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Lega, l’assalto a «Roma ladrona» blocca la Camera
Cè e Galli, espulsi da Fiori (An), restano in Aula e attaccano: fascista. Alla fine fiducia al governo sulla vendita degli immobili

 

 
dal Corriere - 1 aprile 2004


ROMA - Proteste, insulti, deputati leghisti espulsi dall’Aula che si rifiutano di abbandonare l’emiciclo, seduta interrotta per circa quattro ore e ripresa solo a tarda sera, con i due onorevoli «ribelli» sospesi dall’attività parlamentare per cinque giorni. La Camera ha vissuto ieri una giornata tempestosa, segnata dal violentissimo scontro verbale tra il vicepresidente Publio Fiori, di Alleanza nazionale, e i deputati del Carroccio capeggiati dal capogruppo Alessandro Cè. A dar fuoco alle polveri, ancora una volta le accuse contro «Roma ladrona». È da poco passata l’ora di pranzo, a Montecitorio si discute il decreto sulle dismissioni degli immobili di Stato, provvedimento sul quale il governo ha posto la fiducia. Sullo scranno più alto è seduto Fiori, presidente di turno dell’Assemblea, che dà la parola a Cè per la dichiarazione di voto: il capogruppo della Lega definisce «pessima» la legge, parla di «svendita del patrimonio immobiliare pubblico» e di «regalo ai partiti di Roma ladrona e sprecona».


ROMA LADRONA - Le ultime tre parole fanno sobbalzare sulla sedia Fiori, che richiama all’ordine il presidente dei deputati del Carroccio una, due, tre volte. Il diretto interessato, per nulla intimorito, gli grida contro: «Non mi deve interrompere, mi deve lasciar parlare». Alle sue urla si uniscono quelle dei colleghi di partito, mentre i deputati di Alleanza nazionale cominciano ad agitarsi sui banchi e il centrosinistra protesta: è a questo punto che la situazione precipita.


L’ESPULSIONE - Fiori decide di espellere Cè, quasi non finisce di pronunciare la frase che una gragnuola di insulti gli piove sul capo: «Fascista, deficiente», gridano i deputati del Carroccio inferociti. «Lei è indegno del ruolo che ricopre, è un fascista», lo apostrofa Dario Galli, anche lui subito espulso. L’Aula è ormai una bolgia, Fiori sospende la seduta ma i leghisti non hanno alcuna intenzione di andarsene, anzi si stringono intorno ai due espulsi che restano seduti ai loro posti. «Non usciamo dall’Aula - spiega Guido Rossi - e poniamo formalmente la questione della permanenza di Fiori alla vicepresidenza della Camera. In quest’aula dove si dice di tutto è mai possibile che uno venga espulso per quella frase? Questo - conclude - è un atto di intimidazione».
Mentre la Lega resta asserragliata nell’emiciclo, gli altri deputati si riversano nel Transatlantico in attesa che la situazione si sblocchi.

«UNA SCENA» - «È tutta una messa in scena per non votare un provvedimento a cui erano contrari», dice Luciano Violante (Ds), per il capogruppo della Margherita Pierluigi Castagnetti è stato un atto di «squadrismo». Il leader dell’Udc Marco Follini parla di «spettacolo indegno», Gianfranco Fini esprime la solidarietà del partito a Fiori. Ferdinando Adornato (FI) usa una metafora calcistica: «C’è stato un errore arbitrale, il comportamento di Cè non meritava addirittura un’espulsione».
Pier Ferdinando Casini rientra in fretta e furia alla Camera e riapre per pochi minuti la seduta, giusto il tempo di confermare le espulsioni decise da Fiori e convocare l’ufficio di presidenza: una decisione che i leghisti accolgono gridando «vergogna» e sventolando una pagina del quotidiano La Padania con su scritto «Mai molè, tegn dur» (mai mollare, teniamo duro). Il ministro Roberto Maroni parla di decisione «grave, non condivisibile e immotivata». Nel frattempo arrivano a Montecitorio il vicepresidente del Senato Calderoli, lo stesso Maroni e Castelli: questi ultimi incontrano prima i deputati del Carroccio e poi Casini, nel cui studio sale anche Fiori.
Dopo oltre quattro ore di impasse e infinite discussioni, la seduta finalmente si riapre: «I fatti accaduti oggi sono assai gravi, contro Fiori sono state pronunciate inammissibili ingiurie», dice Casini (aggiungendo poi che la solidarietà verso il vicepresidente è «un atto obbligato»).


