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Rapporto
annuale sull’attività ed i risultati conseguiti dalla CTSP (commissione
tecnica per la spesa pubblica) - 1998
Si
riportano, in estratto, le parti del Rapporto relative al tema dell’ISEE. In
particolare:
1.
Introduzione
– paragrafo 5 – La spesa sociale
2.
Capitolo
6 – paragrafo 5
- La politica di compartecipazione alla spesa e l’applicazione
dell’Indicatore della situazione economica per la selezione degli utenti delle
prestazioni sanitarie
3.
Capitolo
7 – per intero - prime applicazioni dell'indicatore della situazione economica
INTRODUZIONE
5 - La spesa sociale
In tema di razionalizzazione e contenimento della
spesa sociale la CTSP ha dedicato particolare attenzione all’analisi dei
seguenti aspetti:
·
Il ruolo
della sanità nel processo di risanamento della finanza pubblica;
·
La
determinazione del fabbisogno del SSN e l’attribuzione delle risorse;
·
I
processi di aziendalizzazione e gli elementi di concorrenza nel SSN;
·
Le prime
applicazioni dell’Indicatore della situazione economica .
Una sintesi delle analisi svolte in tema di sanità
è contenuta nella Relazione introduttiva dell’Audizione presso la Commissione Affari Sociali della Camera in tema di
sanità in cui si affrontano, oltre ai primi tre punti sopracitati, le
applicazione della metodologia ISE al "sanitometro". Una riflessione
più generale sulle modalità di applicazione e sugli effetti dell’ISE si
trova invece nella Raccomandazione Prime
applicazioni dell’Indicatore della situazione economica.
Nella Relazione introduttiva dell’Audizione del 23
settembre 1998 presso la Commissione Affari Sociali della Camera vengono esposte
i principali contributi e le linee di ricerca della CTSP in tema di sanità.
In merito al ruolo della spesa sanitaria nel processo di risanamento della
finanza pubblica italiana, vengono analizzati gli effetti, in termini di
dinamica della spesa sanitaria, delle manovre "programmate" sulla
sanità (quali il riordino del SSN, le politiche di compartecipazione alla spesa
da parte degli utenti tramite l’inasprimento dei ticket, il controllo della spesa farmaceutica) che hanno dato luogo
nel periodo 1992-1997 ad una riduzione del peso della spesa sanitaria pubblica
rispetto al PIL di oltre un punto.
Tuttavia, occorre considerare che questo tipo di
manovre- specialmente quelle rappresentate da interventi di razionalizzazione e
di riduzione della spesa, i cui effetti sono molto condizionati dai
comportamenti virtuosi di agenti di spesa decentrati- hanno in genere, secondo
stime della CTSP, perdite di efficacia dell’ordine del 35-40%. Pertanto, i
risparmi effettivi di spesa conseguiti negli anni 1992-1998 ammontano a circa
13.000 miliardi; gli altri risparmi che hanno contribuito al risultato in
termini di rapporto al PIL sono dovuti ad una dinamica più contenuta del
"tendenziale" di spesa sanitaria (ad es. l’andamento delle
retribuzioni).
Gli studi empirici sulla spesa sanitaria evidenziano
che, in prospettiva, la crescita lungo un sentiero di compatibilità con lo
sviluppo economico, richiede un’elasticità rispetto al PIL della spesa
sanitaria pubblica pari ad 1. Una regola empirica di sostenibilità finanziaria
potrebbe essere quella di assecondare nei prossimi cinque anni un tasso di
crescita reale del 1% della spesa sanitaria pubblica, una metà della quale
destinata alla crescita demografica e l’altra metà al miglioramento
qualitativo e quantitativo dei servizi.
Successivamente, la crescita della spesa sanitaria
pubblica potrebbe attestarsi anche intorno al 2%, un tasso sperimentato da altri
paesi, in cui opera, in equilibrio di lungo periodo, un SSN con le
caratteristiche analoghe a quello italiano. A tale evoluzione dovrebbe
corrispondere un analogo sviluppo della spesa sanitaria privata, eventualmente
finanziata da mutualità integrativa, in grado di affiancare, in condizioni di
efficienza, il SSN. Uno sviluppo finanziariamente sostenibile della sanità
dipende, infatti, in larga misura, dalla soluzione che verrà data al problema
cruciale dell’individuazione delle prestazioni erogabili e le priorità del
SSN, a fronte di prestazioni invece razionalmente erogabili da un sistema
finanziato privatamente.
In tema di determinazione del fabbisogno del SSN e di
attribuzione delle risorse, la CTSP ha suggerito dei criteri per aumentare la
trasparenza del meccanismo di finanziamento e per attribuire una maggiore
rilevanza alla decisione di bilancio in tema di sanità. Infatti, l’attuale
sistema di finanziamento appare poco chiaro e non assicura la credibilità delle
politiche di riequilibrio avviate in sede di ripartizione del FSN. Ciò a causa
del fatto che, oltre alle quattro fonti di finanziamento previste per la sanità
pubblica- i contributi sanitari (IRAP e addizionale IRPEF) riscossi dalle
Regioni, i tributi delle Regioni autonome, le entrate proprie delle USL e
l’integrazione concessa dallo Stato attraverso il FSN- opera una fonte
surrettizia ma sistematica di finanziamento, costituita dai disavanzi delle
Regioni che hanno superato tutti gli anni il budget di spesa assegnato,
provocando interventi del Ministero della Sanità volti ad autorizzare, senza
copertura di bilancio, aumenti di spesa ad esercizio inoltrato o a proporre
decreti di ripiano dei deficit, integrando ex post gli stanziamenti inadeguati.
Si è creato così un ripiano dei debiti "a piè di lista" che ha, nel
tempo, favorito le Regioni che maggiormente avevano speso e, al contrario,
penalizzato quelle che avevano messo in atto politiche di risparmio.
A parere della CTSP, una maggiore chiarezza e
trasparenza sia dei meccanismi di finanziamento che delle decisioni di bilancio
in materia sanitaria dovrebbe essere garantita dall’attuazione di un criterio
secondo cui la decisione in sede di
bilancio dello Stato dovrebbe essere estesa all’intera spesa sanitaria
programmata per l’aggregato P.A. (e non solo alla cifra relativa
all’integrazione del FSN), ma di responsabilità specifica dello Stato. Una
volta effettuata la distribuzione della somma stabilita, con criteri di riparto
oggettivi e definiti nel tempo, le regioni dovrebbero assumere interamente la
responsabilità finanziaria del residuo di spesa, senza poter più fare
affidamento sul ripiano dei deficit. Ciò richiede di pervenire, seppure con una
certa gradualità, alla soddisfazione di due principi:
·
certezza
e coerenza, in relazione ai livelli uniformi di assistenza, del finanziamento
statale;
·
piena
responsabilità delle Regioni sui costi dei fattori produttivi (in primo luogo
del fattore lavoro).
Oltre ad una più razionale ripartizione delle
risorse, più elevati livelli di efficienza e di risparmi di spesa nel settore
sanitario dovrebbero scaturire dal processo di aziendalizzazione delle USL
attualmente equiparabili ad aziende di proprietà delle regioni (Aziende
Sanitarie Locali, ASL) in cui operano meccanismi incentivanti fondati
sull’attribuzione della responsabilità manageriale ai direttori generali
assunti con contratti di diritto privato a tempo determinato e quindi
rinnovabili a seconda dei risultati. La legislazione di questi anni ha lasciato
tuttavia molte questioni aperte sotto il profilo dell’aziendalizzazione. In
primo luogo non si è esteso il carattere privato del contratto di lavoro dei
direttori generali agli altri dipendenti le cui assunzioni, carriere e
retribuzioni sono tuttora regolate da contratti collettivi di pubblico impiego;
in secondo luogo la distribuzione degli incentivi appare scarsamente correlata
alle performance di efficienza e non
esiste la possibilità di chiudere, con forme analoghe al fallimento, le aziende
cronicamente in perdita. Inoltre, un problema a sé stante di carattere
finanziario è rappresentato dai policlinici universitari in cui la definizione
imprecisa delle competenze e delle responsabilità nella copertura dei costi e
l’assenza di un sistema di controllo della spesa e delle prestazioni da parte
sia dell’università che della regione, creano in molti casi una situazione di
incertezza finanziaria.
