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La vera domanda: perchè non siamo come Erika e Omar?
Il coraggio di non uccidere

2 dicembre 2001

di Barbara Spinelli

Sono mesi che gli italiani cercano di capire come mai, il 21 febbraio di quest’anno, in una tranquilla villetta di Novi Ligure, si sia scatenato l’inferno dentro una famiglia ordinaria: novantasette coltellate, che un’adolescente di nome Erika ha inferto - assieme al fidanzato Omar - alla madre e al dodicenne fratello Gianluca. Sono mesi che giornalisti e psichiatri cercano di trovare le parole per dire quello che non si può dire: il movente di un crimine così vasto, il pretesto di quell’incessante accoltellamento.

Il perché dell'odio, se fu odio; dell’estasi dionisiaca, se fu estasi; di una noia furente, se fu noia. Non lo sapremo mai, e forse sarebbe utile cominciare a dirselo: al di fuori dei tribunali non è possibile dare risposte, e anche quest’articolo non vuol azzardare spiegazioni, anche il processo che sta concludendosi al tribunale di Torino non renderà completamente chiaro quello che è oscuro. E non è male che la voragine resti quella che è: nera cavità senza motivo, mera epifania del crimine, del nulla. Buco che deve restare tale, perché la realtà del delitto non venga edulcorata, eufemizzata, contestualizzata , dal linguaggio riduttore di giornalisti, reporter televisivi, soprattutto esperti in psicologia.

Lo diceva già Dante, alle porte dell’Inferno: per descrivere il «succo» del male, per evocare l'orrore del conte Ugolino che divora i propri figli, non bastava «la lingua che chiami mamma o babbo», ovvero la lingua quotidiana. Occorreva un’eloquenza che noi giornalisti, periti, consulenti, non abbiamo: «S’io avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco, (..) io premerei di mio concetto il suco più pienamente» ( Inferno XXXII, 1).

Non c’è infatti movente alcuno che spieghi le novantasette coltellate, ed è inutile cercare un conforto infarcendo il vuoto con corte, ridicole giustificazioni: i rapporti così difficili con la mamma, i padri di oggi che sono così nascosti e le madri così iperprotettive, la paura di Omar di perdere Erika e la paura di Erika di passare giorni troppo imprigionanti, ordinari, dentro una stanzetta descritta invariabilmente come troppo piccola e insomma talmente soffocante da suscitare quasi naturalmente la voglia di matricidio, di fratricidio, e anche di parricidio se il caso non avesse voluto che Francesco De Nardo, padre di Erika, fosse fuori casa nelle ore di sangue.

Sono tutte parole ridondanti, e nessuna comunque è all’altezza delle poesie sulla bellezza del male e della trasgressione liberatrice composte da Jim Morrison che Erika e Omar adoravano. Nella gara vincerà sempre il cantante maledetto dei Doors, e Erika lo ha fatto capire nel processo: «C'è una cosa su cui sono d'accordo con lui - ha detto - ed è che la morte è la fine di ogni sofferenza».

Nell’arte di escogitare il movente, Morrison sarà sempre più forte di noi. Non ha rime aspre, ma ha pur sempre rime da offrire: «Lo sai quanto pallida e pazzamente tesa e sospesa/ giunge la morte in un’ora strana/ come un terrificante ospite in eccesso di amicizia/ che ti sei portato a letto./ La morte ci rende tutti angeli/ e ci mette le ali/ dove avevamo le spalle». Erika amava tutto questo, con Omar. Era interessante, una morte così glorificata. E dalle prigioni dell'esistenza non c’era modo di uscire se non quello di divenire, appunto, interessanti impugnando la lama , emblema per eccellenza dei nostri tempi. Anche questa potrebbe essere una spiegazione, se non fosse per la più tremenda delle dichiarazioni di Erika.

Quando le hanno chiesto se lo rifarebbe, al processo di Torino, la sua replica è stata: «Non lo so». Di fronte a simili risposte non resta dunque che il mutismo, a meno di smettere questo nostro arrancare dietro le spiegazioni e porci la vera, l’unica domanda legittima. Non perché sia insorta la tremenda volontà di uccidere ma piuttosto: perché non uccidere, non assassinare alla maniera di Erika e Omar. Sono infinite le famiglie banali in cui si soffoca, sono incessanti i motivi per odiare o sprezzare la madre o il fratello o il vicino di casa, e allora perché per strada la gente non si ammazza a vicenda, non si scanna per una multa ingiusta, non squarcia il volto del genitore o del rivale in amore.

Ce ne sono tante, di adolescenti come Erika, tante che adorano i Doors e il satanismo di Morrison, tante che anelano la libertà di cui chiacchierano in questi giorni gli imputati di Novi Ligure: perché tutti costoro non ricorrono alla lama, non l’infilano cento volte nel corpo di parenti, maestri? Per tali indagini vale la pena usare le rime aspre e chiocce che abbiamo a disposizione. Giacché solo questo conta, e aiuta: sapere perché non uccidiamo , a dispetto dei Doors, delle rime nichiliste di Nietzsche, dei baratri di noia. Perché giriamo per le vie alla maniera di Céline, immaginando ogni giorno di uccidere un centinaio circa di persone, e tuttavia torniamo a casa e non ne abbiamo uccisa alcuna. Rovesciare la domanda torna utile perché si scoprirà allora che anche questo è miracolo dell'umanità, e coraggio di trasgressione.

Ogni giorno trasgrediamo la nostra normalità bestiale e non accoltelliamo. C’è dell’eroismo del tutto anormale anche in questa rinuncia, in questa autolimitazione, in questa prudenza che Jim Morrison chiamava, citando il poeta settecentesco Blake, «una ricca, orrenda zitella corteggiata dall'Incapacità». Vivere di giorno è più difficile che traversare le notti - estasi senza fine - dei Doors. Il mito di Antigone è l’unico a poter vantare il non-conformismo, e Antigone stessa è infinitamente più trasgressiva, col suo inflessibile amore fraterno, di Erika con la sua obbedienza alla triviale meccanica del crimine. Anche vivere civilmente può divenire un rischio estatico.

Chi vive rispettando codici etici porta addosso abiti dal tessuto ben più fragile di quello vestito da Erika: un tessuto più difficile, che si chiama civilizzazione. Qualcuno l’ha denominata: una pellicola sottilissima, presidiata a fatica da tabù e divieti, stesa sulla barbarie dell’uomo. Il tabù stesso si erge contro un male sempre pronto a rifarsi vivo. Un male che ci sta allato, nostra ombra. Che porta il coltello, come Erika e Omar, e seguendo il più naturale degli istinti incita a questo: uccidere, disonorare il padre e la madre, realizzare nell’estasi del crimine - privato o terrorista che sia - il proprio sogno di libertà e di fuga. Qualsiasi tipo di libertà e di fuga: dalla barbarie nella civiltà, ma anche dalla civiltà nella barbarie