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torna a Anni abbastanza crudeli

Così comincia
il XXI secolo

Prigionieri
nel cuore
di New York
Lo scrittore racconta

di PAUL AUSTER


NOSTRA figlia ha quattordici anni e oggi ha iniziato la scuola superiore. Per la prima volta in vita sua, ha preso la metropolitana da Brooklyn a Manhattan, da sola.
Questa sera nostra figlia non tornerà a casa. Le metropolitane non funzionano più a New York.

Mia moglie ed io le abbiamo trovato un posto sulla Upper West Side, da amici, per passare la notte.
Meno di un'ora dopo che in metropolitana era passata sotto al World Trade Center, le Torri gemelle si sono schiantate al suolo. Dal piano superiore della nostra casa, possiamo vedere il fumo che si leva nel cielo sopra alla città. Il vento oggi soffia verso Brooklyn, e l'odore degli incendi è penetrato in ogni stanza. E' un odore terribile, un odore acre, di plastica bruciata, di cavi elettrici, di materiali da costruzione.
La sorella di mia moglie, che vive a TriBeCa, a dieci o dodici isolati da quello che una volta era il World Trade Center, ci ha chiamato per raccontarci le urla che ha sentito dopo che la prima Torre è crollata. Alcuni suoi amici, che vivono in John Street, molto più vicina al luogo della catastrofe, sono stati evacuati dalla polizia dopo che il portone dell'edificio era crollato per l'impatto della torre. Hanno dovuto camminare, dirigendosi verso Nord, in mezzo a detriti e rovine che contenevano molte parti di corpi umani.
Dopo aver guardato tutta mattina la televisione, sono uscito con mia moglie e ho camminato nel mio quartiere. Molte persone si coprivano il viso con i fazzoletti, alcuni indossavano mascherine. Mi sono fermato e ho scambiato due parole con il mio barbiere che con una espressione triste stava sulla soglia del suo negozio vuoto. Mi ha raccontato che poche ore prima una donna che è proprietaria di un negozio di antichità accanto al suo aveva parlato a telefono con il genero, intrappolato nel suo ufficio al 107 piano del World Trade Center. Poco dopo, la torre è crollata.
Oggi quel luogo è un luogo di morte. Mi spaventa pensare quante persone vi sono state uccise. Tutti sapevamo che questo poteva accadere. Per anni abbiamo parlato di una simile possibilità, ma ora che la tragedia ci ha colpiti, è molto, molto peggio di quello che chiunque fra noi avrebbe potuto immaginare. L'ultimo attacco in terra americana perpetrato da stranieri è stato nel 1812. Non esistono altri precedenti, e le conseguenze di questo assalto saranno senza dubbio terribili. Ancora più violenza, più morti, più dolore per tutti. Così, ora, è infine iniziato il Ventunesimo secolo.
(Traduzione di Anna Bissanti)
Questa testimonianza è stata scritta nelle ore successive all'attentato da Paul Auster, uno tra i più affermati scrittori americani delle ultime generazioni. Tra i suoi libri "Trilogia di New York", "Smoke", "Sbarcare il lunario", "Timbuctu".


La morte
per immagini

Quando nell'obiettivo
si vede la morte
Com'è difficile raccontare l'orrore

di SEBASTIAO SALGADO


ABBIAMO visto delle immagini terribili, terrificanti, e terribilmente spettacolari. Le abbiamo già conosciute in situazioni diverse, nell'immaginario di Hollywood, nella fabbrica del cinema delle catastrofi, e la familiarità di queste immagini le rende ancora più insopportabili.

