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L'intervento del sen. Fisichella sulla "devolution"

 

Riportiamo il discorso pronunciato al Senato il 26 Novembre dal sen Fisichella sul Disegno di Legge Costituzionale n. 1187 noto come "devolution alle regioni". Come i lettori potranno leggere l'autore muove critiche feroci alla proposta del Governo di modificare la Costituzione, attribuendo potestà completa alle Regioni in materia di Sanità, Polizia Locale e programmi scolastici locali; lo fa con argomentazioni politiche ineccepibili e con una difesa dei valori costituzionali e dell'esigenza di una visione unitaria nei tre campi che si collega alle migliori e più nobili tradizioni liberali. Nel clima deprimente determinato dal ricatto di Berlusconi e Bossi alla maggioranza parlamentare gli accenti di Fisichella non produrranno il minimo effetto, ma ci auguriamo che i lettori li apprezzino e li ricordino qualora su questo tema dovessimo andare a votare no a un referendum confermativo (la mancanza di una maggioranza dei due terzi comporterà automaticamente l'esigenza di un voto popolare).


Presidente:È iscritto a parlare il senatore Fisichella. Ne ha facoltà.
Fisichella (AN): Signor Presidente, onorevole rappresentante del Governo, colleghi, nella fase conclusiva della precedente legislatura il centro-sinistra ha compiuto la scelta grave e negativa di modificare il Titolo V, Parte II, della Costituzione.
Con riferimento al disegno di legge costituzionale di allora, sono intervenuto in Aula il 14 novembre 2000, per esprimere la mia ferma contrarietà. In tale mio intervento ho evidenziato che nel caso italiano non esistevano, e non esistono, le condizioni reali e pressanti perché si realizzi la transizione dallo Stato nazionale unitario - ancorché della specie regionale - allo Stato federale.
E formulavo altresì numerose altre considerazioni critiche su diversi aspetti cruciali, esprimendo in conclusione una duplice preoccupazione. "Temo due grandi pericoli. Anzitutto un aumento forte della conflittualità istituzionale, tra Regioni e Stato, Regioni tra di loro, comuni e Regioni, e così via. Non è per questa via che si servono le istituzioni. Inoltre, con uno Stato assediato da Regioni assetate di nuovi poteri, dunque con uno Stato in caduta di autorevolezza e progressivamente privato di funzioni e competenze, come e con quanta efficacia il Governo della Repubblica, a chiunque affidato, potrà dirigere la politica nazionale e promuoverla nel contesto comunitario e nella competizione internazionale? Una ingovernabilità pesante è nelle cose. Qualcuno sostiene" - continuavo allora - "che è bene approvare adesso queste modifiche costituzionali, per evitare che nella prossima legislatura maturi una riforma ancora peggiore. Ma, a parte il giudizio o il pregiudizio sull’avvenire, il punto è che la riforma in discussione, ribaltando tanti princìpi fondanti, se approvata aprirebbe una falla di portata incontrollabile per ampiezza e profondità, attraverso la quale - in una fase di disordine intellettuale e civile come la presente - potrebbe passare davvero il peggio, senza più alcuna opportunità di difesa e rendendo così assai difficile una revisione costituzionale condotta con responsabile misura e senso delle proporzioni".
Ero stato facile profeta. Adesso che la falla è aperta, siamo, con il disegno di legge costituzionale n. 1187 ("Modifiche dell’articolo 117 della Costituzione"), ad un ulteriore passaggio negativo, quello che va sotto il nome di devoluzione. Esso riguarda, come tutti sappiamo, l’attribuzione alle Regioni della competenza legislativa esclusiva in materia di "assistenza e organizzazione sanitaria; organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione; definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione, polizia locale".
Tale riforma federalista dello Stato, che passa, come dice la relazione che accompagna il disegno di legge costituzionale, per la "devoluzione di poteri effettivi di governo alle Regioni", dovrebbe caratterizzarsi per i criteri che seguono.