LA FIDUCIA - Quindi comunica la decisione presa dall’ufficio di presidenza: cinque giorni di sospensione per Cè e Galli, che però potranno rientrare in Aula per il voto di fiducia. Fiducia che la Lega, dopo qualche attimo di suspense, effettivamente vota annunciando però che tutto il gruppo si autosospenderà per cinque giorni. «Quello che è successo oggi in Parlamento è di una gravità inaudita - commenta Cè -. È intollerabile che il presidente della Camera dia solidarietà a un vicepresidente che è un fascista».
Livia Michilli


«Senza Bossi qualche difficoltà in più»
Berlusconi va dai leghisti: la mia solidarietà. La «Padania» attacca ancora: prove di fascismo

ROMA - Lo dice anche Silvio Berlusconi dopo aver parlato con Roberto Maroni e Roberto Castelli, a fine giornata: «La Lega? E’ abbastanza chiaro che in assenza del leader carismatico ci possono essere delle situazioni che creano qualche difficoltà in più». Gli è toccato persino andare in casa del Carroccio, al gruppo parlamentare, a dare la sua «solidarietà» politica all’alleato dopo una giornata convulsa come poche altre nella legislatura. Aveva telefonato per cercare Cè o Maroni, ma nessuno aveva risposto. E così da Palazzo Chigi, il premier, temendo anche per il voto di fiducia, sale di persona al primo piano di Montecitorio: soltanto Stefano Stefani lo abbraccia, gli altri lo accolgono con la solita freddezza. Ma nonostante i sospetti del gruppo dirigente leghista, particolarmente sensibile in questo periodo in cui come ha sintetizzato il leader socialista Enrico Boselli sembra «una ciurma senza capitano in grado anche di far affondare la nave», Berlusconi ha ottenuto qualche risultato. Oggi i leghisti per solidarietà con il capogruppo Alessandro Cè e con Dario Galli, sospesi dai lavori della Camera, non saranno in Aula e dunque non parteciperanno al voto sulle cartolarizzazioni degli immobili. Una scelta che, rispetto all’annunciato voto contrario del Carroccio, avvantaggia comunque la maggioranza. Maroni e Castelli hanno anche rassicurato Berlusconi che fino alle Europee non c’è aria di crisi: si seguirà la linea impostata da Bossi nei mesi scorsi. Certo oggi la Padania titolerà «Prove di fascismo», trasformando l’episodio di ieri in una prova di Aventino leghista. In realtà è stata una piccola secessione in Aula: tutti a far quadrato intorno ai loro due colleghi «offesi», una piccola fortezza di uomini. Un gruppo apparentemente compatto, nel difendere le battaglie padane e antiromane. «Se ci fosse stato Bossi sarebbe stato lo stesso», si affretta a giustificarsi Roberto Calderoli, vicepresidente leghista del Senato. Ma le difficoltà (sono passate quattro ore) per convincere Cè e compagni a sgombrare l’Aula, dimostrano anche l’impotenza dei capi. Per primo ci ha provato lo stesso Calderoli: aveva stabilito con Casini che i due colleghi avrebbero potuto partecipare al voto di fiducia, e sarebbero stati puniti subito dopo. Ma Cè e Galli dicono no. Ci tenta Ignazio La Russa, il più filoleghista dei deputati di An: niente. Si mettono all’opera anche Giulio Tremonti e Aldo Brancher, compagni delle cene del lunedì ad Arcore. Ancora niente. Arrivano Castelli e Maroni: qualcosa si muove. Poi arriva la telefonata del premier a Cé.
Tutti segnali, in una giornata così complicata, che la successione a Bossi è iniziata. Altrimenti oggi l’ Indipendente non pubblicherebbe il sondaggio (Datacontact) sulla leadership leghista: il 56,7% vorrebbe Maroni. La partita sarà lunga. Per ora, la mina esplosa improvvisamente ieri, non ha fatto troppi danni e in serata Silvio Berlusconi può anche permettersi di scherzare. «Ecco il sereno rompe là da ponente, alla montagna...», declama citando Leopardi, mentre saluta i leghisti.
Gianna Fregonara