L'intero attentato è stato concepito pensando alle immagini, come lo storyboard di ciò che è avvenuto, la cronologia di un film riempito di esseri umani vivi, veri, nell'atto di morire. La preparazione e la progettazione degli attentati hanno tenuto conto in modo maniacale dell'effetto comunicativo della televisione, la precisione degli eventi e la loro successione sono qualcosa che non ha mai avuto un effetto così dirompente e lascia senza parole.
Inoltre il linguaggio comunicativo delle immagini è comprensibile universalmente e ha reso, se possibile, ancor più deflagranti gli eventi. Ieri ho capito una cosa incredibile: non ci sono limiti, non esistono più quei confini che pensavamo rendessero più tranquilla la nostra vita; distruggere talmente tante vite in un solo colpo, è un atto da criminali assassini compiuto da persone che hanno scelto di diventare tali, che hanno la pretesa di parlare a nome di un mondo che è perduto, di lanciare un appello da parte di chi rischia di scomparire. Le facce smarrite e disperate delle vittime dell'attentato non sono diverse dalle facce dei milioni di disperati che ho visto in tutti questi anni, consapevoli di una vita che non gli offre più niente, di un mondo che li ha lasciati indietro, che ha deciso la loro perdizione.
La foto della donna coperta di polvere, avvolta in una nuvola gialla, alla ricerca di un rifugio dopo l'attentato mi richiama le immagini dei lavoratori dello zolfo in Indonesia, schiavi per pochi soldi di una situazione economica che li ha messi da parte.
Non ho commenti per l'immagine delle persone che si gettano dal World Trade, sono talmente scioccato da quello che ho visto. Microscopici disperati esseri umani che cadono da una costruzione gigantesca, massiccia, apparentemente incrollabile, caduta in pochi minuti. Guardando le immagini ho naturalmente pensato ai miei «confratelli» fotografi impegnati a documentare questa tragedia. Realizzare delle fotografie in simili situazioni è estremamente difficile e i fotografi rischiano anch'essi, molto più di quanto si pensi, nel loro lavoro. C'è bisogno di lavorare velocemente, sintetizzare un evento di queste proporzioni in poche immagini, scegliere le inquadrature: tutto ciò richiede una prontezza e una presenza di spirito eccezionali. I fotografi sono spesso accusati di cercare il protagonismo, di volersi mettere in mostra, ma sono dei testimoni; spesso gli unici testimoni sul posto. Questi drammi, lo si voglia o no, sono lo specchio della società e i fotografi portano questo specchio per tutti.
Nel mondo di oggi non c'è ormai più protezione, come quella che abbiamo immaginato nei decenni trascorsi; ma per milioni di esseri umani appartenenti a quel mondo che si è deciso di lasciare indietro, cui si è rubata la dignità, questa protezione non c'è più da molto tempo. E' tutto livellato. Lo sguardo attonito nelle fotografie di ieri di Colin Powell, di Chirac, di Bush, di Arafat, lascia capire quanto tutti fossero impreparati a questo evento. Bush sbaglia a parlare di vendetta; è piuttosto il momento della riflessione, una riflessione obbligata.
Il potere esercitato quotidianamente all'interno di un sistema di certezze è stato distrutto, quel che si credeva fosse per sempre non è più. Le cause di tutto ciò vengono da lontano. E' cominciata una nuova era, e dobbiamo viverla facendo uno sforzo di elaborazione, di pensiero, rimettendo in discussione ciò che accompagna abitualmente le nostre vite. L'equilibrio preesistente evidentemente non era tale, e dobbiamo sforzarci di costruirne uno nuovo, a partire da altri valori, attraverso un profondo ripensamento.
Gli attentatori hanno agito con alle spalle una grande organizzazione, ma quel che è più drammatico è che milioni di persone si sentono rappresentati da tutto ciò. Per quelli la cui vita non ha più un valore, questi eventi non sono diversi da quanto successo in Ruanda, o in decine di altri posti del mondo. La condivisione del rischio fa sì che diminuiscano le disuguaglianze: la destabilizzazione sembra possibile, in ogni momento.
La vita che una moltitudine di persone del Terzo Mondo è costretta a vivere, la loro abitudine all'assurdo rende più comprensibile e più accettabile ai loro occhi un evento basato sulla logica dell'assurdo.