Secondo la CTSP una possibile soluzione al problema
potrebbe essere quella di trasformare i policlinici universitari in aziende
miste, di proprietà regionale, cui l’università presta, sulla base di un
regime convenzionale, una parte dello staff medico e clinico, sostenendo
esclusivamente l’onere delle retribuzioni di tale personale ed una parte delle
spese di ricerca finanziate dal MURST sullo specifico fondo.
Una questione a se stante, ma di grande rilevanza, è
rappresentata dal sistema di pagamento prospettico tramite ROD delle prestazioni
(prevalentemente ospedaliere) allo scopo di tenere sotto controllo la spesa.
Tuttavia tale sistema, pur incentivando una minore durata dei ricoveri, può
indurre ad estendere il loro numero nel caso in cui la tariffa risulti superiore
al costo marginale, risultando così controproducente. Inoltre, come fa notare l’Autorità
garante della concorrenza e
del mercato,
questo sistema, tipico della pianificazione di bilancio, ha preso il posto dello
scenario fondato sulla concorrenza, richiamato dai decreti di riforma.
A tale riguardo, la CTSP ritiene che siano
auspicabili interventi diretti a:
·
creare
due aree all’interno del SSN, una di scambi soggetti a contratto (aziende
ospedaliere e case di cure) e l’altra di pianificazione di bilancio (presidi
ospedalieri);
·
creare
una sorta di mercato inter-aziendale, estendendo anche ai presidi integrati
nelle ASL il pagamento a tariffa delle prestazioni e concedendo (imponendo) loro
di trattenere (ripianare) parte degli eventuali utili (perdite), all’interno
di un budget aziendale complessivo per l’assistenza ospedaliera.
Si tratterebbe quindi di indirizzare gradualmente il
sistema italiano verso un tipo di concorrenza negoziale (managed competition),
in cui l’ASL funge da "acquirente collettivo" di prestazioni per
conto dei propri assistiti, stipulando contratti con alcuni fornitori
selezionati (contratti specifici).
Questi ultimi concorrono tra di loro- nella qualità e nel prezzo dato che le
tariffe sono massime (prezzi negoziali)-
per assicurarsi ad agire da fornitore
preferito.
Nell’ambito delle problematiche connesse all’erogazione della spesa sociale,
la CTSP ha formulato una raccomandazione sulle Prime applicazioni dell’Indicatore della situazione economica.
Questa Raccomandazione, che si inserisce nel quadro del compito assegnato alla
CTSP dall’art. 49 c. 51 della L. 466/97 di elaborazione di un rapporto sullo
stato di attuazione e sugli effetti derivanti dall’applicazione dell’ISE,
intende offrire alcune prime osservazioni sulla disciplina emanata,
soffermandosi in particolare sui problemi che paiono emergere dalla
considerazione congiunta della normativa relativa all’ISE e di quella relativa
al "Sanitometro".
Poiché la normativa dell’ISE è diretta a definire
criteri di valutazione della situazione economica dei soggetti che richiedono
prestazioni sociali agevolate nei confronti di amministrazioni pubbliche, essa
è destinata ad avere conseguenze di grande rilievo sull’impatto
redistributivo degli strumenti di assistenza sociale.
Per questo motivo, le valutazioni di carattere
generale della CTSP riguardano:
·
l’opportunità
di un’introduzione di questo nuovo istituto limitatamente ai casi in cui tale
strumento risulti strettamente indispensabile per il raggiungimento di obiettivi
redistributivi;
·
la
necessità di implementare il nuovo sistema attraverso l’adozione di procedure
amministrative trasparenti, imparziali e rispettose della privacy dei cittadini;
·
l’adozione
di un efficace sistema di sorveglianza nell’applicazione di questo nuovo
strumento.
Per queste ragioni, secondo la CTSP, l’ISE dovrebbe
essere applicato prevalentemente, se non esclusivamente, a servizi e prestazioni
in cui esiste una forte selezione all’accesso (i casi cioè in cui l’offerta
è molto inferiore alla domanda) e per i quali il grado di copertura dei costi
è basso o il valore monetario della prestazione elevato. In questi casi,
infatti, il trade-off tra equità e costi delle procedure amministrative appare
particolarmente vantaggioso e la plausibilità delle verifiche e dei controlli
può effettivamente generare meccanismi di autoselezione. E’ opportuno
sottolineare inoltre che i meccanismi di selettività delle prestazioni
dovrebbero essere modulati tenendo conto non solo della situazione economica ma
anche dello stato di bisogno specifico alla particolare prestazione. Nel caso,
ad esempio, di beni e servizi sanitari una selettività basata solo sulla
condizione economica violerebbe ovvi principi di equità; sarebbe invece
auspicabile un meccanismo di selettività che tenga conto di entrambi gli
aspetti, ad esempio concedendo l’esenzione dal ticket quando la spesa supera
una determinata quota del reddito.
A parere della CTSP, il passaggio da un sistema che privilegia una proxy
del bisogno ad uno incentrato su una proxy
della condizione economica corretta per una proxy
del bisogno (il sanitometro con le
deuzioni per anziani e bambini) non sembra il modo migliore e trasparente per
affrontare il problema.
CAPITOLO
6 - AUDIZIONE DEL 23 SETTEMBRE 1998 PRESSO LA COMMISSIONE AFFARI SOCIALI DELLA
CAMERA-RELAZIONE INTRODUTTIVA
5 - La
politica di compartecipazione alla spesa e l’applicazione dell’Indicatore
della situazione economica per la selezione degli utenti delle prestazioni
sanitarie
La compartecipazione alla spesa (ticket) applicata ai
farmaci, alla diagnostica specialistica, al pronto soccorso e al day-hospital e,
in prospettiva, anche a forme di ricoveri ospedalieri svolge, sotto il profilo,
economico due funzioni. Da un lato è interpretabile come prezzo pubblico
parziale o come tassa che contribuisce al finanziamento del servizio gravando
direttamente sull’utente, sulla base del principio del beneficio e della
controprestazione. Dall’altro, svolge il ruolo di quota di coassicurazione,
con la finalità di limitare l’eccesso di consumo, che è insito nel
meccanismo del "terzo pagante" alla base del SSN.
Dal primo punto di vista, il ticket, quale prezzo,
dovrebbe, in linea di principio, indistintamente gravare di più sulle
prestazioni a domanda inelastica, per conseguire gli obiettivi di finanziamento
minimizzando le distorsioni; tuttavia, volendo considerare elementi di carattere
distributivo, il ticket potrebbe essere graduato in base ad indicatori di
benessere individuale e quindi tenere conto del grado di necessità della
prestazione. Nei servizi sanitari nazionali, finanziati dalla fiscalità
generale, questa funzione deve essere considerata in ogni caso marginale, in
quanto è tramite le imposte che si finanziano i costi delle prestazioni,
redistribuendo nel contempo la ricchezza.
Dal secondo punto di vista, che risulta prevalente secondo la logica economica,
il ticket, quale quota di "coassicurazione" o franchigia, dovrebbe
essere contenuto quantitativamente e non dovrebbe gravare su quelle prestazioni
che risultano indispensabili per i soggetti più a rischio di malattia o
portatori di patologie gravi. Pertanto, le capacità di finanziamento di un
sistema di ticket così congegnato, per quanto diffuso, sono necessariamente
limitate (e così è stato ed è in Italia). Per di più l’efficacia
calmieratrice dello strumento è condizionata dalla relazione
di agenzia medico-paziente, secondo cui il primo "filtra" i
bisogni del secondo.
La politica di compartecipazione della spesa in
Italia ha avuto inizio con i farmaci nel 1978, alcuni mesi prima
dell’approvazione della riforma sanitaria. Nel 1982 è stata estesa alla
diagnostica ed è stata abolita nel 1987. E’ stata di nuovo introdotta nel
1989 ed applicata anche alla specialistica; nel 1992 è stata adottata, a
discrezione delle regioni, anche per il pronto soccorso. Per alcuni mesi nel
1989 è stata in vigore per i ricoveri ospedalieri.