Il primo criterio sta nel rifiuto di un approccio che viene definito - non si sa con quanto rispetto per la storia del pensiero politico - sostanzialmente giacobino, sostituito dalla normativa proposta che viceversa sarebbe frutto di una pressione proveniente dalla società che il legislatore nazionale interpreta e traduce in norma. Ma - ecco un iniziale interrogativo - dove sarebbe tale pressione? Il cosiddetto federalismo, infatti, è tra i temi meno sentiti dall’opinione pubblica.
In secondo luogo, si fa riferimento ad asseriti "interessi reali del Paese", e in tale chiave si invocano a giustificazione considerazioni presentate come "sociologiche", ad esempio laddove si parla di rapporti tra andamenti demografici e servizi sanitari, o anche laddove si parla di polizia locale e caratteri diversi della criminalità in riferimento a specifiche situazioni ambientali.
Il terzo punto si concreta nell’affermazione che le critiche rivolte alla cosiddetta devolution circa i rischi di determinare disuguaglianze e fratture nel sistema sociale italiano come conseguenza dell’attribuzione di potestà esclusive alle Regioni confondono l’idea di uguaglianza con l’idea di uniformità. L'errore dei critici, in altri termini, è che nel loro pensiero "l'uguaglianza formale viene anteposta all'uguaglianza sostanziale".
In quarto luogo, viene affermato il duplice criterio, apparentemente metodologico, del gradualismo del processo di riforma e della sua direzione dal basso verso l'alto, non dunque calato dall'alto.
Comincio la mia analisi da questo quarto punto, relativo al gradualismo, che dovrebbe essere il più tranquillizzante, poiché richiama un metodo, quello appunto della gradualità, che è coerente con i fondamenti stessi della "razionalità strumentale", tipica del riformismo, le cui conseguenze sono perciò suscettibili di controllo e, quindi, di correzione.
Tuttavia non è in questo senso che viene inteso e proposto il criterio del gradualismo. Esso, viceversa, vuole significare che la cosiddetta devoluzione non è che il primo passo di tutto un ulteriore processo di revisione della Costituzione volto al ribaltamento completo dei caratteri dello Stato nazionale e del disegno istituzionale delineato dalla Carta fondamentale. Questo infatti vuol dire la seguente frase della relazione: "La scelta complessiva operata con il disegno di legge costituzionale si incentra sulle esigenze primarie indicate dalle Regioni e sulla attribuzione della potestà legislativa esclusiva in alcune materie essenziali. Si tratta in primo luogo delle materie della sicurezza, della sanità e della scuola, per le quali è riconosciuta la attivazione, da parte di ciascuna Regione, della propria competenza legislativa esclusiva. La devoluzione alle Regioni di queste materie configura il nucleo essenziale di quello Stato (davvero) federale, che si intende costruire nel tempo, con gradualismo e secondo un progetto lineare, che si articolerà in una serie di fasi successive, a partire dalla modifica della composizione dell'organo di giustizia costituzionale e dalla riforma del sistema parlamentare bicamerale".
In merito, si badi: a) le esigenze primarie che alimentano il disegno di legge costituzionale sono quelle indicate dalle Regioni; b) le materie trattate sono "in primo luogo" quelle della sicurezza, della scuola e della sanità, ma è nelle cose che altre debbano seguire, come atti ulteriori di un processo che una volta messo in moto non potrà e non dovrà arrestarsi; c) la devoluzione fin qui delineata è solo "il nucleo essenziale" di uno Stato davvero federale che vedrà come atti ulteriori, tra gli altri, la modifica della composizione della Corte costituzionale e la riforma del bicameralismo.