 

E la vecchia sinistra si tormenta sulla solita "questione yankee"
Da Bertinotti al "Manifesto", dubbi su Usa e Nato. Fassino: Ds compatti, siamo con l'America
GOFFREDO DE MARCHIS

 

dal Repubblica - 14 settembre 2001


ROMA - «Stavolta non ci sono però o ma. Nessun distinguo». È quasi un sospiro di sollievo quello di Piero Fassino. I Ds abbandonano la strada dell'ambiguità. Durante il G8 di Genova li aveva danneggiati più della sconfitta del 13 maggio. Ma di fronte all'America sotto attacco la Quercia ritrova la rotta. La solidarietà diventa atto concreto, sostegno pieno alle decisioni della Nato che per la prima volta nella sua storia attiva l'articolo 5. Se ci sarà una reazione l'Italia, Ds compresi, starà dalla parte degli Stati Uniti. Dopo un voto parlamentare, ma questa è una garanzia in più che anche il governo chiede all'opposizione. E allora forse è vero che le immagini di un vero e proprio atto di guerra, stavolta, hanno tolto ai Ds la paura di essere scavalcati a sinistra.
Eppure quella galassia di sigle che fu il Pci, filosovietico e antiimperialista, resta divisa anche quando a Manhattan e a Washington si contano i morti, migliaia di morti. Bertinotti condanna il terrorismo, ma vorrebbe un coinvolgimento dell'Onu e invita a una riflessione più generale sugli squilibri del mondo. E Fassino si stupisce. «Francamente non lo capisco. Fa dei distinguo capziosi. Qual è il problema? Che vengano colpiti i veri responsabili? Mi sembra ovvio, chi pensa il contrario? Suvvia, questo argomento non esiste». È indignato invece per la posizione del Manifesto. Ancora una volta la satira non va giù ai Ds. «La vignetta di Vauro mi spaventa». Nel disegno si vede Bush bendato che fa girare un mappamondo pronto a puntare il dito dove capita. Fassino è inorridito: «È la vecchia idea che l'America ha sempre torto anche quando ventimila persone sono sotto le macerie. Ma come si fa a pensare una cosa del genere?». Già, come si fa? Nei Ds nessuno la pensa come il vignettista. Nel suo intervento in Parlamento il capogruppo del Senato Gavino Angius parla di cautela. «Ma è la stessa parola usata dal ministro Ruggiero. E da Colin Powell...». «Individuare e punire i colpevoli», dice Angius e sembra Bush. «Non possiamo non affidarci all'uso delle forza», continua. Il capogruppo è soddisfatto per la posizione del governo italiano, è giusto che un'eventuale azione ottenga un via libera parlamentare. E il voto dei Ds, «una volta accertati con precisione i responsabili di quell'orrenda azione terroristica», non mancherà. «L'importante - spiega Angius - è colpire il bersaglio giusto. Per non fare un favore ai terroristi». In questo momento la Quercia cerca gli strumenti di massima legittimazione non per rinviare le decisione, non per sfuggire alla reazione, ma per dargli più forza. E sembra sincera. Semmai torna a dividersi al proprio interno sul segretario. Quando eleggerlo adesso che si rischia una guerra vera? Accelerare i tempi del congresso e dare il via libera al candidato dalemiano che ha già la vittoria in tasca? O nominare subito un segretario di garanzia, cioè un quarto uomo? I tre aspiranti si sono visti ieri, ma la decisione è rimandata. Che succederà domani o fra poche ore? Spiega Fassino tornando al punto: «Ma certo, coinvolgiamo anche l'Onu come dice Bertinotti. Ma dev'essere un'iniziativa parallela a quella della Nato e deve soprattutto servire a un'assunzione di responsabilità di tutte le nazioni. Una risoluzione dell'Onu sarebbe un vincolo per il mondo e così vediamo quali sono i Paesi che vogliono combattere il terrorismo e quelli che preferiscono l'ambiguità». A parlare di uso della forza è stato Massimo D'Alema, per primo, nel suo discorso alla Camera. Con attenzione, con una precisione scientifica: "Dobbiamo colpire gli attentatori, non i Paesi sospettati".
In quella zona cuscinetto tra i Ds e Rifondazione, dove i comunisti italiani difendono le ragioni dell'Ulivo e nella scorsa legislatura della governabilità, c'è Armando Cossutta che non vede gli elementi «per tirare in ballo l'articolo 5». «La mia solidarietà agli Stati uniti è totale - dice il presidente del Pdci -, la mia condanna del terrorismo è totale, ma la Nato lancerà un'azione militare contro chi? Perché questa è una guerra? Contro l'Islam, contro i palestinesi? Questa non è materia di G8, né di Alleanza atlantica, è una questione che va valutata dall'Onu. E io penso che mai come stavolta l'Europa deve far sentire la sua voce». Ma così non va; per Enrico Morando, il candidato riformista alla segreteria ds, il problema non esiste: «Non ci sono mezze misure. Non possono esserci dubbi, i se, i ma. La nostra collocazione è chiara, lampante. Siamo in un'alleanza e rispettiamo il trattato in tutti gli articoli». I Ds non rispondono alle sirene di chi è più a sinistra di loro. «In 48 ore - dice Pietro Folena - abbiamo dato un'idea di unità del partito come non succedeva da tempo». Ma c'è timore, un'idea del futuro che è necessariamente drammatica. Sergio Cofferati alla Festa dell'Unità di Reggio Emilia avverte: «I rischi di una potenziale recessione ci sono tutti». E su quegli aerei trasformati in bombe dice: «Cambierà il corso della storia per tantissime persone e per tutti i Paesi del mondo».