 

Scontro nella maggioranza sulla vendita degli immobili, poi passa la fiducia. Cè, espulso, si rifiuta per 4 ore di uscire
La Lega occupa la Camera
Bagarre in aula. Tasse, ultimatum di Fini a Berlusconi
Ma il Cavaliere minimizza: "Solo un temporale estivo"
 

 
da Repubblica - 1 aprile 2004



ROMA ? Giornata di caos e tensione alla Camera tra i partiti della maggioranza. Ad accendere la polemica il diverbio scoppiato tra il capogruppo leghista Cè e Fiori, presidente di turno dell´aula. Il rappresentante del Carroccio viene ripreso dal deputato di An durante il suo discorso sull´intenzione di voto riguardo alla cartolarizzazione degli immobili per la frase «Roma ladrona». Dai banchi della Lega si urla «fascista», «deficiente». Cè e Galli vengono espulsi, la seduta sospesa. Ma i leghisti si rifiutano per 4 ore di lasciare l´aula e minacciano di non votare la fiducia. Casini e i leader leghisti mediano e a sera si vota regolarmente: 308 sì e 210 no. Berlusconi minimizza: «È solo un temporale estivo». E sulla questione tasse Fini lancia l´ultimatum al premier.
JERKOV, LANZA, LONGO, PETRINI e TITO ALLE PAGINE 2, 3, 4 e 5


Rivolta Lega, Camera occupata
"Roma ladrona", Fiori espelle due deputati. Pugno duro di Casini
Scontro nella maggioranza prima della fiducia sulla vendita degli immobili. Cè: non lasciamo l´Aula
Convulsa trattativa con i ministri del Carroccio.
I leghisti ribelli sospesi per 5 giorni.
L´Ulivo: governo sgretolato
I commessi, di fronte al muro dei lumbard, non ce la fanno a raggiungerli e cacciarli
UMBERTO ROSSO