La sua applicazione è sempre stata travagliata, con normative sulle esenzioni, sulle grandi patologie, sulle diverse aliquote, sui contenuti delle classi terapeutiche che si sono accavallate nel tempo, cambiando talora radicalmente. Il numero degli esenti è passato da zero nei primi anni, al 14% nel 1983 con i primi criteri basati sul reddito, al 26% nel 1989 con i nuovi parametri di reddito, fino all’attuale 37% con i criteri basati sull’età (e parzialmente sul reddito). L’effetto di contenimento dei consumi farmaceutici e specialistici è stato piuttosto blando fino al 1991. Il punto di svolta si è avuto nel 1993 per la specialistica (franchigia di 100.000 lire per i non esenti) e nel 1994 per i farmaci. Fino ad allora la spesa pubblica per farmaci ha conosciuto una crescita molto sostenuta a causa dei criteri di determinazione dei prezzi e dei fenomeni di eccesso di domanda. Con la radicale riforma dei meccanismi di regolamentazione del mercato dei farmaci e la revisione del prontuario farmaceutico del 1994, che ha portato ad una consistente riduzione dei farmaci erogabili (dal 93% al 12% dei farmaci in commercio), si sono avuti effetti di contenimento e di gettito consistenti. I provvedimenti successivi hanno confermato tale logica e per quanto riguarda i criteri di esenzione si è pervenuti alla definizione di criteri basati sull’età e sulle patologie più gravi, come proxy del bisogno sanitario, corretti in base anche al reddito. L’intera materia delle agevolazioni è tuttavia in via di revisione in quanto sarà regolata, a partire dal 1.1.2000, dal nuovo sistema di partecipazione e di esenzione basato sulla individuazione della condizione economica dei beneficiari, sul quali la Commissione prende posizione nel documento n. 4.
Le critiche della CTSP sul Sanitometro sono di due ordini: da un lato riguardano il campo di
applicazione di tecniche di selezione come l’ISE e, dall’altro, alcune
incoerenze delle modalità di calcolo dell’indicatore con riferimento alla
sanità. Richiamerò in questa sede brevemente il primo ordine di critiche
rinviando, per le seconde, al testo della Raccomandazione.
A giudizio della Commissione, le tecniche di
regolazione dell’utenza tipo ISE si dovrebbero applicare quasi esclusivamente
a servizi e prestazioni in cui esiste una forte selezione dell’accesso (casi
in cui l’offerta è molto minore della domanda) e per i quali il grado di
copertura è basso o il valore monetario della prestazione elevato
(trasferimenti in natura o in denaro particolarmente rilevanti). In questi casi
infatti, il trade-off tra equità e costi delle procedure amministrative appare
particolarmente vantaggioso e la plausibilità delle verifiche e dei controlli
può effettivamente ingenerare i desiderati comportamenti di autoselezione.
Il meccanismo dovrebbe essere quindi sconsigliato per
i servizi a larga diffusione dato che i costi amministrativi e procedurali
applicati ad una ampia platea di utenti sarebbero superiori ai benefici sociali
della redistribuzione conseguita. Per di più, nel caso dei servizi sanitari, in
cui la quantità del servizio di cui il cittadino ha eventualmente bisogno non
è data, ma varia nel continuo, una selettività basata solo sulla condizione
economica violerebbe ovvi principi di equità. Porterebbe ad esempio a concedere
l’esenzione dal pagamento del ticket solo a chi si trova al di sotto di una
soglia di reddito e non a chi pur, avendo un reddito appena al di sopra della
soglia, si trova in condizioni di salute tali da richiedere una spesa in ticket
molto più elevata. Nel caso della sanità, come abbiamo detto in precedenza
sarebbe necessario, un meccanismo di selettività che tenesse conto di entrambi
gli aspetti, ad esempio concedendo l’esenzione dal ticket quando la spesa
supera una determinata quota del reddito.
In conclusione, a giudizio della Commissione, il
passaggio ad un sistema incentrato su una proxy della condizione economica,
parzialmente corretta per una proxy del bisogno (il Sanitometro con le deduzione per gli anziani e i bambini) non sembra
il modo migliore e più trasparente di affrontare il problema. Ad ogni modo,
questo rappresenta un miglioramento rispetto al meccanismo attuale, che opera
una selezione molto blanda (più di 20 milioni di esenti), e limita
l’individuazione della condizione economica al solo raggiungimento di limiti
definiti di reddito e senza tenere conto della numerosità del nucleo familiare.
CAPITOLO
7 - PRIME APPLICAZIONI DELL'INDICATORE DELLA SITUAZIONE ECONOMICA
1 - Premessa
La legge di accompagnamento alla Finanziaria per il 1998, n. 446/97, all’art. 59 c. 51 e 52 ha dettato i principi direttivi di una delega al Governo, per l’emanazione di uno o più decreti legislativi per la definizione di criteri unificati di valutazione della situazione economica dei soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate nei confronti di amministrazione pubbliche. La delega è stata attuata con il Decreto Legislativo del 31 marzo 1998 n.109, in vigore dal 1 aprile 1998.
Sempre la legge di accompagnamento alla Finanziaria,
all’art. 59 c. 50, nell’ambito di disposizioni relative alla sanità, ha
delegato il governo ad emanare uno o più decreti legislativi di riordino della
partecipazione alla spesa e delle esenzioni. Tra i principi e criteri direttivi
è previsto che si debba tenere conto anche della condizione economica del
soggetto che ha diritto all’esenzione, definita con riferimento al nucleo
familiare, tenuto conto degli elementi di reddito e di patrimonio determinati in
base ai criteri stabiliti dai decreti legislativi previsti dall’art.49 c.51,
sopra menzionati. Il decreto attuativo del c. 50 dell’art.59, n.124/98, è
stato emanato il 28 aprile e prevede modalità di calcolo della situazione
economica, secondo gli orientamenti della legge delega.
Ancora la legge di accompagnamento alla finanziaria
per il 1998 all’art. 59 c. 47 e 48 prevede l’istituzione in via sperimentale
di un nuovo istituto di contrasto della povertà, il Reddito minimo di
inserimento, che sarà erogato in modo condizionato alla situazione economica
dei soggetti. Il testo del decreto legislativo approvato il 12 giugno 1998
Consiglio dei Ministri contiene riferimenti, anche se parziali, al decreto
legislativo dell’Ise.
Anche se nella fase attuale di sperimentazione,
restano ferme "le disposizioni vigenti in materia previdenziale nonché di
pensione ed assegno di invalidità civile e le indennità di accompagnamento e
assimilate" (art.1 c.1 del D.Lgs. n.109) (con tale definizione il
riferimento sembra essere, come si dirà, alle pensioni sociali, alle
integrazioni al minimo, all’assegno per il nucleo familiare e in generale alle
prestazioni nazionali di tipo assistenziale), nonché "i criteri di
individuazione delle condizioni economiche vigenti all’entrata in vigore del
decreto sino al termine della loro efficacia, ove previsto"(art.1. c.2) (il
riferimento in questo caso e alla disciplina relativa alle tasse e al diritto
allo studio universitari) è chiaro che in tempi non lontani anche queste aree
di intervento sociale saranno coinvolte dalla normativa in esame.
La legge delega e il decreto delegato prevedono poi
che gli enti erogatori interessati dalla disciplina (principalmente gli enti
locali) adattino in tempi brevi le proprie regolamentazioni alla normativa
dell’Ise. In questa attività saranno impegnati gli enti locali, i comuni in
particolare, per aspetti relativi ad una vasta gamma di servizi offerti (rette
per asili nidi, forme di reddito minimo, assegnazione di alloggi, assegnazioni
di posti in strutture protette, ecc.).
Il potenziale campo di applicazione dell’Ise
potrebbe addirittura riguardare la struttura delle tariffe dell’energia
elettrica. Nel documento proposto al Parlamento dall’Autorità in materia in
cui si illustrano, fra l’altro, proposte di riforma della tariffazione
dell’energia elettrica per usi domestici, si avanza l’opportunità di
superare l’attuale sistema delle fasce sociali, che prevedono tariffe
inferiori solo in relazione a valori limitati di consumi di energia, e di
prendere eventualmente i considerazione il criterio dell’Ise.
