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Barolini Antonio, L'omino di pepe e altri racconti

La Nuova Italia, Firenze, 1970


 

La vecchia era più di là che di qua dagli ottanta. Ricca di energie e di salute,

si mostrava attaccata a usi e abitudini del suo tempo, sui quali, come nelle case che

abitava, si erano appiccicati infiniti aggeggi di convinzioni nuove che era riuscita a

intravedere da certi fugaci aspetti della vita moderna. Così odiava il lotto e i soldi che le

inghiottiva, ma vi giocava ogni settimana. Così, mentre faceva il caffè all'uso antico e

stirava con il ferro a carbone, con la brace dentro, si lamentava di non poter avere nulla

di ciò che, elettrico o comunque moderno e comodo, aveva visto in casa dei suoi più

agiati parenti.

Era di carattere sbrigativo e ruvido. Aveva due occhi mobili e vivacissimi, un unico dente

lungo e giallo, che le scappava fuori dal labbro superiore e bat­teva sull'inferiore col

ritmo serrato delle parole. Il brivido di quel dente gial­lo, in mezzo al livore delle labbra e

delle gengive quando apriva la bocca, i capelli bianchi e scarmigliati, la faccia grinzosa e

macchiata dalle muffe della vecchiaia, i modi bruschi non bastavano a cancellare

l'espressione particolare che davano i suoi occhi, dove soprattutto sopravviveva un che

di sempre giovane, indomito, assoluto, la somma di una passionalità e di una forza delle

quali gli anni non avevano sopito l'istintiva prepotenza. Era piccola e ossuta, e portava

ancora pesi considerevoli per la sua età, quali secchi pieni d'acqua, borse della spesa,

pacchi. Si adattava senza apparente fatica ai gravi disagi del momento. Saliva e

scendeva con disinvoltura le scale quante volte occor­resse e trovava fiato bastante per

imperversare, almeno tra le pareti domestiche, contro i tedeschi e il governo, cui si

dovevano la guerra e i guai quotidiani che comportava.