www.segnalo.it - Politica dei servizi sociali - Saggi e Articoli

HOME PAGE

FORMAZIONE    

BIBLIOTECA / CINETECA   

POLITICHE / LEGGI    

TRACCE / SENTIERI

 

Parla Claudio Risé: «Una società che sradica l’autorità paterna produce disagio e dipendenza».

(Intervista a Claudio Risé, di Riccardo Paradisi, da “L’Indipendente”, 18 marzo 2007)

Domani è la festa del papà: migliaia di uomini divorziati chiederanno il diritto all’affido dei propri figli che l’attuale giurisdizione nega per principio.

Domani 19 marzo è la festa del papà: migliaia di padri divorziati in Italia hanno scelto questa data come occasione per rivendicare ogni anno il diritto all’affido dei propri figli. Un diritto che è praticamente loro negato da una giurisdizione che nella quasi totalità dei casi affida automaticamente alle madri la tutela dei figli.
Una settimana fa, invece, a Roma si è tenuta una manifestazione che tra gli obiettivi aveva la contestazione dell’ordine simbolico della famiglia patriarcale. Una realtà che in Occidente ha smesso di esistere da almeno tre decenni.
Claudio Risé – psicoanalista, scrittore, autore di saggi fondamentali sulla paternità (tra gli altri Il mestiere di padre e Il Padre, l’assente inaccettabile, edizioni San Paolo), è impegnato da anni in un lavoro di denuncia sulla scomparsa dell’ordine simbolico paterno. Il padre, dice Risé, è il grande assente del nostro tempo. E questa assenza fa male. A questa assenza si deve porre rimedio.

Quando comincia, prof. Risé, l’eclisse del padre?
Inizia con la critica radicale e militante della ragione illuminista all’ordine simbolico paterno che aveva garantito ritmo e forma alla psicologia occidentale, in sinergia con l’ordine simbolico materno, che presiedeva ad altri scopi e funzioni. È con lo sviluppo di questa critica che il padre comincia ad assumere nella società un ruolo puramente funzionale. Diventa produttore di ricchezze, rifornitore di alimenti, homo oeconomicus, insomma. Semplice pedina di un meccanismo che ha regole razionali miopi e che decide di poter fare a meno di un sapere simbolico, della necessità dei riti di passaggio, dell’esperienza dell’identità di genere.
Il padre è in fabbrica, in guerra o in azienda. A educare i figli ci pensano solo le donne. E lo Stato. La società si ispira a principi sempre più chiaramente, ed unilateralmente, materni. Ma non funziona.

Perché non funziona?
I frutti di questo processo possiamo coglierli oggi. La società dell’assenza del padre è quella dell’assenza della norma morale sostituita dalla moltiplicazione dei dispositivi giudiziari e dei regolamenti burocratici: che però non riescono nemmeno ad arginare il disorientamento, il disagio profondo che genera una realtà da cui l’archetipo del padre è rimosso, o ridicolizzato o addirittura criminalizzato.
Attribuendo al materno oneri e responsabilità che non gli competono, e per le quali non ha vocazione.

Lei ha scritto che la società senza padre è una società patogena. Entrando nel merito in cosa si manifesta questa patologia?
Le statistiche purtroppo parlano chiaro. Secondo i dati forniti in questi anni dagli uffici di censimento americani – e gli Usa sono un esempio significativo visto che stiamo parlando del Paese che è il pesce pilota dell’Occidente – il 90 per cento di tutti gli homeless, persone senza dimora, e dei figli fuggiti da casa, non avevano un padre in famiglia. Il 70 per cento dei giovani delinquenti ospitati in istituzioni statali venivano da famiglie dove non c’era il padre. L’85 per cento dei giovani che si trovano in carcere sono cresciuti senza padri. Il 63 per cento dei giovani che si tolgono la vita hanno padri assenti.

Perché questa relazione tra devianza e assenza del padre?
Perché il padre è autorevole in quanto dà la forma, quindi la norma, il limite, il confine. Senza il padre siamo nella “società liquida”, informe, così ben descritta da Zygmunt Baumann. È il padre che ha il compito di strappare il bambino dalla totalità fusionale con il mondo materno per trasformarlo in un adulto, per iniziarlo alla vita e alle sue prove: alle lotte, alle sconfitte e alle esperienze di separazione che la vita inevitabilmente riserva.
Se questo lavoro non viene fatto accade quanto abbiamo sotto i nostri occhi: i cittadini della società senza padre vedono la perdita come un affronto personale più che come una prova dell’esistenza, legata anche al destino personale dell’individuo.

Nel rifiuto dell’autorità c’è anche questo rifiuto del limite, dunque?
Dover riconoscere il principio di autorità che ti aiuta a riconoscere la tua propria forma è un sacrificio del proprio io, della dittatura del principio di piacere. L’incapacità di fare questo sacrificio porta a vivere ogni autorità come un sopruso. Anche in quei casi dove si è di fronte ad un’autorità reale e non a un semplice arbitrio concesso dal potere e dal privilegio. Adeguarsi alla norma, reggere il confronto con la realtà, diventa quindi molto difficile senza un padre che introduca alla società.

È per questo che i figli senza padri capeggiano le statistiche dei suicidi? Con il 75 per cento?
Sì, è anche per questo, ed è per lo stesso motivo che si assiste al continuo rinvio dell’età in cui si esce dalla casa dei genitori o alla moltiplicazione di disagi, compresa la difficoltà a riprodursi che interessa ormai circa il 40 per cento dei maschi bianchi. Sono tutti sintomi che illustrano la progressiva passività dello stile di vita in Occidente. Un risultato del suo trasferimento sotto la guida del principio, tutto femminile – materno, della soddisfazione del bisogno.

La cultura del narcisismo e dello spettacolo, e gli aspetti più esasperati del consumismo, sono dunque espressioni della negazione della paternità?
Sono l’espressione del suo archetipo antagonista: quello della Grande Madre onnipotente (che non accetta di dividere il suo potere con il principio paterno). Essa non è una madre buona, anzi.
L’attuale società dei consumi che tratta l’individuo esclusivamente come consumatore è l’espressione più compiuta del potere dispiegato dalla grande madre che viene appunto conservato mantenendo l’individuo nella sua dimensione infantile: di soddisfacimento del bisogno ed evitandogli l’esperienza del limite, della separazione. Che quando avviene è appunto vissuta come tensione e mutilazione insostenibile.

La settimana scorsa migliaia di persone hanno manifestato nel centro di Roma per chiedere al governo l’approvazione della legge sui Dico. Lei che cosa pensa di questa legge?
La ritengo diseducativa e deresponsabilizzante. Fortemente lesiva sul piano della crescita del senso della responsabilità personale: si vuole imprimere un sigillo giuridico a un legame affettivo temporaneo e disimpegnato.
Ma il rumore che si fa intorno ai Dico non è proporzionato alla reale entità del problema. Come ho già ricordato in un’altra occasione i cosiddetti registri per le unioni civili che sono sorti in varie città italiane hanno fatto registrare scarsissime adesioni. E questo perché in Italia ci sono sufficienti disposizioni legislative per chi intende unirsi e impegnarsi in un matrimonio. Sia con il rito religioso sia con quello civile.