Prima di proseguire oltre, fatemi dire da subito, a quest'ultimo proposito, che sono contrario alla "integrazione regionale" della Corte costituzionale. Attualmente la Corte è espressa da tre grandi soggetti istituzionali: il Capo dello Stato, che rappresenta l'unità nazionale; il Parlamento in seduta comune, che esprime la volontà della nazione; l'ordine giudiziario che rinvia al principio di legalità e al conseguente criterio della certezza del diritto per tutti i cittadini. Sono tre soggetti, Presidente della Repubblica, Parlamento nazionale e ordine giudiziario, che fanno in tutti e tre i casi riferimento a una prospettiva di interesse generale. Non così le Regioni, riferibili comunque a interessi particolari, territoriali e civili, certo legittimi ma distinti rispetto a categorie "generaliste", quali sono l'unità nazionale, la volontà della nazione, il principio di legalità.
Posso peraltro convenire che, in analogia e in estensione di quanto avviene per l'elezione del Presidente della Repubblica, il Parlamento in seduta comune che elegge i giudici costituzionali sia integrato da un adeguato numero di soggetti designati ad hoc da Regioni, province e comuni, sempre però in numero complessivamente e significativamente inferiore al numero dei parlamentari nazionali. Oltre non mi sento di andare.
Quanto alla riforma del bicameralismo, ferma la possibilità di distinzioni funzionali e per materie dei due rami del Parlamento, ritengo che la privazione della funzione fiduciaria (concedere la fiducia e/o comminare la sfiducia) ridurrebbe ben presto il ruolo politico e anche legislativo della Camera che ne fosse colpita, e dunque è necessaria estrema cautela nell'affrontare un tema così delicato come la riforma dell'istituzione parlamentare, specie in una fase politico-sociale nella quale le prerogative politiche e legislative della rappresentanza nazionale mostrano già segni evidenti di sofferenza e deperimento.
Ma torniamo alla devoluzione. Avendo brevemente detto della pericolosità della nozione di gradualismo, che sembra una promessa ed è invece una minaccia, e sottolineando che il criterio della direzione e valutazione "dal basso verso l'alto", rivendicato come specifico del disegno di legge costituzionale in questione, privilegia le aspettative e gli interessi delle Regioni rispetto alle esigenze e all'interesse generale rappresentato dallo Stato nazionale, vale la pena di soffermarsi sia pur rapidamente su qualche aspetto di merito.
Guardiamo al tema della polizia locale. La relazione che introduce il disegno di legge n. 1187 richiama Luigi Einaudi, che viene definito "la figura più eminente del pensiero federalista italiano dopo Carlo Cattaneo". Senza voler discutere qui e adesso la plausibilità di tale giudizio, vediamo cosa dice in materia di polizia locale Einaudi in data 28 maggio 1947 durante i lavori dell'Assemblea Costituente: "Governo locale non vuol dire abdicazione dello Stato. In qualcuno degli statuti io ho visto qualche aberrazione a questo riguardo, aberrazione vera e propria. Alla Regione si pretende persino di dare il comando della polizia. Se noi daremo alla Regione, o a qualunque altro ente locale autarchico che volessimo creare, anche il governo della polizia avremo fatto un passo indietro; noi avremo percorso in senso inverso la strada che tutti gli Stati sono stati costretti a percorrere quando hanno voluto sul serio assicurare ai popoli la pubblica sicurezza. L'esperienza degli Stati federali è probante. Si parla molto in Italia delle gesta dei gangsters americani. Ora, ricordiamo che una della cause del gangsterismo americano fu appunto l'attribuzione del governo della polizia agli Stati anziché alla Confederazione; cosicché quando un delinquente passava dal territorio di uno Stato al territorio di un altro dei quarantotto Stati della Repubblica stellata, il delinquente poteva ritenersi salvo, almeno fino a quando non si fosse potuta esperire tutta la procedura necessaria affinché la polizia dello Stato ove il delinquente aveva commesso il crimine potesse rendere informata del fatto la polizia dell'altro ignoto Stato presso il quale il delinquente si era rifugiato. È infatti soltanto dopo la creazione della polizia federale che il fenomeno del gangsterismo ha potuto essere diminuito e in parte anche domato. La stessa esperienza è stata fatta dalla Confederazione svizzera dove, fino a poco tempo addietro, la polizia spettava ai cantoni. Un paio di anni fa" - racconta e ricorda Einaudi - ",trovandomi presso il decano della facoltà filosofica di Basilea, questi mi fece vedere, in prossimità della sua casa, un rigagnolo, dicendomi: "Qui è il confine tra il cantone di Basilea città e il cantone di Basilea campagna". E ricordo" - diceva lui - "il giorno nel quale qualche ladruncolo o anche qualche delinquente più grosso perseguitato dalla polizia del cantone di Basilea città, passava quel rigagnolo, poteva ridersi della polizia del cantone di Basilea città, almeno sino a quando questa non avesse invocato l'intervento della polizia di Basilea campagna. Anche in Isvizzera dunque fu necessario creare la polizia federale".