   

LA NUOVA ALLEANZA DEI VALORI
di MARIO PIRANI

 

dal Repubblica - 14 settembre 2001


DI FRONTE all'indicibile non serve abbandonarsi all' iperbole catastrofica. Anche l'apocalisse a cui abbiamo assistito, che ha reso vecchi e superati in un attimo tutti i film di fantapolitica e i loro mirabolanti effetti speciali, anche questa apocalisse è radicata nella storia, nella politica, nelle umane passioni, negli odi dissennati di cui sono pervasi quanti credono di essere portatori di verità e fedi assolute. Dunque, per quanto sia difficile e con la consapevolezza di non possedere certezze, dobbiamo cercare di capire e di riflettere con le vecchie armi della ragione e della conoscenza. A condizione di non usare i parametri di ieri, seguitando a biascicare scontate ovvietà. Come rischiano, ad esempio, di fare quanti insistono nel raccontarsi che lo scempio di New York sarebbe il riscontro della miseria dei campi palestinesi o della fame del Terzo mondo. Due indubbie realtà da tenere ben presenti, ma non direttamente collegabili, come causa ed effetto, con i miliardi di dollari di cui dispone la rete terroristica islamica né con la capacità tecnica, organizzativa e cospirativa degli ultramoderni attentatori.
In primo luogo dobbiamo "vedere" la nuova e antichissima arma di cui il terrorismo dispone. Quest'arma è il corpo umano che il kamikaze ora usa e che è in grado di "bucare"qualsiasi difesa.
Fino a ieri il terrorista rischiava la morte ma sperava anche di scamparla. Oggi non è più così. Da quando Israele è stata sconvolta dalle bombe umane, e si è intuito che esse sono moltiplicabili ben oltre la ristretta cerchia di qualche disperato fanatico, si è aperto un nuovo capitolo nella tecnica dei conflitti. Il secondo atto, quello americano, prova che la bomba umana può essere impiegata ovunque su scala infinitamente più vasta.