ROMA - «Roma ladrona», e occupano la Camera. Per quattro ore una trentina di leghisti tiene in scacco Montecitorio, nel bel mezzo del voto di fiducia sulla vendita degli immobili: si sono trasformati in "scudi umani" per proteggere il capogruppo Cè e il deputato Galli. I due, espulsi prima dal vicepresidente di turno Fiori e poi dallo stesso presidente Casini - e che si beccheranno cinque giorni di sospensione - se ne restano asserragliati in aula, protetti fisicamente dal resto del gruppo. I commessi, di fronte al muro leghista, non ce la fanno a raggiungerli e cacciarli. Clima surreale. Spuntano persino i panini per rifocillare i rivoltosi. Padania sventolata in aula, «Mai molè, tegn dur». Solo alle sei del pomeriggio, dopo una delle più lunghe e nervose giornate del Parlamento, e una convulsa trattativa fra Casini, Berlusconi (che si precipita a Montecitorio), Maroni e Castelli, l´occupazione finisce. I leghisti lasciano l´aula, precipitandosi in sala stampa per lanciare una valanga di accuse contro «il fascista Fiori», Casini che «non rispetta il nostro diritto di parola» e sparando a zero contro il «partito trasversale degli affari» che starebbe dietro la vendita delle case a Roma: «Dentro c´è An, l´Udc, Margherita e Ds». E Forza Italia? «Un pochino». Voterete la fiducia al decreto? «Forse sì, forse no, ci dobbiamo pensare...». Cè e gli altri si imbavagliano con i fazzoletti verdi. Qualche minuto dopo però accorrono in aula quando scatta la conta per la fiducia al governo sulla cartolarizzazione: alla fine la votano anche loro (308 sì, 210 no), Berlusconi può tirare un sospiro di sollievo, «è come un temporale estivo» dichiara. «Sono fibrillazioni elettorali dovute alla proporzionale - aggiunge - anche nel Triciclo si dibattono per il portavoce». Ma poi ammette: «per quanto riguarda la Lega è chiaro che in assenza del leader carismatico ci possono essere delle situazioni che creano qualche difficoltà».
Per l´apposizione, però, è tutt´altro che un temporale estivo. La maggioranza, dice Violante, «si è sgretolata, non c´è», con Fini che non va nemmeno più alle riunioni del Consiglio dei ministri. «Vogliono scassare il Parlamento», accusa Castagnetti. «Restano uniti solo nelle leggi peggiori», tuona Rizzo. Perché la battaglia campale di Montecitorio si è giocata tutta all´interno delle file della maggioranza.
E´ il governo che appunto, quando sono da poco passate le 14.30, aspetta di incassare la fiducia sulla vendita degli immobili. La parola al capogruppo leghista Alessandro Cè. «E´ un regalo ai partiti di Roma ladrona, Roma padrona, Roma sprecona, chiamatela come volete». Publio Fiori, An, vicepresidente lo blocca, «non si esprima così». E´ il segnale. Scoppia la bagarre. Il leghista Gibelli urla a Fiori «fascista, fascista». Il collega Galli corre verso la presidenza, «si vergogni». Cè insiste, «Roma ladrona, ladrona». Espulsi. Ma a quel punto la catena umana dei deputati leghisti impedirà ai commessi di eseguire l´ordine. Per le successive quattro ore alla Camera andrà in scena una sorta di pièce dell´assurdo. Arriva Casini. Solidarietà a Pubblio Fiori, in difesa dell´istituzione, anche se «i presidenti non hanno il dono dell´infallibilità». Arriva Maroni: grave decisione lo stop di cinque giorni per i nostri deputati, noi ci autosospendiamo tutti quanti. Passa Fini, che va dal barbiere: tutta colpa della «deprecabile incontinenza verbale dei leghisti». Il segretario udc Follini, «che spettacolo indegno». Oggi si vota ancora. I leghisti non ci saranno.


L´AULA
Quattro ore sulle barricate dall´espulsione all´abbandono, alla Camera va in scena l´ira della Lega senza Umberto
L´urlo del Carroccio: "Mai molà" e Montecitorio diventò un ring

La postilla di Maroni: avevamo deciso di votare la fiducia prima che lo chiedesse Silvio
Sono in poche decine tengono in scacco l´Assemblea, si battono il petto dall´eccitazione
ALESSANDRA LONGO

