questo la riforma del 1998 non ha introdotto lo spoils system. Non ha esteso all’ "altra metà" dell’alta dirigenza il regime di precarietà dell’incarico proprio dei prefetti, degli ambasciatori, dei generali e ammiragli in comando. Si è limitata ad assimilare i (25) segretari generali e capi dipartimento degli altri ministeri al regime in vigore dal 1988 per i (20) capi dipartimento della presidenza: la possibilità di avvicendarli al momento della formazione di un nuovo governo. La ratio è intuitiva. Come i prefetti, gli ambasciatori e i capi dei dipartimenti della presidenza, si tratta dei pochi altissimi funzionari che rappresentano il punto di snodo tra politica e amministrazione. Per lo più, essi hanno funzioni di coordinamento, situate al confine fra l’indirizzo politico e la direzione amministrativa. A quel livello (di responsabilità dei dirigenti e di visibilità delle scelte politiche) è difficile che le scelte dei politici si ispirino ad una brutale logica di spoils system (l’esperienza ha suffragato questa intuizione: si pensi alla nomina di Siniscalco, Grilli e Barca al vertice dei dipartimenti dell’ex Tesoro-Bilancio).

9. Per tutti gli altri (i 400 dirigenti generali dei ministeri), la strada prescelta era dunque l’assimilazione al regime dei dirigenti delle aziende private, con le garanzie e le flessibilità proprie del rapporto contrattuale della dirigenza delle aziende private. Per questo sono sconvolgenti le innovazioni introdotte dalla controriforma Frattini. Se lo Stato si riserva di usare a suo piacere il diritto privato o l’autorità della legge, se i contratti possono essere risolti con atto unilaterale del datore di lavoro; se il diritto pubblico si riappropria del nucleo centrale del rapporto di impiego dei dirigenti (il contenuto dell’incarico, gli obiettivi, le risorse); se i dirigenti possono essere sostituiti senza alcuna motivazione basata sui risultati ottenuti; se gli incarichi possono essere conferiti per pochi mesi; se il dirigente capisce che non sarà valutato per la sua professionalità e le sue performance, ma innanzitutto per la sua tessera di partito e per la sua disponibilità a farsi carico di tutte le esigenze della politica (comprese quelle che non possono essere dignitosamente tradotte in indirizzi e direttive): allora tutto l’impianto della riforma ne viene travolto; e con esso la sua finalità principale, premiare l’efficienza e la qualità delle prestazioni e dei servizi. Resteranno i miglioramenti retributivi (spesso consistenti); ma se ne perderà la motivazione, quella di incentivare l’innovazione e la produttività.

10. Ma non aveva anche la riforma del 1998 "azzerato" gli incarichi, come ora ha fatto la legge Frattini? Sì e no . Ovviamente, il passaggio da un regime pubblicistico ad uno privatistico richiedeva una netta cesura. Bisognava stipulare i contratti, e nel contratto devono convergere le volontà delle due parti. Ma il contratto nazionale imponeva, nella scelta del contraente, criteri di professionalità e competenza. E vietava operazioni di spoils system. Per lo più le amministrazioni si sono attenute a queste regole. Ci sono state, è vero, eccezioni negative. La grandissima maggioranza dei dirigenti è tuttavia transitata dal vecchio al nuovo regime, mantenendo l’incarico (e conseguendo incrementi retributivi dell’ordine del 35-40%, ancorché in parte correlati ai risultati). Non è vero infatti che nel 1998-99 il 16% dei dirigenti è stato sostituito e posto a disposizione del ruolo unico senza incarico. In prima applicazione, i dirigenti generali a disposizione del ruolo unico rappresentarono l’1,3% del totale, dopo un anno arrivarono al 3% del totale (i 40 dirigenti generali a disposizione registrati nella prima relazione al Parlamento comprendono infatti i titolari di posizioni soprannumerarie o fuori ruolo - membri dei collegi sindacali degli enti previdenziali, di commissioni ministeriali, di commissariati del governo, ecc. - che erano stati confermati esattamente negli incarichi ricoperti). Un ricambio del 3% non è spoils system: può sembrare perfino troppo modesto, per chi non consideri che il ricambio vero deve avvenire valutando caso per caso professionalità e risultati, non seguendo pregiudiziali logiche di partito.

11. Il successo o il fallimento della riforma del 1998 era ovviamente legato alla effettiva introduzione di meccanismi oggettivi di valutazione delle performance: direttive dell’autorità politica, indicatori quantitativi, attivazione di meccanismi di controllo e valutazione. I risultati conseguiti nei primi anni, al riguardo, non sembrano esaltanti. Ma il giudizio drastico di Cassese non rispecchia la verità. L’immagine della pelle di leopardo sembra più adeguata ad una realtà che è fatta - come negli altri Paesi dell’Europa occidentale - di esperienze d’avanguardia e di ritardi, di successi e di insuccessi. Dobbiamo diffondere le best practices , non arrenderci alle difficoltà!

La riforma dei ministeri: quale modello di pubblica amministrazione?, di Elisabetta Gualmini

Il dibattito politico suscitato dalla riforma Frattini sul personale di vertice delle amministrazioni si è prevalentemente concentrato sull’estensione del "sistema delle spoglie" all’intero complesso della dirigenza (e non più solamente alle posizioni apicali). Su questo tema sono già autorevolmente intervenuti su lavoce.info Sabino Cassese e Pasquale Cerbo. Tuttavia, a mio giudizio, il provvedimento andrebbe esaminato alla luce di una seconda e altrettanto importante normativa introdotta dall’esecutivo: la legge delega sulla riorganizzazione dei ministeri (legge 137/2002), che prefigura il ritorno al modello delle direzioni generali in sostituzione di quello, attualmente più diffuso, dei dipartimenti. La combinazione di un’elevata politicizzazione delle nomine dirigenziali e il ripristino della figura del segretario generale, come super-direttore legato al ministro da un rapporto di tipo fiduciario, configurano un modello di pubblica amministrazione indiscutibilmente più accentrato rispetto a quello delineato nella precedente legislatura.