Si obietterà: ma la relazione parla per un verso di polizia locale in funzione essenzialmente di lotta alla microcriminalità e di prevenzione e repressione dei piccoli crimini; per un secondo verso di mera partecipazione dei poteri regionali e locali al coordinamento delle varie forze di polizia, regionali e locali.
Tuttavia, è difficile immaginare che presidenti di Regioni eletti a suffragio universale limitino il loro ruolo a una pura e semplice partecipazione al coordinamento dei diversi corpi di polizia, senza pretendere di assumerne il comando, e al contrasto della sola criminalità minore. Del resto, il criterio del gradualismo - così come emerge - non potrebbe che alimentare spinte crescenti all'espansione del ruolo della Regione, una volta che questa abbia la competenza legislativa esclusiva in materia di polizia locale: lo stesso ministro Umberto Bossi, in sede di audizione presso la Commissione affari costituzionali della Camera in data 17 gennaio 2002, ha confermato che con l'espressione "polizia locale" non si intende affatto alludere alla "polizia urbana e rurale" già contenuta nell'elenco del previgente articolo 117, né alla "polizia amministrativa locale" indirettamente attribuita alla potestà esclusiva regionale dall'attuale articolo 117, comma secondo, lettera h), bensì a "qualcosa di più e di ulteriore", prefigurando una legislazione regionale relativa a "ordine pubblico e sicurezza di rilievo locale".
In merito a tali previsioni, la Conferenza unificata Stato-autonomie locali, nel parere sul disegno di legge costituzionale in oggetto in data 14 febbraio 2002, ha espresso un giudizio di ambiguità e potenziale illegittimità. Infatti, a giudizio della Conferenza, tale previsione "non solo appare impraticabile ed incerta negli esiti per la tutela dei cittadini dal crimine, ma è in palese contrasto con fondamentali principi costituzionali, quali il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge penale, sia che ipotizzi un futuro smembramento delle forze di polizia nazionali", sia che venga realizzata "la creazione di una nuova polizia locale, competente (sulla base di auto-attributive leggi regionali) in ordine alla prevenzione ed alla repressione di tutti i reati non inquadrabili nella cosiddetta grande criminalità".
Quanto alle "fondate riflessioni sociologiche", secondo le quali i fenomeni criminali, avendo anche determinanti storico-sociali, non sono uniformi sul territorio nazionale, esse riflessioni risultano di un'ovvietà assoluta, quasi che nel loro impegno secolare prefetti e questori e comandanti dei Carabinieri e della Guardia di Finanza non si siano mai accorti di certe specificità ambientali, talché adesso per rimediare ci si debba affidare alla legislazione e alla polizia delle Regioni.
Lo stesso spessore sociologico hanno - mi dispiace usare questa espressione - le banalità che dovrebbero legittimare una competenza esclusiva in materia sanitaria, mentre basta la consultazione di un annuario di statistiche sanitarie e demografiche per aver chiaro che in taluni contesti regionali si presentano specifiche caratteristiche epidemiologiche, senza peraltro che ciò giustifichi l'attribuzione alle Regioni di una competenza legislativa esclusiva in materia sanitaria.