ROMA - Quasi quattro ore senza bussola, guidati solo dalla rabbia e dalla voglia di rompere il gioco, totalmente impermeabili ai richiami, alle espulsioni, alle regole, asserragliati come tupamaros nell´aula di Montecitorio, con i colleghi a tentare di mediare: «Dai, smettetela, basta, datevi una calmata». Storia di un partito, la Lega, privato giocoforza del suo lìder maximo, un partito di governo che, in un giorno piovoso di marzo, invece di votare la fiducia, tiene in sospeso i suoi alleati, fa accorrere con le auto blu ministri, e persino il premier, tutti nel ruolo di improvvisati mediatori. Chiusi dentro, abbarbicati agli scranni della Camera, e gli altri a cercare la trattativa. Un po´ come quando la polizia intrattiene i disperati: venite giù dal cornicione, non vi succederà niente...
Ore 15. Il capogruppo leghista Alessandro Cè e il deputato Dario Galli, da Tradate, esperto nel riciclo di materie plastiche, sono stati appena espulsi dall´aula da Publio Fiori, vicepresidente di turno. Hanno versato il solito veleno su «Roma ladrona e sprecona», hanno attaccato «le lobbies romane, trasversali ai partiti» accusate di far affari anche con la cartolarizzazione degli immobili. Fiori li ha richiamati all´ordine («Non vi permetto di offendere»), l´atmosfera si è incendiata, son volate parole grosse, «deficiente», «buffone», «fascista». E il deputato di An ha deciso, dall´alto del suo incarico, per il cartellino rosso. A questo punto ecco l´impazzimento, la variabile non prevista. Cè e Galli non mollano («Mai molà»). No, non vogliono uscire dall´aula, si blindano ai loro posti, circondati da un muro di scudi umani. Tutti dentro, provate a tirarci fuori...
Gli alleati si dissociano vistosamente. Follini parla di «spettacolo indegno», Gianfranco Fini va ostentamente dal barbiere («Sono venuto per questo...»). I forzisti Vito e Cicchitto battono in ritirata, impossibile mediare. Maggioranza a pezzi ma, a tarda sera, Berlusconi garantirà che è stata una cosetta da nulla, «tutto tranquillo», dice, tutto sotto controllo. Sarà, ma loro, i padani, sono lì, in aula, una trentina, tengono in scacco l´Assemblea, bloccano i lavori, si battono il petto dall´eccitazione. Ecco Andrea Gibelli, quello che ha urlato buffone a Fiori: «Ci opporremo fisicamente all´espulsione del nostro presidente!». I commessi sono preoccupati. Chi li tirerà fuori? «Noi possiamo toccare solo gli espulsi, gli altri no». Li vedi oltre la porta, ridono, scherzano, chiacchierano, mangiano i cioccolatini che uno di loro, Luigi Vascon, è andato a comprare alla buvette. Occupano Montecitorio e danno del fascista a Fiori, ex democristiano, che ribatte: «Io fascista? E´ il colmo!». Intanto, la seduta è sospesa e cominciano le trattative.
Casini dà ragione a Fiori, convoca i pezzi grossi della Lega. Ci vogliono pontieri o, perlomeno, interlocutori. Chi conta, adesso, nel Carroccio? Arrivano i ministri Roberto Maroni, Roberto Castelli. Spunta, dal Senato, Roberto Calderoli che si acquatta vicino alla porticina dell´aula, dove sono asserragliate le truppe e dà istruzione su come proseguire la serrata. Cè prova a trattare con la presidenza: «Esco ma poi rientro e mi fate parlare». Non funziona. La bionda Carolina Lussana si autonomina portavoce degli occupanti. Parla con i giornalisti, cerca di dare un senso nobile alla trovata: «Difendiamo il diritto di un parlamentare a parlare in aula. Fiori ha commesso un atto gravissimo, dovremmo essere noi a ricevere la solidarietà dei colleghi». I colleghi, soprattutto quelli di An, non ci pensano neppure a fraternizzare. All´ufficio di presidenza, convocato davanti a un televisore, per rivedere alla moviola gli incidenti, solo i rappresentanti di Forza Italia (che non hanno applaudito Fiori) sembrano orientati alla tolleranza. Le sanzioni, però, arrivano lo stesso. Cinque giorni di sospensione ai due ribelli. «Vergogna!», urla il manipolo leghista.
Maroni e Castelli (nelle vesti di mediatore) fanno la spola, dentro e fuori. Ma senza Bossi non c´è nessuno che da solo possa dirigere l´orchestra. Continuare la serrata? Resistere in aula anche fisicamente? Negare la fiducia? Votare la fiducia in seconda chiama? Poco dopo le 18, i leghisti escono dal bunker, fanno gruppo in Transatlantico. Hanno opinioni diverse su come andare avanti, partono parolacce, c´è tensione. Ci vuole una conferenza stampa. Cè la convoca al volo, denuncia il «bavaglio fascista». Se lo mette pure sulla bocca, il fazzolettone verde: «Io definisco Roma come voglio. Quel fascista mi ha impedito di parlare». Ma votate o no la fiducia? «Non siamo mica dissennati». Gli passano la dichiarazione di Casini. Il presidente della Camera esprime solidarietà a Fiori. Cè vacilla. La fiducia? «A questo punto, è in forse». Come in forse? Maroni ha appena finito di dire: «Noi voteremo comunque la fiducia, anche se ci autosospendiamo dai lavori per tutto il tempo che il nostro capogruppo non potrà essere in aula». Autosospensione? Castelli frena: «E´ un´ipotesi, resta sul tappeto». Dichiarazioni che si incrociano, si sovrappongono, spesso l´una smentisce l´altra. La Lega, senza Bossi, sbanda. Alle 19. 30, tutti nella sede del gruppo. C´è anche Berlusconi. Finisce con la fiducia al governo. Assenti quattro leghisti, tra cui Maroni. Lui, il ministro del Welfare, ci tiene a precisare, ed è anche questo un segno dell´aria che tira: «La Lega aveva già deciso di votare la fiducia, prima che arrivasse Berlusconi. Stavamo già scendendo in aula». Come dire: ci arrangiamo da soli, non abbiamo bisogno delle direttive altrui.

