Claudio Risé, da “Il Mattino di Napoli” del lunedì, 26 marzo 2007

Nella società della solitudine globale, nella quale i legami si formano e si sciolgono senza lasciar tracce, lasciando la persona disorientata e priva di identità e appartenenze, gli italiani sono un po’ meno soli. Qui da noi va in aria un matrimonio su sette (negli Stati Uniti, o in Francia, uno su due), aumentano le coppie che tornano insieme, magari in modo informale, quelle che non spezzano completamente il rapporto, i papà che tengono ottimi rapporti con gli ex suoceri.
Mentre leggi prevedono l’abolizione (a scelta) del nome del padre, molte donne insistono, nel divorzio, a mantenere il nome del marito. E molti mariti insistono per onorare quello della discendenza materna, dandone al figlio il nome. La dura realtà del conflitto e dell’abolizione dell’altro, lascito delle (anche) spietate lotte tra uomini e donne del secolo scorso, e dei mutamenti all’interno della famiglia, si interfaccia da noi con la consapevolezza dell’enorme valore rappresentato, per ogni persona e per la società, dalla ricca trama degli affetti costituiti, delle esperienze, delle solidarietà cresciute all’interno dell’esperienza famigliare.
Si tratta di una consapevolezza profonda, trasversale alle organizzazioni politiche. Quando la senatrice Anna Serafini (il cui marito, Pietro Fassino, è segretario dei Democratici di sinistra), dichiara di condividere la richiesta di «politiche audaci a favore della famiglia», contenuta nel manifesto dei promotori del Family day, esprime (al di là delle ovvie opportunità politiche), esattamente questa stessa realtà. Qualsiasi persona che conosca la società italiana conosce il valore specifico in essa rappresentato dai legami affettivi tradizionali, ormai persi in molte società contemporanee. Che infatti presentano livelli di solitudine individuale e disgregazione affettiva maggiori che da noi.
Naturalmente, anche l’Italia condivide con le altre società occidentali il tratto narcisistico di fondo, derivante dal tentativo di separare identità e appartenenze individuali dalle strutture di formazione tradizionale (famiglia, scuola, culture di gruppo), e dall’insicurezza identitaria che esso provoca nelle persone. Anche da noi, dunque, fiorisce la proclamazione dell’onnipotenza: tutto è possibile all’individuo, non vincolato e superiore ad ogni appartenenza, che è solo una momentanea costruzione culturale, e/o politica.
Questa posizione tuttavia, che esprime un’affettività ancora infantile, si afferma soprattutto nell’età delle proteste adolescenziali, ma non conquista veramente il cuore delle persone, consapevoli della fragilità della vita e dell’enorme valore degli affetti nel tesserne una trama che duri nel tempo. La società nel suo insieme rimane dunque attenta ai legami, impegnata nel ritrovare una cultura degli affetti che le semplificazioni degli anni ’70 hanno altrove devastato.
In questa particolarità italiana ci sono anche, come sempre nelle faccende umane, aspetti poco generosi. I vecchi tenuti in casa per utilizzarne le pensioni, o i giovani che vi rimangono per non prendersi responsabilità personali e continuare a scaricare sulla madre la fatica di accudirli, sono esempi tutt’altro che infrequenti, di questo lato interessato del conservatorismo familiare italiano. Che ha ricadute importanti, e negative, sulla società, dove si traduce in minor passione per il rischio, l’invenzione, l’innovazione. Ed un senso attenuato della responsabilità personale, che tende ad essere scaricata il più a lungo possibile sul gruppo familiare di appartenenza. Non c’è rosa senza spine. Ma quel che conta è la rosa.