La normativa dell’Ise è quindi destinata ad avere
conseguenze di grande rilievo sull’impatto redistributivo degli strumenti di
assistenza sociale. In questa fase di sperimentazione, in cui il governo si
riserva di emanare ulteriori decreti integrativi entro due anni dalla delega, è
di grande importanza un’attività di monitoraggio delle applicazioni di questa
normativa. La Commissione Tecnica per la spesa pubblica, che ha il compito
previsto dall’art.5 c.1 del D.Lgsl. 109/98 di elaborare un rapporto sullo
stato di attuazione e sugli effetti derivanti dall’applicazione della
normativa dell’Ise, con questa raccomandazione intende offrire alcune prime
osservazioni sulla disciplina emanata, soffermandosi in particolare su problemi
che paiono emergere dalla considerazione congiunta della normativa relativa
all’Ise e quella relativa al sanitometro.
Una prima valutazione di carattere generale che la
CTSP sente il dovere di esprimere riguarda l’opportunità di una grande
cautela e sorveglianza nell’applicazione di questo nuovo istituto. La sua
introduzione, che trova la motivazione di fondo nella ricerca di uno strumento
adeguato per la realizzazione di un modello di welfare universale nei
destinatari delle prestazioni sociali, ma selettivo nell’erogazione delle
stesse, presenta aspetti molto delicati, che devono vagliati e seguiti con molta
attenzione per gli inevitabili riflessi redistributivi e per i costi di
adempimento. La sua introduzione deve quindi avvenire con grande prudenza e
limitatamente ai casi in cui tale strumento risulti strettamente indispensabile
per il raggiungimento di obiettivi redistributivi.
I tempi di attuazione della normativa e la platea dei
soggetti istituzionali interessati alla sua realizzazione, allo stato attuale
della normativa, presentano aspetti scarsamente definiti, che potrebbero essere
causa di incertezze nell’applicazione della stessa e legittimare comportamenti
incoerenti da parte delle amministrazioni coinvolte nell’applicazione di
questo istituto.
La normativa relativa all’Ise, in relazione alle
scelte compiute dalle autorità di governo nella fase di varo del decreto
legislativo, si configura sostanzialmente come una norma quadro, che detta
indirizzi sugli aspetti più significativi dell’istituto, lasciando anche
molta discrezionalità ai soggetti istituzionali che dovranno applicarlo. Ciò
si pone un problema di corretta definizione del grado di flessibilità di
applicazione nelle molteplici aree di intervento, in particolare alla luce della
principale applicazione sinora realizzata, il sanitometro.
La normativa quadro dell’Ise e quella del
sanitometro, con riferimento alle modalità di determinazione dell’Ise,
presenta difformità che solo in parte possono essere spiegate dalla specificità
della materia sanitaria. La riflessione su questi aspetti sembra confermare il
giudizio che sia la normativa Ise sia quella del sanitometro presentano in
taluni casi soluzioni inadeguate. In particolare il trattamento delle franchigie
merita un ripensamento. Oltre a ciò anche la riflessione sulla normativa
relativa al redditi minimo di inserimento e sui primi orientamenti di
adeguamento dei criteri da parte degli enti decentrati stanno mettendo in luce
aspetti problematici, sui quali appare opportuno un intervento normativo.
2 - Il campo di
applicazione dell’Ise
La legge delega dell’Ise è molto chiara per quel che riguarda i soggetti istituzionali interessati: si tratta delle amministrazioni pubbliche, nella definizione utilizzata nella contabilità nazionale dall’ISTAT, che include quindi le amministrazioni centrali, gli enti di Previdenza e le amministrazioni locali. Una definizione molto ampia, che lascia fuori dall’ambito di applicazione i sistemi di tariffazione agevolati normalmente previsti da enti erogatori di public utilities, sia livello nazionale (es. Enel) sia a livello locale (Aziende municipalizzate o società di erogazione dei servizi a rete). Sono tuttavia differenziate le modalità con cui i diversi enti saranno coinvolti nell’applicazione dell’Ise. Limitazioni sono contenute nella legge delega, in particolare là ove questa, al c. 52, disciplina i tempi e le modalità di adattamento degli istituti esistenti alla nuova normativa. Si dice, a questo proposito: "Per le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici previdenziali si provvede con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, ove non diversamente disposto con norme di legge." Il riferimento è naturalmente ai servizi assistenziali erogati dall’Inps, e dal Ministero degli interni. Poiché tali prestazioni sono attualmente regolate da norme di legge, secondo alcuni interpreti tale disposizione porterebbe ad escludere l’applicabilità della normativa in oggetto a tali prestazioni. Anche se tale interpretazione appare letteralmente fondata, essa risulterebbe evidentemente in contrasto con lo spirito complessivo della noma in discussione che va inquadrata nel processo di riforma dei criteri di erogazione dell’intera spesa del welfare del nostro paese.
Il decreto legislativo n.109/98 scioglie questa
riserva, assumendo implicitamente che la norma abbia applicabilità del tutto
generale. Si pone tuttavia una limitazione, là ove si prevede, ancora al c.1
del D.Lgs., che "in attesa di tale sperimentazione restino ferme le
disposizioni vigenti in materia previdenziale nonché di pensione ed assegno di
invalidità civile e le indennità di accompagnamento e assimilate."
Sembrerebbe quindi possibile evincere che la non applicabilità della normativa
agli istituti previdenziali e assistenziali di carattere nazionale discenda non
dalla presenza di norme di legge che già le regolano, ma dal carattere
"sperimentale" della normativa in oggetto. Tale carattere è infatti
esplicitamente inserito, in modo del tutto innovativo, nel decreto, anche se i
contorni temporali di tale sperimentazione non appaiono del tutto definiti. E’
plausibile che essa abbia termine sulla base di decretazioni integrative e
correttive da parte del governo previste dal c. 53 della legge delega nel
biennio successivo all’entrata in vigore della normativa.
Appare importante, in questo contesto, una grande cautela nella applicazione del
nuovo istituto in relazione alla particolare complessità delle questioni in
discussione sia per quel che riguarda gli effetti distributivi, che le modalità
operative di attuazione dei nuovi criteri di valutazione della condizione
economica nell’erogazione delle prestazioni sociali agevolate.
L’introduzione dell’Ise può comportare da un lato una modifica, non
marginale, delle caratteristiche dei beneficiari della spesa sociale, escludendo
o limitando i benefici per alcune categorie o tipologie di nuclei familiari e
incrementando significativamente i livelli di intervento, o aprendoli per la
prima volta, a nuovi soggetti tradizionalmente esclusi. D’altra parte
un’operazione così importante della politica sociale del nostro paese non
deve trascurare le modalità con cui essa può essere concretamente applicata
coinvolgendo un elevato numero di istituzioni, di servizi, di cittadini, nella
rimozione di pratiche e procedure consolidate. Da questo punto di vista appare
una condizione indispensabile, quasi pregiudiziale, che l’implementazione del
nuovo sistema avvenga con l’adozione di procedure amministrative trasparenti,
imparziale e rispettose della privacy dei cittadini. Il sistema
dell’autocertificazione delle informazioni può rispondere efficacemente a
tali requisiti se adeguatamente supportato da una ampia diffusione delle
informazioni, che purtroppo nel tentativo di perseguire l’equità non potranno
essere particolarmente semplici, e da efficaci procedure di controllo non
vessatorie, il cui carico sia spostato dai cittadini all’amministrazione.
Per queste ragioni l’Ise dovrebbe essere applicato prevalentemente, se non
esclusivamente, a servizi e prestazioni in cui esiste una forte selezione
all’accesso (casi in cui l’offerta è molto inferiore alla domanda) e per i
quali il grado di copertura dei costi è basso o il valore monetario della
prestazione elevato (trasferimenti in natura o in denaro particolarmente
rilevanti). In questi casi, infatti, il trade-off tra equità e costi delle
procedure amministrative appare particolarmente vantaggioso e la plausibilità
delle verifiche e dei controlli può effettivamente ingenerare i deisiderati
comportamenti di autoselezione. Non appare, invece, auspicabile una ulteriore
estensione o generalizzazione dell’applicazione di sistemi di valutazione
della condizione economica nella erogazione di prestazioni sociali o di servizi.