 

Le nuove norme sulla dirigenza

Le novità più rilevanti della legge 145/2002 rispetto all’ordinamento precedente sono almeno quattro.

In primo luogo, l’estensione del meccanismo di nomina politica: oltre ai dirigenti di livello generale (già presi in considerazione dalla riforma Bassanini), per i quali si prevedeva il decadimento dopo 60 giorni dall’entrata in vigore della legge, anche il destino dei dirigenti di seconda fascia è stato saldamente ancorato alle decisioni dell’esecutivo tramite un meccanismo di silenzio-assenso che scatta dopo 90 giorni.

In secondo luogo, l’abolizione della durata minima dei contratti (in precedenza pari a due anni): gli incarichi di prima fascia possono infatti arrivare ad un massimo di 3 anni e i restanti ad un massimo di 5. (in precedenza 7 anni).

In terzo luogo, l’innalzamento della percentuale di contratti attribuibili a personale esterno all’amministrazione: dal 5% al 10% dell’organico per i dirigenti di prima fascia, dal 5% all’8% per i dirigenti di seconda fascia.

Infine, l’abolizione del ruolo unico della dirigenza dello Stato nel quale veniva messo a disposizione il personale non reincaricato eventualmente eleggibile per procedure di mobilità.

 

La prima ondata di ricambi e l’esperienza degli altri paesi

Su 387 dirigenti generali, allo scadere dei primi due mesi dall’entrata in vigore della legge, ne sono stati confermati 232 (60%) e rimossi 155 (40%), di cui 85 (22%) assegnati a nuovo incarico, 41 (11%) spostati ad altre attribuzioni con trattamento economico equivalente, e 29 (7%) assegnati a incarichi di studio per la durata di un anno. I dirigenti sottoposti a un più intenso stress da rimozione sono stati quelli nei ministeri dell’Istruzione (dove sono stati conferiti incarichi della durata di 5 mesi), delle Infrastrutture e dell’Economia.

Va tuttavia sottolineato che non solo nella lontana burocrazia statunitense - da tempo governata da una dirigenza che viene e va (i cosiddetti In-and-Outers) - ma anche nelle vicine burocrazie europee il meccanismo delle nomina politica è più radicato di quanto si pensi. È il caso della Francia, dove tramite il tour extérieur si assiste non di rado al valzer delle poltrone dirigenziali; della Spagna in cui nel 1996, con un mix di nomine politiche e libere designazioni, il neo-costituito governo Aznar sostituì l’88% dell’alta burocrazia ereditata da Gonzales; della Germania dove accanto ai dirigenti di carriera è sempre più massiccia la quota dei funzionari politici (politische Beamte) che possono essere destituiti qualora non risultino graditi ai ministri di turno, per non parlare dei colpi di spugna, o di maglio, compiuti dalla Thatcher nelle strutture dipartimentali britanniche. Non c’è dunque da scandalizzarsi se i governi - soprattutto laddove possono beneficiare di solide maggioranze parlamentari e pretendono di imprimere una svolta incisiva alle politiche dei governi precedenti - cercano di potenziare il controllo sulle burocrazie. Il problema risiede semmai nella qualità del personale selezionato (nonché, a monte, nella qualità delle politiche progettate).

 

 

 

 

La riorganizzazione dei ministeri

Se si esamina la riforma della dirigenza insieme alla legge delega sulla riorganizzazione del Governo, diventa più chiaro il disegno di pubblica amministrazione che ha in mente l’attuale maggioranza. Già all’indomani delle elezioni, il DL 217/01 aveva bloccato d’urgenza gli effetti della riforma Bassanini, riportando il numero dei ministeri da 12 a 14. L’obiettivo preannunciato è ora quello di ripristinare il vecchio modello delle direzioni generali al posto di quello dei dipartimenti, oggi presente in 10 dicasteri su 14. Le differenze tra i due assetti non sono trascurabili. Se il dipartimento, inteso come area di aggregazione di materie e settori omogenei (ovvero di direzioni generali affini), produce una maggiore integrazione interna responsabilizzando i capi-dipartimento sui servizi o le politiche di riferimento, le direzioni generali accrescono il grado di specializzazione funzionale (quindi di frammentazione), con il risultato di deresponsabilizzare i direttori e di accentrare le decisioni al vertice.

Entrambi i modelli sono legittimi ma producono effetti diversi.

Il primo replica il modello divisionale tipico delle aziende private, in cui i capi-divisione godono di una certa autonomia nel perseguimento dei propri obiettivi.

Il secondo riflette la tradizionale struttura gerarchico-funzionale in cui i direttori generali sono legati da un rapporto di dipendenza rispetto ad un super-manager (il segretario generale), legato da uno stretto rapporto fiduciario al Ministro e depositario in ultima istanza della linea del comando.

 

Le conseguenze

Nel complesso, l’intreccio tra un’accresciuta politicizzazione delle nomine dirigenziali e il ritorno ad una struttura piramidale ha almeno due conseguenze. Innanzitutto l’incremento del grado di precarizzazione del personale di vertice dell’amministrazione (e quindi di assoggettamento ai governanti di turno). La seconda conseguenza è quella di una minore indipendenza della burocrazia, visto che la dilatazione dei poteri di direzione nelle mani del Ministro consente a quest’ultimo di agire anche sui dirigenti di seconda fascia scavalcando di fatto il ruolo e le funzioni dei dirigenti di primo livello in precedenza pienamente responsabili dei propri sottoposti.




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