Semmai, assai rivelatore appare il privilegiamento che la relazione compie dell'uguaglianza sostanziale rispetto all'uguaglianza formale, liquidata quest'ultima come "uniformità". Non si coglie, infatti, che l'uguaglianza formale è il fondamento e la premessa dell'uguaglianza sostanziale. Senza la prima non è affatto garantita la seconda, che può trasformarsi progressivamente in disuguaglianza: e in effetti, sostenendo che l'uguaglianza sostanziale va ispirata alle esigenze che vengono dal territorio e dalle sue specificità storico-sociali, si legittimano le disuguaglianze da Regione a Regione, le quali Regioni saranno così libere di "disciplinare e organizzare le strutture" sanitarie, mentre allo Stato rimarrà solo l'intervento legislativo per la fissazione dei livelli minimi ed essenziali delle prestazioni e di tutela del cittadino, dovendosi leggere entro tali limiti il riferimento alla tutela della salute di cui all'articolo 32 della Costituzione.
Infine la scuola. Non è necessario ripetere quanto è ben chiaro circa l'importanza della scuola come fattore di identità culturale della Nazione. Chi conosca appena un po' la storia d'Italia ne è pienamente consapevole. Qui voglio richiamare adesso un'altra questione, altrettanto importante ed emblematica. I fautori della cosiddetta devolution sostengono, così ci dice la relazione, che "l'obiettivo della riforma è quello di realizzare il massimo di libertà di insegnamento". La mia valutazione è opposta.
Quando si affidano alle Regioni l'organizzazione scolastica, la gestione degli istituti scolastici, e soprattutto poi la strutturazione dell'offerta dei programmi educativi, dunque la "definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione"; quando perciò la Regione ha competenza legislativa esclusiva nel fissare quale parte dei programmi scolastici e formativi per essa, e solo a giudizio di essa, ha interesse specifico, quando ciò avviene la libertà degli insegnanti è messa gravemente a repentaglio. (Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U, Verdi-U e Misto-SDI).
Presidente: Senatore Fisichella, la prego di concludere perché è oltre il tempo a sua disposizione.
Fisichella (AN): Ho finito, signor Presidente, le sono grato.
Gli insegnanti sono liberi allorché la loro azione professionale può fare riferimento a norme generali e astratte vigenti per l'intero territorio nazionale, includendosi nella libertà di insegnamento anche la libertà di trasferirsi da una Regione all'altra della Nazione sapendo di potere e dovere adempiere allo svolgimento dei programmi di insegnamento e formazione con il medesimo livello di competenza, cosa che non può accadere se nelle singole Regioni gli insegnanti sono costretti allo sviluppo di programmi specifici alle varie Regioni. La territorializzazione degli insegnanti, la loro incorporazione nel territorio è dunque di fatto il ritorno a una forma di servitù della gleba: servitù psicologica, culturale, sociale, civile, politica. Altro che la modernizzazione di cui parla la relazione! (Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U, Verdi-U e Misto-SDI).
Bastano a me queste considerazioni per dare un giudizio pienamente negativo verso il disegno di legge costituzionale di cui stiamo parlando, e che si aggiunge al giudizio altrettanto negativo che espressi allorché nella precedente legislatura il centro-sinistra impose modifiche al Titolo V, Parte II, della Costituzione. Quanto all'ipotesi di emendamenti cosiddetti "salva-patria", vedremo se riuscirà ad emergere. Ma non credo che potrà cambiare il mio giudizio che affonda le sue radici, in una visione complessiva dello Stato e della Nazione. (Vivi applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U, Verdi-U e Misto-Udeur-PE e dei senatori Nania, Bongiorno, Pontone, Meduri, Balboni, Eufemi e D'Ambrosio. Molte congratulazioni).