In particolare, non sembra opportuna la applicazione di meccanismi di tipo
selettivo fondati sull’Ise per quei servizi a larga diffusione e nei quali il
grado di copertura dei costi è spesso molto elevato, come le mense scolastiche:
il basso impatto redistributivo, la complessità di procedure costose da
applicare ad una enorme platea di utenti, il rischio di stigma, l’eccesso di
progressività sconsigliano in questi casi l’adozione o la diffusione della
valutazione della condizione economica nell’accesso o nella tariffazione del
servizio, consigliando l’adozione di tariffe uniformi con un sistema limitato
e mirato di esenzioni.
L’obiettivo principale della nuova normativa sembra
infatti quello di uniformare e razionalizzare le applicazioni di strumenti per
la valutazione della condizione economica, eliminando le più evidenti iniquità
e distorsioni distributive derivanti dalla giungla di modalità operative con
cui è stata praticata sino ad oggi la selettività nella concessione delle
prestazioni sociali agevolate nel nostro paese.
In linea di principio, i meccanismi di selettività delle prestazioni in natura
dovrebbero essere modulati tenendo conto non solo della situazione economica ma
anche dello stato di bisogno, specifico alla particolare prestazione. Come
indicatore del bisogno si può assumere la spesa richiesta per acquistare la
quantità necessaria del bene o servizio oggetto di prestazione agevolata. In
realtà, in molti casi si può fare a meno di considerare esplicitamente il
bisogno, in quanto la spesa è una variabile dicotomica: o zero o un livello
dato. Ad esempio, per una famiglia con bambini in età pre-scolare, la quantità
dei servizi dell’asilo-nido di cui necessita in un determinato anno e la
relativa spesa sono grandezze date. Lo stesso vale per un anziano relativamente
ai servizi di una casa di cura. La prestazione assistenziale, che consiste in un
abbattimento del prezzo del servizio, può essere erogata in modo selettivo
sulla base della sola condizione economica del soggetto.
Diverso è il caso di altri beni e servizi, come quelli sanitari, per i quali la
quantità di cui un cittadino avrebbe eventualmente bisogno non è data, ma
varia nel continuo: una selettività basata solo sulla condizione economica
violerebbe ovvi principi di equità. Porterebbe, ad esempio, a concedere
l’esenzione dal pagamento del ticket solo a chi si trova al di sotto di una
determinata soglia di reddito e non a chi pur avendo un reddito leggermente più
elevato si trova in condizioni di salute tali da richiedere una spesa in ticket
molto più alta. L’ideale in questi casi sarebbe un meccanismo di selettività
che tenga conto di entrambi gli aspetti, ad esempio concedendo l’esenzione dal
ticket quando la spesa supera una determinata quota del reddito. Il passaggio da
un sistema che privilegia una proxy del bisogno (l’età) ad uno incentrato su
una proxy della condizione economica corretta per una proxy del bisogno (il
sanitometro con le deduzioni per anziani e bambini) non sembra il modo migliore
e più trasparente di affrontare il problema.
Nel documento citato della Autorità dell’Energia
elettrica, si avanza la proposta di modificare l’attuale meccanismo di
tariffazione della cosiddetta fascia sociale. La struttura attuale di tale
tariffa prevede infatti un costo per chilowattora agevolato nel caso di consumi
inferiori ad una certa soglia. Il vantaggio derivante dalla tariffazione
agevolata viene progressivamente perduto qualora i consumi dell’utente
superino la soglia stessa, sino alla sua completa eliminazione.
La giustificazione di tariffe agevolate in materia di forniture di servizi di
questo tipo appare in via teorica difficilmente giustificabile e in questo senso
si è già espressa la CTSP (vedi la Raccomandazione sulle tariffe del 94 il
Rapporto sulla spesa del 94). La presenza di finalità di contenimento dei
consumi energetici può solo marginalmente giustificare il permanere di tali
differenziazioni. Anche se il Rapporto citato sembra consapevole di tali limiti,
esso appare anche conscio della difficoltà politica di eliminare la presenza di
agevolazioni per le fasce sociali più deboli. In questa prospettiva l’attuale
sistema appare iniquo in quanto prescinde da qualsiasi riferimento alla
dimensione della famiglia dell’utente. Il single, indipendentemente dalla
condizioni economiche, risulta favorito rispetto a famiglie numerose. Da qui la
proposta di utilizzazione di un diverso criterio di discriminazione, come ad
esempio l’Ise.
L’orientamento della CTSP è su questo punto
nettamente sfavorevole all’utilizzo dell’Ise in questo campo sia per ragioni
di efficienza, sia per la difficoltà a realizzare finalità redistributive
pienamente coerenti, sia per le inevitabili difficoltà e costi di tipo
applicativo. Qualora tale obiettivo volesse comunque essere perseguito,
l’iniquità dell’attuale sistema potrebbe, in una fase transitoria, essere
temperata applicando la scala di equivalenza dell’Ise alla soglia di riduzione
tariffaria. Una soluzione certamente imperfetta, ma di più agevole
realizzazione e meno iniqua della tariffazione attuale.
3 - I tempi di
attuazione
La giusta preoccupazione di evitare un’improvvisa applicazione dell’Ise da parte di una gamma amplissima di enti erogatori e a una molteplicità di programmi di spesa sociale e di salvaguardare sperimentazioni già in atto in alcuni settori (come quello delle tasse e delle borse di studio universitarie) ha indotto il legislatore ad adottare criteri di gradualità con riguardo sia agli enti interessati alla riforma, sia ai tempi di applicazione. Il quadro normativo emerso non appare tuttavia, sotto questo profilo, abbastanza ben delineato.
Se si prescinde dalla sanità, per la quale il D.Lgs.
n.124/98 rinvia al 1° gennaio 2000 l’applicazione del nuovo sistema di
partecipazione e di esenzione, la legge delega fornisce indicazioni
apparentemente molto stringenti e chiare ai diversi soggetti istituzionali
interessati. I criteri unificati devono infatti avere "effetto dal 1 luglio
1998". Si precisa poi, al c. 52, che entro sessanta giorni dalla data di
entrata in vigore del Decreto legislativo , vale a dire entro il 31 maggio 1998,
gli enti erogatori devono procedere all’adattamento delle proprie
regolamentazioni alla nuova normativa. Poiché, per quanto si è detto restano
temporaneamente esclusi gli enti erogatori di prestazioni previdenziali e
assistenziali nazionali, i soggetti interessati a questa normativa sono quelli
rientranti nell’ambito delle Amministrazioni locali.
Il decreto legislativo si muove tuttavia con molta
libertà in questo ambito, nella convinzione che i termini indicati abbiano un
significato meramente ordinatorio. Restano tuttavia aperti alcuni dubbi
interpretativi che possono avere importanti implicazioni per le amministrazioni
locali. L’art. 1 c. del D.Lgs. da un lato ripete le indicazioni contenute
nella delega relativa ai sessanta giorni, aggiungendo che "per particolari
tipologie di prestazioni a scadenza infrannuale, gli enti erogatori possono
altresì differire, non altre il 31 dicembre 1998, l’attuazione della
disciplina.". Alla luce di tale disposizione resta quindi confermato
l’obbligo degli enti erogatori ad adattare la propria regolamentazione entro
la fine di maggio. Alla luce del c. 51 della legge delega si dovrebbe avere
attuazione a partire dal 1 luglio, salvo il caso appena citato di prestazioni a
scadenza infrannuale. Il valore vincolante di tali termini non è perfettamente
chiaro, se si osserva che l’art.1 comma 3 del D.Lgs. prevede che, con decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro delle
finanze,.. siano individuate le modalità attuative, anche con riferimento agli
ambiti di applicazione della presente normativa, fatto salvo quanto previsto per
la sanità dalla legge delega. Le espressione utilizzate, di portata molto
generale, rendono plausibile che i termini entro cui gli enti erogatori devono
prendere decisioni possano in realtà essere subordinati a tale decreto, la cui
emanazione peraltro non è subordinata ad alcun vincolo temporale.
Un
ulteriore elemento di incertezza deriva dalla circostanza, su cui ci si
soffermerà anche più oltre, che taluni criteri relativi al computo dell’Ise
(determinazione dei redditi agrari e definizione di patrimoni mobiliari) saranno
disciplinati da circolari del Ministero delle Finanze. Alla luce di queste
valutazioni, secondo talune interpretazioni, verrebbe rafforzata l’idea che i
termini indicati abbiano valore meramente ordinatorio e che iniziative degli
enti erogatori di adattamento dei loro istituti possa comunque ritenersi
legittimo, ma non obbligatorio.
