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Finanziaria 2003: le politiche per la famiglia
Massimo Baldini e Paolo Bosi
17-12-2002
L’impianto della Legge Finanziaria è ormai definito e ci si può quindi chiedere quale sarà il suo impatto sulle famiglie degli italiani. La riforma dell’Irpef, il piatto forte, è in realtà deludente sotto molti profili.....

 

 

L’impianto della Legge Finanziaria è ormai definito e ci si può quindi chiedere quale sarà il suo impatto sulle famiglie degli italiani.

La riforma dell’Irpef, il piatto forte, è in realtà deludente sotto molti profili (si vedano BALDINI-BOSI del 30.9.02 e MATTEUZZI).

Quali altri aspetti della Finanziaria possono interessare le politiche familiari? E con quali effetti?

Le tariffe e le imposte a livello locale

Gli effetti più significativi, ma anche più pericolosi, sono quelli che potranno derivare dalle norme sul Patto di Stabilità interno. Agli enti locali non resta che scegliere tra maggiori tasse (Ici, Tarsu e tariffe) o minori servizi. Non è possibile avanzare valutazioni quantitative attendibili: sono troppe le variabili in gioco, anche se è evidente l’obiettivo di lasciare le "gatte da pelare" agli enti decentrati.

Immaginiamo che i Comuni decidano di aumentare le tariffe dei servizi del 15 per cento, e l’aliquota Ici sulla prima casa dello 0,5 per mille; consideriamo anche l’aumento del 30 per cento della Tarsu, già in programma a causa di modifiche nella sua struttura (passaggio da tassa a tariffa). Si tratta di aumenti che, sulla base di prime valutazioni compiute a livello locale, nell’ipotesi che i margini di recuperi della produttività interna siano modesti, sembrano coerenti con il mantenimento dei servizi esistenti.

In assenza di altre informazioni, consideriamo gli effetti di queste ipotetiche decisioni su quattro famiglie tipo: tre condividono la stessa composizione (padre madre e un figlio appena nato), mentre la quarta è costituita da un pensionato solo, che necessita di assistenza domiciliare. Tutte sono proprietarie della casa in cui risiedono, e ciò che le differenzia è soprattutto il reddito, pari rispettivamente a 30.000, 60.000, 20.000 e 9.000 euro. Nella famiglia con 20.000 euro di reddito imponibile, solo il marito lavora.

Malgrado l’Irpef diminuisca per tutte le famiglie considerate, il guadagno Irpef risulta per alcune significativamente ridimensionato dall’incremento dei prelievi locali, e in un caso il saldo muta di segno. Per la famiglia con un solo lavoratore dipendente a basso reddito, il guadagno risulta più che dimezzato, così come per quella del pensionato solo. Se consideriamo inoltre che per molte famiglie a reddito molto basso la riduzione dell’Irpef non è di alcun beneficio, perché già oggi esse risultano esenti, mentre potrebbero dover pagare almeno alcuni dei maggiori oneri decisi a livello locale, pare ragionevole concludere che una quota significativa di famiglie potrebbe finire per pagare di più nel 2003. Alcune elaborazioni, qui non mostrate per esteso, ci dicono ad esempio che, ripetendo su tutte le famiglie del campione Banca d’Italia la stessa simulazione sopra svolta sulle famiglie tipo, per il primo 10 per cento delle famiglie circa il 90 per cento finirebbe per pagare di più nel 2003, una quota che scende al 56 per cento nel secondo 10 per cento e al 35 per cento nel terzo. Nel complesso, il saldo sarebbe negativo per circa una famiglia su cinque, soprattutto tra i gruppi che meno beneficiano della riduzione Irpef per il 2003, ovvero i molto poveri e i molto ricchi.

Gli esempi citati sono costruiti sull’ipotesi che gli spazi per recuperi di produttività siano modesti. Ma vi sono buone ragioni per essere poco ottimisti sotto questo profilo. I Comuni, sotto il pungolo del vincolo di bilancio imposto dal centro, potrebbero essere indotti non tanto al miglioramento dell’efficienza interna, ma ad esternalizzare l’offerta dei servizi, ricercando la soluzione meno costosa anche a scapito della qualità dei servizi.