E NON è finita. Su queste colonne il grande scrittore israeliano, Abraham Yehoshua, azzardava l'altro giorno la terribile profezia di kamikaze forniti di bombe batteriologiche o chimiche e, presto, di micro-atomiche in grado di distruggere Israele, e non solo Israele. E', comunque, una forma di guerra, ad un tempo deflagrante e subdola, atta ad irrompere improvvisa in una pacifica comunità e a devastarla, impiegando uno o pochissimi individui laddove occorrevano eserciti e superbombardieri, quasi inafferrabile nelle sue basi di partenza, priva della necessità di ripiegamento dopo l'azione. Quanto una società civile moderna, fragile nella sua complessità, esposta da ogni lato, non regredibile a chiuso e paralizzato fortilizio può reggere, senza stravolgersi essa stessa, ad un confronto di questo genere? C'è , dunque, una logica ben conseguente nella apparente follia dei mandanti delle stragi. Se non verranno stroncati prima, ben presto cominceranno ad avanzare le loro condizioni. Queste bombe umane non sono il prodotto della disperazione o della miseria, ma della esaltazione di una fede islamica intollerante ed estremista, il cui odio non è solo rivolto ad ebrei ed infedeli ma anche ai musulmani di credenza umanistica e moderata. Le ascendenze sono lontane. La denominazione di "assassino" deriva da una setta sciita, quella degli "hashashin", fiorente nei secoli XII e XIII in Persia, Siria, Palestina e Mesopotamia, divenuta famosa per la sua azione terroristica e violenta. Ciecamente obbedienti al loro capo politico-religioso, il "Veglio della Montagna" , gli "hashashin" erano chiamati tali perché prima di ogni eccidio consumavano abbondanti dosi di hascisc per raggiungere uno stato di piena ipnosi. Loro tardi ma fedeli eredi sono gli odierni aderenti alla Jiad (Guerra santa) che, all'interno della galassia islamica, si contraddistinguono perché credono nel martirio suicidario come mezzo legittimo e sublimante per combattere i nemici della Fede e quanti calpestano il suolo maomettano. Oggi il "Veglio della Montagna" è Bin Laden. Non , però, come una riedizione medievaleggiante di uno sceicco rifugiato in una grotta afgana ,come viene spesso descritto, tanto da renderne poco credibile la leadership, ma nella versione di capo politico-militare moderno, tutto teso ad attualizzare, in chiave teocratica, quello che fu il sogno laico fallito di Nasser, quando tentò di perseguire l'unità araba, facendo leva, anche lui, sull'odio per Israele. Bin Laden, invece, non punta più a federare gli Stati (come voleva Nasser con l'effimera fusione tra Egitto e Siria o Gheddafi, ipotizzandola per il Magreb) ma dà vita, nel giugno del '98, ad una organizzazione trasnazionale, il "Fronte internazionale islamico per la Jiad contro gli ebrei e i crociati". Laddove per crociati simbolicamente si intendono gli americani, destinati pure loro, come gli eredi di Goffredo di Buglione ad essere un giorno scacciati dal sacro suolo maomettano. Un obbiettivo, dunque, non limitato ad Israele ma che si estende anche alle regioni sotto dominio indù e soprattutto all'Arabia Saudita, con i due principali luoghi santi, la Mecca e Medina, profanati dalla presenza americana, voluta da regimi impuri e corrotti. In prospettiva la riproposizione dell'Umma, lo Stato arabo unificato, in chiave religiosa e teocratica. Se questi sono gli obbiettivi, la strategia di Bin Laden ne rappresenta l'abile presupposto: essa, infatti, col suo carattere internazionale assicura il pivot di riferimento per i movimenti jiadisti a sfondo puramente nazionale, come Hamas e altre formazioni palestinesi e anche per i fondamentalisti in bilico tra l'uso della violenza e la lotta politica, quali il Fis algerino e i Fratelli musulmani egiziani. Per un altro verso, non avendo un proprio insediamento territoriale, il Fronte internazionale islamico, da un lato usufruisce dell'apporto dei servizi segreti degli Stati "canaglia" e, nello stesso tempo, evita che questi vengano chiaramente individuati come mandanti diretti. Si tratta, quindi, di un intreccio sofisticato, con una propria ideologia religiosa e un grado di aggressività tecnologicamente pericolosissima. Il livello di integrazione e l'utilità della stessa lascia presumere che se Bin Laden scomparisse qualche altro leader-sigla prenderebbe il suo posto. La nostra ipotesi di analisi non si chiude qui. Dobbiamo, infatti, chiederci perché proprio ora il terrorismo ha compiuto il terribile salto di qualità al quale abbiamo assistito. Una risposta può essere identificata nel venire a maturazione di un propellente ideologico ed emotivo già presente nel passato ma vieppiù dirompente negli ultimi tempi: da