L’art.1 c.2 del decreto prevede poi che restino fermi i criteri di
individuazione delle condizioni economiche vigenti all’entrata in vigore del
presente decreto, fino al termine della loro efficacia, ove previsto".
Questa disposizione ha un ambito di applicazione che appare alquanto incerto.
Essa sembra attagliarsi bene al caso della disciplina relativa alle prestazioni
agevolate nel settore universitario, ove espliciti decreti legislativi prevedono
una fase di applicazione triennale. Non è però chiaro se a tale disposizione
siano soggetti, ad esempio, gli istituti erogati dalle amministrazioni locali,
in quanto non è chiaro se, in ogni caso del genere, sia previsto un termine
all’efficacia nei criteri di individuazione delle condizioni economiche.
4 - Flessibilità e discrezionalità
consentite agli enti erogatori
L’impostazione del decreto legislativo lascia agli
enti erogatori una grande flessibilità nell’applicazione dell’Ise. Tale
caratteristica è stata giudicata da alcuni osservatori negativamente, in quanto
foriera di una molteplicità di criteri che mal si concilierebbero con gli
obiettivi di uniformità a cui tale normativa sembra finalizzata. Il problema è
senza dubbio molto delicato e richiede la ricerca di un corretto equilibrio tra
uniformità e flessibilità. In linea generale la flessibilità va considerata
positivamente in considerazione della grande varietà di problematiche
equitative che diversi programmi di spesa sociale inevitabilmente presentano e
anche del rispetto dell’autonomia degli enti decentrati, nella misura in cui
rispondono responsabilmente alle domande dei cittadini, di definire grado e
modalità della generosità dei rispettivi programmi di spesa.
In questa prospettiva, la delega, al c. 52 dell’art. 59, consente
esplicitamente agli enti erogatori di prevedere criteri differenziati in base
alle condizioni economiche e alla composizione della famiglia.
Un’interpretazione estensiva di questa indicazione potrebbe però portare alla
più completa libertà di applicazione e quindi frustrare le finalità della
legge. Il decreto legislativo fornisce una lettura tutto sommato equilibrata di
questo trade off tra uniformità e
flessibilità, con un atteggiamento comunque aperto alla flessibilità, che
riguarda due aspetti.
a.
con riguardo alla scelta dell’unita familiare di riferimento, l’art.
3 c. 2 del decreto prevede esplicitamente che gli enti erogatori possano
assumere come unità di riferimento una composizione del nucleo familiare
diversa da quella citata sopra prevista dall’art.2 c. 1, applicando
naturalmente all’eventuale diversa definizione l’appropriata scala di
equivalenza. Sotto questo profilo la flessibilità è massima, ma anche
indispensabile. La definizione di base è infatti molto estesa, dato che essa fa
riferimento alla convivenza. Il presupposto della perfetta condivisione
economica delle risorse nella convivenza non può essere ritenuto generale e
applicabile in ogni circostanza.
b.
con riguardo agli aspetti relativi alla condizione economica, l’art. 3
c. 1 prevede che gli enti tenuti a fissare soglie e requisiti per
l’applicazione dell’Ise possano prevedere, accanto all’Ise, modalità
integrative di valutazione con particolare riguardo al concorso delle componenti
patrimoniali mobiliari e immobiliari. Anche tale formulazione appare piuttosto
ampia. Da essa si evince tuttavia che le
integrazione possono essere solo addizionali e non sostitutive dal punto di
vista logico dei criteri individuati per l’Ise. Il riferimento ai valori
patrimoniali, con distinzione tra quelli mobiliari e immobiliari, è compatibile
con un’interpretazione degli interventi degli enti erogatori, che includano,
ad esempio, la definizione di soglie massime assolute di valori patrimoniali,
combinazione del reddito e del patrimonio con modalità che non corrispondano
necessariamente alla combinazione lineare prevista dall’art. 2 c. 2, ma
basate, ad esempio, sulla definizione di una doppia soglia (reddito e
patrimonio), con differenziazioni del peso del patrimonio mobiliare rispetto a
quello immobiliare. Quest’ultimo aspetto può rivelarsi molto importante a
causa della diversa attendibilità dei valori relativi al patrimonio mobiliare
(valori effettivi) e patrimonio immobiliare (imponibili Ici).
Questi pur ampi margini di flessibilità consentono
di definire con sufficiente attendibilità l’area dell’uniformità che ogni
applicazione dell’Ise deve soddisfare. Alla
luce della disciplina illustrata non dovrebbero rientrare nella disponibilità
degli enti erogatori modificazioni di: a) criteri nella misura del reddito e del
patrimonio; b) valori della scala di equivalenza; c) adozione di criteri
integrativi su reddito e patrimonio che non trovino giustificazione nella natura
della prestazione sociale da disciplinare.
L’opinione della CTSP è che la normativa relativa
al sanitometro, la prima importante applicazione dell’Ise, non presenti
tuttavia caratteri pienamente coerenti con le indicazioni tracciate, anche
tenuto conto del carattere speciale delle indicazioni che la legge delega
propone per questo campo. contenute nella legge delega.
Le motivazioni di un giudizio sulla compatibilità
della disciplina del sanitometro con quella dell’Ise hanno fondamento
nell’art. 59 c. 50 della L.446/97 che, nell’indicare i criteri direttivi
della delega al governo, dispone che il riordino della partecipazione alla spesa
e delle esenzioni avvenga tenendo conto, fra l’altro, che:
·
"l’esenzione
dei cittadini dalla partecipazione alle spese..[sia] stabilita ...tenuto conto
delle condizioni economiche del nucleo familiare, dell’età dell’assistito e
del bisogno di prestazioni sanitarie legate a particolari tipologie (c. 50
lett.d),
·
"la
condizione economica che dà diritto all’esenzione.. [sia] definita con
riferimento al nucleo familiare, tenuto conto di elementi di reddito e di
patrimonio determinato in base ai criteri stabiliti dai decreti legislativi
previsti dal c. 51 dell’art. 49 della L.449/97, (lett.e) vale a dire dei
decreti attuativi dell’Ise.
·
Il c. 50
prosegue precisando che "in relazione alla composizione qualitativa e
quantitativa della famiglia...[sia] prevista l’adozione di fattori correttivi
volti a favorire l’autonomia dell’anziano convivente e a rafforzare la
tutela dei nuclei che comprendono al loro interno individui con elevato bisogno
di assistenza."
In tali norme è quindi previsto un esplicito rinvio
alla disciplina dell’Ise, anche se sono precisati alcuni fattori correttivi ed
elementi aggiuntivi che possono giustificare una disciplina particolare.
Il decreto sul sanitometro propone una modalità di calcolo del reddito e del
patrimonio che si discosta dalle indicazioni del decreto sull’Ise nei seguenti
principali aspetti.
a.
Nella determinazione del patrimonio immobiliare è ammessa la detrazione
dell’intero valore della casa di residenza del nucleo familiare, definito ai
fini Ici, e l’eventuale debito residuo per mutui contratti per l’acquisto
della stessa. Al fine di individuare parziali condizioni di equità orizzontale
rispetto ai soggetti che non possiedono l’abitazione, si propongono, nel
calcolo del contributo del patrimonio, due diverse scale, differenziate a
seconda che la casa di residenza del nucleo appartenga o meno ad uno dei
componenti.
Questa disciplina rappresenta uno scostamento significativo da quella prevista
dal decreto Ise, che non consente la deduzione del valore della casa di
abitazione in proprietà dal valore del patrimonio immobiliare e prevede invece
una franchigia dal patrimonio complessivo pari a 50 milioni elevabile a 70
qualora il nucleo familiare risieda in un immobile di proprietà. Tale
modificazione non appare giustificata con riferimento alla particolarità della
prestazione in oggetto (sanitarie). Essa si configura come una non motivata
alterazione delle indicazione della disciplina dell’Ise. Per ragioni anche
solamente formali sarebbe quindi altamente
auspicabile il ripristino delle franchigie previste dal decreto Ise, qualora
queste ultime siano destinate a permanere nella forma attuale. Le franchigie
proposte sono peraltro fonte di discriminazioni, spesso assai rilevanti,
rispetto a soggetti che non dispongono di patrimonio immobiliare.
b.
