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IL CASO
Il Paese spaccato che Bossi vuole,  ANDREA MANZELLA
 

 

da Repubblica - 8 gennaio 2004


C´È NELLA inquieta Italia all´inizio del 2004 un ministro delle Riforme istituzionali che minaccia di mandare il Parlamento a casa se entro il corrente mese «non si fa il federalismo». Può darsi che questa legislatura avrà accorciata la sua vita. Ma non certo perché «non si fa il federalismo», secondo l´onorevole Umberto Bossi. E questo per tre ragioni: ognuna più forte dell´altra. La prima ragione è che un vastissimo decentramento federale è già in Costituzione, da quando gli italiani lo approvarono con il referendum del 7 ottobre 2001. È un federalismo anche troppo profondo. Così almeno l´ha giudicato la Corte costituzionale con la sentenza (recente ma già famosa) n. 303 del primo ottobre scorso.

Il Paese spaccato che Bossi vuole

Esaminando la legge-obiettivo sulle grandi opere pubbliche, i giudici costituzionali hanno infatti detto che quando vi è «esigenza di esercizio unitario» sovraregionale, allora deve essere spostata, a favore dello Stato, addirittura la stessa competenza legislativa che spetterebbe alle regioni. Un federalismo troppo profondo l´hanno giudicato anche essenziali componenti della maggioranza (An, Udc) che hanno riproposto la tutela dell´"interesse nazionale della Repubblica" come garanzia nei confronti della legislazione regionale. Una formula unificante che va bene anche all´opposizione: purché non sia generica, ma puntuale sintesi dei paletti che già ci sono nella riforma del 2001. I paletti che indicano l´intima sostanza della indivisibilità della Repubblica. "La tutela dell´unità giuridica e dell´unità economica dell´ordinamento. La tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. Risorse e interventi dello Stato: per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l´effettivo esercizio dei diritti della persona. Il principio di leale collaborazione tra poteri pubblici centrali e periferici". Sono tutte misure di cautela già scritte nella Costituzione vigente e a cui la formula "interesse nazionale" deve specificamente riferirsi per definire l´orizzonte che il federalismo italiano non può varcare. Ma lo stesso fatto che si sono ritenuti necessari questi interventi di tutela unitaria significa che la svolta "federale" è già avvenuta...
La seconda ragione è che nessuno ostacola il cosiddetto "completamento" del federalismo. Questo completamento era già scontato nell´art. 11 della riforma costituzionale del 2001. La revisione delle norme sul Parlamento è stata da sempre e da tutti considerata il logico coronamento dell´avvenuta attribuzione alle regioni della massima parte delle funzioni legislative. La riconduzione del Senato a quella "base territoriale" che dal 1948 era rimasta una formula vuota, non è contrastata da nessuno.
Se vi sono responsabilità nella mancata accelerazione di questo cambiamento, esse sono dell´attuale maggioranza (ma anche istituzionali). Si è infatti negato l´ingresso, già da adesso, in Parlamento ai rappresentanti delle regioni e degli enti locali. Quell´apertura, prevista dalla legge costituzionale, con l´integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali, munita di nuovi, penetranti poteri procedurali.
Vi è solo discussione - che attraversa sia la maggioranza sia l´opposizione - sulla formula della rappresentanza territoriale nel nuovo Senato. Se, a modello Germania, il Senato dovrà essere costituito dai rappresentanti dei governi territoriali. Se, invece, a modello Stati Uniti, si devono solo rafforzare i vincoli regionali dei senatori: che avranno però un libero mandato politico. Se, ancora, dovrà prevalere piuttosto una formula mista: rappresentanti dei governi territoriali e senatori eletti con forte radicamento regionale. Come si vede, un dibattito (quasi) tecnico, senza alcuna coincidenza con gli schieramenti politici. La ricerca di una giusta composizione che tenga conto delle tre funzioni che dovrà svolgere il "nuovo" Senato: di rappresentanza territoriale, di legislazione, di garanzia. Un dibattito che sta per concludersi senza necessità di sfondare alcuna porta, dato che sono tutte aperte.
Se poi per "completamento" s´intende la delicata questione dell´ordinamento fiscale, ebbene anche per questo problema non si avvertono tensioni politiche. Si avverte, semmai, una fortissima tensione culturale, legata allo storico dualismo dell´economia italiana e della capacità contributiva degli abitanti. D´altra parte, come ricorda Vincenzo Visco, un federalismo fiscale già c´è: con trasferimenti dallo Stato ai governi territoriali, con tributi e addizionali locali. Si tratta di razionalizzarlo e rafforzarlo calcolando i maggiori poteri trasferiti alla periferia. È questo il compito della commissione, istituita presso il ministero dell´economia. È un lavoro difficile. È bene perciò attenderne i risultati: senza schiamazzi di bottegai elettorali, né al Sud né al Nord. Poi, se ne discuterà.
La terza ragione per cui le sorti della legislatura non dipendono dal "federalismo che non si fa" è che la devolution, nata dalla "secessione", s´è ora ridotta, per pressioni di coalizione, a "legislazione esclusiva". È una formula di per sé priva di sintassi giuridica, dato che non ci può essere nulla d´"esclusivo" in materie spartite con lo Stato (sia per regolazione diretta sia per dettatura di principi). Senza parlare dei condizionamenti di diritto costituzionale e di ordine comunitario. Un´operazione, dunque, cosmetica.
Se ci fosse un´associazione a tutela degli elettori, interverrebbe subito a svelare il trucco. Tuttavia, poiché le parole della Costituzione sono pietre, è sempre ugualmente pericoloso accogliere un concetto di questo tipo per sistemi "naturalmente" nazionali: come la sanità, la scuola, la polizia. Ed è ovvio che ci sarà opposizione in Parlamento. Come ci sarà opposizione contro la proposta di squartare il "nuovo" Senato in commissioni corrispondenti a macro-regioni (dopo avere però frammentato le regioni esistenti, con referendum "facili", senza alcun progetto economico e sociale di riassetto territoriale).
Se però quell´aggettivo "esclusivo" non ha solo un valore ordinamentale ma vuole trascinare con sé anche i criteri di destinazione e ripartizione delle risorse finanziarie, allora il discorso si aggrava e l´opposizione diventerà frontale. Già da ora, infatti, le regioni meridionali non ce la fanno da sole ad assicurare le prestazioni minime sanitarie e scolastiche. Se la "perequazione" tra ricchi e poveri di cui parla la Costituzione venisse di fatto annullata, ci sarebbe una gran parte d´Italia in cui verrebbe negato lo stesso concetto sociale di cittadinanza.
Ma, attenzione, questo non è "il federalismo che non si fa". È soltanto il tentativo di inserire, in un ampio ed anche rischioso processo federale in atto, elementi di frattura territoriale tra due Italie. Già il Paese si sta accorgendo, con angoscia, della grande frattura che si è aperta in tutte le sue regioni, con lo sprofondamento economico di una vasta fascia di ceti e di lavori. È impensabile che il Parlamento della Nazione voglia ora aggiungere, per effetto di irragionevoli minacce, frattura a frattura.