quando, cioè, la seconda intifada ha assunto caratteristiche devastanti e apparentemente incontrollabili, tali da riproporre come un obbiettivo raggiungibile la futura distruzione dello Stato d'Israele e non più una pace che permetta la coesistenza di due Stati sulla stessa terra. Il propellente che genera non solo l'entusiasmo suicidario dei kamikaze ma l'appoggio e la connivenza da parte non solo delle masse arabe ma di non marginali ambienti occidentali è il prodotto del sovrapporsi in una unica pulsione dell'antisemitismo con l'anti americanismo. Un mix che nei suoi filoni europei cerca furbescamente di mimetizzarsi dietro le critiche più che giustificate alla politica israeliana, alla stupidità insopportabile degli insediamenti dei coloni, alla brutalità indegna di certe repressioni. Tutto giusto se, però, non si ignorasse ipocritamente e volutamente il precedente di Camp David e si collocassero invece le critiche in un contesto caratterizzato dall'offerta da parte di Barak di una pace onorevole che, per la prima volta, accettava la compresenza a Gerusalemme e uno Stato palestinese al 98% dei suoi territori. Arafat poteva chiedere di più? Certamente sì, in primo luogo per quanto si riferisce agli insediamenti colonici. A condizione che avesse proseguito nelle trattative e non avanzato la richiesta del ritorno di milioni di profughi, scatenando, nel contempo, una intifada che è rapidamente trascesa dai sassi alle auto-bombe e ai kamikaze. Forse il grado di violenza è andato al di là di quanto Arafat aveva inizialmente immaginato ma resta il fatto che, a quasi un anno di distanza, le masse palestinesi gioiscono per il bombardamento di New York e anelano alla distruzione di Israele. Che del resto questo sia l'animus anche dei capi arabi (oltre che dei loro supporter occidentali) lo provano a iosa le inaudite richieste, fortunatamente respinte, presentate a Durban. Alla luce di tutto ciò si può ben azzardare una periodizzazione che vede la degenerazione terroristica dell'intifada e il profilarsi della possibile - e, comunque, desiderata- distruzione di Israele, con l'incubo di un secondo Genocidio, come la premessa temporale e logica dell'assalto al cuore dell'America. Da quanto detto penso si evinca che non crediamo sia possibile battere l'attuale offensiva terroristica agendo solo sul terreno militare, anche se l'uso delle forze armate della Nato, laddove gli obbiettivi siano individuabili, non debba affatto essere escluso. Ma solo la politica - e direi anche la riaffermazione delle nostre radici culturali - può suggerire un percorso con esiti positivi. In primo luogo conservando la consapevolezza che la democrazia, anche quando viene minacciata e colpita, deve accrescere la propria forza ma non a spese della propria natura. Questo implica di non lasciarsi travolgere da cacce alle streghe, dall'odio per il diverso, che oggi potrebbe tradursi in avversione indifferenziata per l'Islam e gli islamici, dalla illusione di sanare le angosce accrescendo solo i controlli di polizia o affidandosi ad una rete internazionale di fantomatici 007. Sul piano interno ma ancor più su quello internazionale l'Occidente deve, per contro, conservare un giudizio lucido e ricordare che una gran parte del mondo islamico, quello sunnita ma anche quello di varia osservanza al potere dalla Turchia al Marocco, dall'Indonesia all'Egitto, dagli Emirati all'Arabia Saudita non solo è depositario di una concezione coranica tollerante e non ferocemente aggressiva, ma rappresenta anche un obbiettivo dichiarato dell'attacco armato fondamentalista. Non dimentichiamo che se Rabin è stato ucciso da un estremista ebreo, Sadat lo fu, per gli stessi motivi, da un fondamentalista arabo. Si tratta, quindi, di recuperare una alleanza non basata solo sul petrolio o sugli armamenti ma su un riconoscimento di valori e legami di più vasta e profonda risonanza. Questo vale in primo luogo per il conflitto israelo-palestinese. Per riprendere il cammino della pace non basta un incontro inficiato da reciproche, invincibili diffidenze. Occorre incitare Israele a ritirarsi al più presto dagli insediamenti e convincere i palestinesi, che abbiano conservato l'opzione della convivenza a dire ai propri concittadini (non con qualche frase diplomatica in inglese agli interlocutori europei, ma alto e forte in arabo alle loro radio e Tv, nei loro giornali, nelle loro scuole e nelle loro moschee ) che accettano la presenza definitiva di uno Stato degli ebrei, coi quali, pur essendosi odiati e combattuti per troppo tempo, possono, peraltro, riconoscersi nella comune origine abramitica. Sarebbe questa la prima, grande vittoria per sconfiggere Bin Laden.