Tra i fattori correttivi al calcolo dell’Ise, si prevede che per ogni
componente il nucleo familiare di età inferiore a 6 anni o di età compresa tra
i 65 e 75 anni dal valore dell’Ise sia detratto un ammontare di 5 milioni.
Tale ammontare è elevato a 7 milioni per ogni componente il nucleo familiare di
età superiore a 75 anni.
c.
Le detrazioni per bambini ed anziani sono certamente giustificabili sul
piano formale alla luce del c. 50 della legge delega e questa è la motivazione
a cui il decreto sul sanitometro si ispira (art. 4 c. 2). Anche a questo
proposito si può tuttavia osservare che in ogni caso la previsione di eccezioni
di questo tipo dovrebbe essere presa in considerazione, in linea di principio,
al momento della costruzione della scala di equivalenza e non al momento in cui
si disciplina un particolare istituto. Tale disposizione si configura infatti
come una indiretta modificazione della scala di equivalenza. In ogni caso
l’ammontare della detrazione concessa (5 milioni, elevata a 7 per gli
ultrasettantacinquenni) appare troppo elevata. La distorsione appare
particolarmente forte nel caso dei bambini, che già nella determinazione della
scala di equivalenza Ise, per motivi di carattere meritorio, non suffragati da
evidenza empirica, sono stati equiparati agli adulti.
La soglia che garantisce l’esenzione totale dalla
partecipazione al costo delle prestazioni (posta nel caso normale a 18 milioni
di Ise) è elevata a 23 milioni per i nuclei familiari di un solo componente.
Tale ampliamento costituisce, ancora, una surrettizia modificazione della scala
di equivalenza, che peraltro non ha alcuna giustificazione nella specificità
dell’istituto da disciplinare. Si nota peraltro che la modalità di
concessione di un’agevolazione utilizza una tecnica diversa da quella
utilizzata per i minori e anziani (ampliamento della soglia invece di detrazione
dal reddito), che è causa di scarsa trasparenza. Tale disposizione per ragioni
formali e tecniche andrebbe quindi eliminata.
5 - Aspetti problematici nella misura dell’Ise
con particolare riguardo alle franchigie
La riflessione sui primi passi della normativa e sulle prime sperimentazioni ha anche messo in luce alcuni aspetti problematici riguardanti le modalità di calcolo dell’Ise. Particolarmente urgente sembra in particolare una riflessione sul ruolo, molto controverso e già segnalato, delle franchigie. Si è già detto della mancata coerenza della normativa del sanitometro con le soluzioni dettate dal decreto Ise. Qui si vuole ulteriormente argomentare che le stesse soluzioni proposte dal decreto Ise sono lungi dall’essere soddisfacenti.
Nella normativa Ise, sono previste franchigie sia per
quanto riguarda il reddito sia per quanto riguarda il patrimonio. Con riguardo
al reddito è prevista una detrazione di 2,5 milioni qualora il nucleo familiare
risieda in abitazione in locazione. L’importo è elevato a 3,5 milioni,
qualora i membri del nucleo familiare non possiedano immobili adibiti ad uso
abitativo o residenziale nel comune di residenza. Questa disposizione
rappresenta uno dei possibili modi in cui nell’ambito della definizione
dell’Ise si può tenere conto di esigenze di equità orizzontale tra nuclei
che abitano in abitazione di proprietà o in locazione. La ragione è connessa
al fatto che il reddito della casa di proprietà è incluso nel reddito
complessivo sulla base di valori catastali ma gode di una deduzione fino a 1,1
milioni di lire. In considerazione della forte sottovalutazione delle rendite
catastali rispetto ai valori reddituali di mercato, tale deduzione consente di
escludere, nella maggior parte dei casi, dalla valutazione del reddito il
reddito figurativo della casa di proprietà utilizzata per l’abitazione del
nucleo. La deduzione di 2,5 (elevabile a 3,5 milioni) per chi abita in affitto
ha quindi la finalità di definire una forfetaria compensazione per chi abita in
un immobile in affitto: una misura forfetaria, arbitraria, forse insufficiente e
in parte iniqua, perché identica sia per single, sia per famiglie numerose.
Tale norma tende quindi a favorire, in modo del tutto improprio in relazione
alle finalità dell’Ise, i nuclei con casa di abitazione in proprietà. In
omaggio alla flessibilità applicativa si potrebbe pensare di lasciare agli enti
erogatori la libertà di fissare la deduzione forfetaria per chi abita in
immobile in affitto, all’interno di un campo di variazione dato.
Dal patrimonio complessivo (mobiliare e immobiliare) è poi deducibile una
franchigia di 50 milioni, elevata a 70 milioni qualora il nucleo familiare
risieda in un’abitazione di proprietà. Questa disposizione riflette
probabilmente due finalità diverse: escludere dalla valutazione patrimoniale i
patrimoni di dimensione limitata (fino a 50 milioni), sottolineare ancora un
obiettivo di agevolazione dei proprietari della casa di abitazione (presente
nell’ampliamento della deduzione sino a 70 milioni). La prima finalità appare
ragionevole, anche se la misura della deduzione appare eccessiva. Del tutto
inaccettabile è invece il favore previsto per i proprietari dell’abitazione,
che godono di un privilegio ingiustificato sul piano equitativo rispetto a chi
non dispone di una casa in abitazione.
La presenza di queste detrazioni ha poi
l’effetto di attenuare il ruolo del patrimonio nella graduazione della
condizione economica dei soggetti interessati alle prestazione e quindi rischia
di frustrare uno degli obiettivi principali di tale istituto. Tale
disposizione rivela una certa incomprensione del ruolo dell’Ise come strumento
di graduazione della condizione economica tra soggetti diversi, che nulla ha a
che fare con l’eventuale favore che si voglia attribuire alla casa in proprietà.
Sotto questo profilo la soluzione più corretta sarebbe probabilmente quella che
esclude ogni forma di franchigia. La ragione per cui la casa di abitazione di
proprietà può essere rilevante ai fini della costruzione dell’Ise riguarda
semmai il carattere di relativa illiquidità che tale cespite immobiliare
possiede e che può dare luogo a problemi solo in casi molto specifici (ad
esempio un soggetto con basso reddito, che abita in un’abitazione di proprietà
sovradimensionata e quindi con elevato valore immobiliare e che vede pertanto
aumentare il valore dell’Ise a fronte di una ridotta capacità di spesa
corrente. Casi di questo genere avrebbero però potuto trovare soluzione con
altri strumenti nell’ambito delle singole applicazioni e non attraverso una
franchigia generale che finisce per attenuare la potenza discriminante
dell’indicatore patrimoniale.
Alla luce di queste considerazioni fortemente
critiche della disciplina dell’Ise, non deve stupire che il giudizio della
CTSP sia ancora più severo nei confronti delle soluzioni adottate in sede di
sanitometro, in cui si esclude l’intero valore dell’abitazione dalla
valutazione del patrimonio immobiliare e si offrono franchigie di dimensioni più
ampie, rafforzando in tal modo le distorsioni segnalate.
Alla luce delle prime applicazioni dell’Ise, si possono infine segnalare due
problemi particolari che meritano comunque attenzione.
Nella
valutazione del patrimonio immobiliare, il decreto legislativo non prevede
alcuna valutazione particolare per le proprietà immobiliari gravate da diritto
reale. In assenza di specificazioni, la nuda proprietà viene valutata nello
stesso modo della piena proprietà, nonostante la sostanziale indisponibilità
del bene per il nudo proprietario. Tale problema si verifica soprattutto quando
gli enti erogatori attribuiscono un peso rilevante al patrimonio. A tal
proposito si potrebbe prevedere un abbattimento significativo del valore
dell’immobile o lasciare autonomia agli enti erogatori di definire le modalità
di valutazione della nuda proprietà, come già previsto dal Dpcm
sull’Università.