La riforma dell’assistenza

Su questo terreno la LF appare molto ambiziosa: il c.3 dell’art.31 sollecita la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, nei limiti delle risorse disponibili del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali, "tenendo conto delle risorse ordinarie destinate alla spesa sociale dalle Regioni e dagli enti locali". Dovranno essere emanati un Dpcm, d’intesa con la Conferenza unificata, e un regolamento sulle modalità di monitoraggio, verifica e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dei livelli essenziali delle prestazioni. La definizione dei livelli essenziali di prestazioni rappresenta uno degli scogli più duri delle riforme dello stato sociale, come ci rammenta l’esperienza travagliata dei LEA in campo sanitario, da poco conclusa. Nel campo della spesa sociale, a causa della eterogeneità, maggiore che nella sanità, degli interventi e degli attori istituzionali, il compito è ancora più complesso. E’ ben noto quanto sia difficile avere anche solo una conoscenza delle risorse attualmente impiegate dalla Pubblica Amministrazione in questo settore, primo necessario passo per ragionare su questi temi. Appare quindi molto singolare che tale processo sia avviato senza l’indicazione di criteri direttivi, di termini e riferimenti per la sua realizzazione. Il sospetto è che si intenda manifestare una generica volontà di mettere in moto un processo, senza tuttavia vincolarsi effettivamente alla sua realizzazione. D’altro canto, una riforma complessiva della spesa sociale è stata annunciata dal Ministro del Welfare: la presentazione di un nuovo Libro bianco, che si affiancherebbe a quello sul mercato del lavoro, è infatti prevista entro la fine dell’anno, comunque successivamente all’impostazione della Legge finanziaria.

Alla superficialità del modo in cui si affronta il tema dei livelli essenziali, si sommano poche e deludenti indicazioni in altri campi della spesa sociale, mentre non mancano omissioni e rinvii. Tra le omissioni il Reddito minimo di inserimento, di cui è stata avviata una sperimentazione biennale. Dopo dichiarazioni del Governo che hanno sottolineato lo scarso interesse per la prosecuzione del programma, il Decreto Legge n. 236 del 25 ottobre 2002 proroga il Rmi "fino alla conclusione dei processi attuativi della sperimentazione e comunque non oltre il 31 dicembre 2004, fermi restando gli stanziamenti già previsti". E’ del tutto chiara la volontà di chiudere questo esperimento.

Tra gli aspetti deludenti si possono ricordare le disposizioni dell’art.31 riguardanti il Fondo Nazionale per le Politiche Sociali(1). Esso appare ridotto di circa il 6 per cento e in omaggio all’autonomia delle Regioni, viene abolito ogni vincolo di destinazione. Il rispetto dell’autonomia è però subito tradito riservando il 10 per cento del fondo per il sostegno di politiche a favore delle famiglie di nuova costituzione, in particolare per l’acquisto della prima casa e per il sostegno della natalità. La LF non contiene alcuna indicazione sui soggetti istituzionali che dovranno svolgere tali politiche. Nell’art.49, si istituisce il Fondo di rotazione per il finanziamento dei datori di lavoro che realizzano, nei luoghi di lavoro, servizi di asilo nido e micro-nidi. A tale scopo è destinata una somma molto modesta, di 10 milioni di euro, nell’ambito della quota del 10% sopra indicata.

Concludendo, nella LF per il 2003 sono contenute indicazioni di riforma della spesa sociale ambiziose, ma indeterminate, insieme a misure farraginose e poco incisive, che lasciano intravedere l’opzione per un sistema di welfare locale ridimensionato, con incentivi all’offerta privata, senza particolare attenzione alla qualità dei servizi. Nello sfondo si annunciano, anche se in modo sempre più evanescente, fasi successive di una riforma fiscale che dovrà destinare 15 miliardi di euro ai contribuenti più ricchi.

 

(1) In questo fondo confluivano, come noto, molteplici fondi settoriali per spese di assistenza (handicap, infanzia, droga, immigrazione, volontariato, Rmi, assegno per i tre figli, ecc.).

 

 

 


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