 


RASSEGNA STAMPA


14 SETTEMBRE 2001

 

THOMAS FRIEDMAN

Il nemico dentro di noi

Ieri mattina presto a Gerusalemme, mentre ero ancora sdraiato dopo una notte insonne, la televisione sintonizzata su Cnn e l'alba che si alzava sui luoghi santi, le mie orecchie hanno in qualche modo afferrato una frase del segretario americano per i trasporti, Norman Mineta, riguardanti le nuove precauzioni che saranno messe in atto negli aeroporti statunitensi sulla scia degli indescrivibili attacchi terroristici di martedì: "Non ci saranno più check in esterni agli aeroporti" ha detto. Mi sono immediatamente immaginato un gruppo di terroristi, qui, da qualche parte in Medio Oriente, mentre sorseggiano il caffè guardando Cnn e scoppiano a ridere in maniera isterica: "Ehi, capo, hai sentito che cosa hanno detto? Abbiamo appena fatto saltare in aria Wall Street e il Pentagono, e la loro risposta è: mai più check in esterni?"

Non vorrei criticare il Signor Mineta. Sta facendo quello che può. Non nutro alcun dubbio sul fatto che il team di Bush, quando avrà identificato chi ha commesso simili azioni, gliela farà pagare cara. Eppure c'è stato qualcosa di talmente assurdo, inutile e tipicamente Americano nel divieto del check in esterno agli aeroporti, che non ho potuto fare altro che chiedermi: ma il mio paese ha veramente compreso che questa è la Terza Guerra Mondiale? Che se questo attacco è stato la Pearl Harbor della Terza Guerra Mondiale, significa che avremo di fronte una lunga, lunga guerra?

Questa Terza Guerra Mondiale non ci contrappone ad un'altra superpotenza. Contrappone noi, l'unica superpotenza del mondo, il simbolo, la quintessenza dei valori liberali dell'Occidente e del libero mercato, a tutti gli uomini e le donne che, ovunque, nutrono una superpotente rabbia. Molta di questa gente superpotentemente adirata proviene da stati sull'orlo della decadenza nel terzo mondo e nel mondo arabo. Non condividono i nostri valori, sono arrabbiati per l'influenza che l'America ha nelle loro vite, nelle loro politiche, sui loro figli, per non parlare del nostro supporto ad Israele, e spesso incolpano l'America per l'incapacità delle loro civiltà a padroneggiare la modernità. Quello che li rende superpotenti, però, è la loro genialità nel sapere adoperare il mondo informatico, Internet e le sofisticatissime tecnologie che essi disprezzano per attaccarci. Pensateci: essi hanno trasformato i nostri più avanzati aerei per il trasporto civile in missili cruise, manovrati dall'uomo, guidati dalla precisione - una diabolica via di mezzo fra il loro fanatismo e la nostra tecnologia. La Jihad Online. E pensate a quello che hanno colpito: il World Trade Center - il faro del capitalismo americano che li attira e li respinge al tempo stesso, e il Pentagono, l'incarnazione stessa della superiorità militare americana.

Pensate ai luoghi che le bombe-umane Palestinesi hanno colpito maggiormente in Israele. "Non hanno mai colpito sinagoghe o insediamenti o zeloti religiosi israeliani," ha sottolineato Ari Shavit, giornalista dell'Haaretz. "Hanno colpito il negozio della pizza Sbarro, il centro commerciale Netanya, la discoteca Delphinarium. Hanno colpito l'Israele yuppie, non l'Israele yeshiva." E allora, che cosa occorre per combattere una guerra contro simile gente, in un simile mondo? Prima di tutto, noi in quanto Americani non saremo mai in grado di identificare gruppi così minuscoli, spesso stretti da vincoli famigliari, che vivono in posti come l'Afganistan, il Pakistan, o la selvaggia Valle della Bekaa in Libano. Gli unici che possono identificare questi gruppi che vivono nell'ombra e che si trasformano costantemente, gli unici che possono dissuaderli, sono le loro stesse società. Gli ufficiali israeliani potranno dirvi che l'unica volta che non hanno avuto alcuna difficoltà, che hanno avuto il pieno controllo della situazione sulle bombe-umane e sui gruppi radicali palestinesi, come Hamas e la Jihad Islamica, è stato quando Yasser Arafat e l'Autorità Palestinese li hanno ricercati, imprigionati o fermati.