6 - L’Ise e il
Reddito minimo di inserimento (Rmi)
La disciplina proposta per il Rmi si collega in modo più tenue di quella del sanitometro alle indicazioni contenute nel decreto dell’Ise. Le ragioni di tale scostamento trovano però motivazione nella particolarità dell’istituto che appare rivolto all’integrazione del reddito di unità familiari che si trovino in condizione di particolare indigenza. In questo paragrafo si svolgeranno alcune osservazioni su queste motivazioni, che consentiranno peraltro di fornire un suggerimento di riforma della disciplina del Rmi e di trarre indicazioni utili ai fini di possibili revisioni della disciplina dell’Ise.
Limitando l’attenzione ai criteri di determinazione
delle risorse economiche dei destinatari del Rmi, si ricorda che la grandezza
rilevate al fine della titolarità del diritto alla prestazione è il reddito,
comprensivo delle misure previdenziali e assistenziali di cui godono i
componenti della famiglia. Con tale indicazione si includono, correttamente,
nella determinazione del risorse anche prestazioni che non sono rilevanti ai
fini della determinazione del reddito complessivo Irpef (ad esempio gli assegni
al nucleo familiare che non sono assoggettati all’imposta personale). La
soglia è fissata in 500 mila lire mensili per famiglie di single, ma varia in
modo proporzionale alla scala di equivalenza prevista per l’Ise. La presenza
di patrimonio finanziario, in qualsiasi misura, è motivo di esclusione dal
diritto alla prestazione. Per quanto riguarda il patrimonio immobiliare sono
ammissibili solo coloro che sono proprietari esclusivamente della propria
abitazione, fin ad un valore massimo di quest’ultima che verrà fissato dai
comuni interessati. Nella valutazione del patrimonio si ha dunque uno
scostamento abbastanza netto dalle indicazioni dell’Ise, che ammette la
presenza di patrimonio finanziario nella determinazione della componente dei
redditi da capitale (tradotta in flusso attraverso il tasso di interesse sui
titoli decennali). La natura dell’istituto è però tale da giustificare tale
disposizione.
Ragionevoli appaiono poi le indicazioni relative al
patrimonio immobiliare, anche se ancora una volta si deve sottolineare la
presenza di un diverso criterio nei confronti di soggetti che a parità di
redditi non abitino nella casa di proprietà. A tal fine sarebbe stato opportuno
tenere conto di un fitto figurativo, come previsto nel caso dell’Ise, sotto
forma di detrazione dal livello del reddito e quindi rilevante al fine della
determinazione dell’ammontare del sussidio.
La disciplina del Rmi prevede poi un abbattimento dei
redditi netti da lavoro nella misura del 25%, al fine di incentivare l’attività
lavorativa e la ricerca di autonomia economica. Si deve notare che tale
abbattimento riguarda ogni tipo di reddito da lavoro sia dipendente che autonomo
e non ha quindi alcun significato di discriminazione di categorie di reddito a
cui siano attribuite diverse capacità di accertamento fiscale.
La valutazione della normativa proposta per il Rmi,
per gli aspetti qui esaminati, appare quindi sostanzialmente positiva, dato che
gli scostamenti dalla normativa dell’Ise risultano giustificati alla luce
delle particolari caratteristiche dell’istituto.
Una riflessione su questa applicazione sembra inoltre
suggerire l’opportunità di interventi nella disciplina quadro dell’Ise. Si
è infatti visto che nel caso di un istituto mirato alle forme più gravi di
disagio economico il controllo dei mezzi deve avere come punto di riferimento il
reddito disponibile del beneficiario,
di una grandezza cioè al netto delle eventuali imposte dirette e comprensivo
dei eventuali trasferimenti pubblici. L’adozione in questo caso del criterio
suggerito in sede di normativa Ise (il reddito complessivo ai fini Irpef, al
lordo delle Imposte e comprensivo di oneri deducibili) sarebbe stata causa di
evidenti iniquità. Questo aspetto, cruciale nel caso del Rmi, può tuttavia
avere un peso non trascurabile anche per istituti rivolti a fasce sociali meno
disagiate. Appare quindi ragionevole suggerire, in generale, la modificazione
del riferimento al reddito complessivo a fini fiscali, in favore di definizioni
più vicine al reddito disponibile e, in ogni caso, calcolate al netto dell’Irpef.
7 - Raccomandazioni
Alla luce delle considerazioni svolte, sembra utile
fornire le seguenti raccomandazioni.
1.
La
Commissione ritiene necessario che l’applicazione del nuovo strumento debba
avvenire con grande prudenza e limitatamente ai casi in cui tale strumento
risulti indispensabile per il raggiungimento di obiettivi redistributivi. In
particolare, l’Ise dovrebbe essere applicato prevalentemente, se non
esclusivamente, a servizi e prestazioni in cui esiste una forte selezione
all’accesso (casi in cui l’offerta è molto inferiore alla domanda) e per i
quali il grado di copertura dei costi è basso o il valore monetario della
prestazione elevato (trasferimenti in natura o in denaro particolarmente
rilevanti. L’obiettivo principale della nuova normativa sembra infatti quello
di uniformare e razionalizzare le applicazioni di strumenti per la valutazione
della condizione economica, eliminando le più evidenti iniquità e distorsioni
distributive derivanti dalla giungla di modalità operative con cui è stata
praticata sino ad oggi la selettività nella concessione delle prestazioni
sociali agevolate nel nostro paese. Non appare invece auspicabile una ulteriore
estensione della selettività a tutta la gamma delle prestazioni sociali o,
addirittura, al campo dei sistemi di tariffazione dei servizi pubblica utilità.
Si sconsiglia, quindi, l’utilizzazione dell’Ise per la determinazione delle
tariffe elettriche per le utenze della cosiddetta fascia sociale e si invita
eventualmente a considerare l’opportunità di applicare, in questo caso, la
scala di equivalenza dell’Ise alla soglia di riduzione tariffaria.
2.
Pur
apprezzando l’impostazione gradualistica della riforma, si auspica che vengano
al più presto emanate le direttive (circolari e decreti) che consentano la
definizione di un percorso ordinato e chiaro nei tempi delle applicazioni
dell’Ise, coerenti con le direttive programmatiche della legge, in particolare
per quanto riguarda gli adempimenti degli enti decentrati che sono la fonte
potenziale delle maggiori difformità di applicazione rispetto alla normativa
quadro. Sembra inoltre opportuno definire un orizzonte temporale più definito
alla fase sperimentale individuata dal decreto legislativo per le applicazioni
ai grandi istituti nazionali.
3.
Con
riguardo a possibili revisioni dei criteri di determinazione dell’Ise, si
invita ad un ripensamento su alcuni aspetti cruciali. Il principale è la
disciplina delle franchigie. Per la casa di abitazione, la loro presenza nella
normativa quadro introduce necessariamente problemi di equità orizzontale
difficilmente superabili. Per risolvere i problemi che solitamente motivano la
loro introduzione (soggetti con basso reddito ma titolari di un patrimonio
immobiliare non liquido costituito dall’abitazione di proprietà di valore non
irrilevante) si possono prevedere altri strumenti, lasciando agli enti erogatori
dei singoli istituti la possibilità di introdurre eccezioni, solo se
chiaramente giustificate dalla natura dell’istituto, sotto forma di vincoli al
rapporto tra reddito e patrimonio, o prevedere istituti che consentano di
rendere liquido il patrimonio immobiliare senza limitare l’uso
dell’abitazione (trasferimento della nuda proprietà, cessione di diritti
successori, ecc.).
4.
Ancora
con riferimento ai criteri di determinazione dell’Ise, è da valutare
l’opportunità di fare riferimento a misure del reddito al netto delle imposte
ed eventualmente comprensive dei trasferimenti a carattere assistenziale diversi
da quelli per i quali si stia considerando l’applicazione, di apportare
modifiche alla scala di equivalenza nel caso di famiglie monoparentale e di
precisare la normativa con riguardo alla valutazione del patrimonio immobiliare
nel caso di nuda proprietà.
5.
Si
suggerisce l’opportunità di fornire interpretazioni più chiare sui limiti
della flessibilità, comunque auspicabilmente ampia, consentita alle
amministrazioni nelle applicazioni dell’Ise, in tema di misura del reddito e
del patrimonio, della scala di equivalenza e di adeguare, di conseguenza, la
normativa relativa al sanitometro.
Con riferimento
al Rmi, si suggerisce l’opportunità di inserire una detrazione dal reddito a
carattere forfetario nel caso di soggetto che abiti in un immobile in affitto.