Ecco allora la domanda: che cosa dobbiamo fare noi affinché le società che ospitano i gruppi terroristici agiscano efficacemente e veramente contro di loro? Prima di tutto dobbiamo dimostrare di essere seri e che abbiamo ben compreso che molti di questi terroristi odiano la nostra esistenza, non soltanto la nostra politica.

Le persone che hanno pianificato i bombardamenti di martedì hanno unito il male a livello internazionale con il genio a livello mondiale e hanno ottenuto un devastante risultato. A meno che non siamo pronti a mettere i nostri migliori cervelli al lavoro per combattere contro di loro - il progetto Manhattan Terza Guerra Mondiale - siamo nei guai. Perché mentre questa è stata probabilmente la prima e più importante battaglia della Terza Guerra Mondiale, potrebbe anche essere l'ultima nella quale siano state utilizzate soltanto armi convenzionali non nucleari.

Secondo punto: per troppi anni abbiamo continuato a permettere che andasse avanti il doppio gioco dei nostri alleati in Medio Oriente. Ora deve finire. Un paese come la Siria ora deve decidersi: a Damasco preferisce un'ambasciata degli Hezbollah o una degli Stati Uniti? Se preferisce l'ambasciata degli Stati Uniti, allora non può continuare ad ospitare una galleria di farabutti appartenenti a gruppi terroristici. Questo significa forse che gli Stati Uniti debbano ignorare i problemi dei Palestinesi e i problemi dell'economia musulmana? No. Molti, in quest'area della terra, desiderano ardentemente il meglio dell'America, e non possiamo dimenticare che noi siamo il loro unico raggio di speranza. Ma a proposito dei Palestinesi, gli Stati Uniti illustrarono al tavolo delle trattative di Camp David un progetto che avrebbe concesso a Yasser Arafat molto di quello per cui egli ora afferma di lottare. Forse il progetto americano non era appropriato per i Palestinesi, ma affermare che il terrorismo con i kamikaze sia una risposta giustificata ad esso è assolutamente rivoltante.

Terzo punto: abbiamo bisogno di instaurare un serio e rispettoso dialogo con il mondo arabo e con i suoi leader politici sul motivo per il quale molti dei loro popoli stanno facendo passi indietro. L'Egitto, dopo la guerra del 1967, ha vissuto un periodo di autocritica che ha dato vita ad una paese più forte. Perché nessun leader arabo tollera oggi un simile processo di autocritica? Dove sono i leader musulmani che insegnano ai loro figli ad opporsi agli Israeliani, ma non a uccidersi o a uccidere innocenti civili? La vita è sacra, per quanto brutta possa essere. L'Islam, una grande religione che non ha mai perpetrato nei confronti degli Ebrei l'Olocausto di cui invece si è macchiata l'Europa, è sicuramente travisato quando è trattato alla stregua di un libro di istruzioni per addestrare i suicidi-bomba. Come mai nemmeno un solo leader Musulmano lo ha detto?

Queste sono alcune delle domande che dovremo porre mentre combatteremo la Terza Guerra Mondiale. Sarà una guerra lunga, contro un nemico intelligente e motivato. Quando ho fatto notare ad un ufficiale dell'esercito israeliano quale straordinaria impresa tecnologica debba essere stata per i terroristi dirottare gli aeroplani e poi dirigerli contro i punti maggiormente vulnerabili di ogni edificio, egli mi ha deriso. "Non è poi così difficile imparare a guidare un aereo quando si è già in volo," mi ha detto. "E ricordati che non hanno mai dovuto imparare come si fa ad atterrare."

Già, non hanno dovuto. Dovevano soltanto portare distruzione. Ma noi, al contrario, dobbiamo combattere con modalità che siano efficaci ma non distruggano la stessa libera società che stiamo cercando di proteggere. Dobbiamo combattere duro e atterrare senza danni. Dobbiamo combattere i terroristi come se non esistessero regole, e proteggere le nostre libere società come se non ci fossero terroristi. Non sarà facile.