IL COMIZIO A MONTECITORIO
GIORGIO BOCCA
 

 
da Repubblica - 1 aprile 2004

 
I leghisti occupano la Camera dei deputati e inveiscono contro Roma ladrona. Tumulti, espulsioni, tafferugli, onorevoli indignati e onorevoli e magari ministri come Giulio Tremonti che sorridono agli eversori, onorevoli sospesi che si imbavagliano, onorevoli della Lega che danno del fascista al vicepresidente della Camera Fiori, onorevoli varesotti o bergamaschi che alzano cartelli su cui sta scritto «Mai molè. Tegn dur». Come la definiamo questa gazzarra? «Squadrismo fascista antiparlamentare», dice il capogruppo della Margherita Pierluigi Castagnetti o «una deprecabile intemperanza verbale» come corregge il vicepremier in doppiopetto Gianfranco Fini. Diciamo più semplicemente un esempio di una campagna elettorale di bassissimo livello dove tutti cercano di apparire anche a costo di contraddirsi in modo plateale, demagogico, scombinato.

Il comizio a Montecitorio

Materia del contendere? La vendita di edifici pubblici o cartolarizzazione come la chiamano che fa parte dell´assalto allo Stato e ai suoi beni perseguito con metodo e tenacia dall´attuale governo. Dicono bene i leghisti quando definiscono questo un provvedimento pessimo, ma fanno della demagogia nordista quando ne parlano come di «un regalo a Roma ladrona e sprecona, un regalo alle lobby romane».
Il sottogoverno che si pratica a Roma è, come tutti sanno un sottogoverno nazionale a cui partecipano i palazzinari e gli affaristi di tutte le Regioni.
Sono milanesi quelli che nel giro di due anni hanno messo assieme un gigantesco "real estate" immobiliare, emiliani gli altri che fanno fortuna sulle grandi opere, o i genovesi che commerciano l´acciaio, tutti dentro i marchingegni adoperati nel fallimento Parmalat o in quello Cirio, la complicità fra affaristi e politici nel comune scacco dello Stato. La Lega che era nata come reazione dura e pura alla corruzione dei partiti, alle loro burocrazie avide, nel giro di pochi anni ha creato i suoi feudi, le sue zone di interesse come l´aeroporto della Malpensa dove le assunzioni, le carriere, gli appalti dipendono in gran parte dai suoi grandi elettori. Il motto lombardo «Mai molè. Tegn dur» può esser così tradotto: non ci faremo mettere fuori dal grande banchetto, grideremo, ricatteremo, faremo confusione, fingeremo di essere eversivi perché sappiamo che i nostri avversari hanno lunghissime code di paglia. La storia politica della Lega sta tutta nella finta eversione bertoldesca, nel suo finto e impossibile separatismo, nei continui attentati all´unità del Paese e all´esercizio della democrazia, velleitari e inconcludenti: la costituzione di una guardia padana che però non arriva mai allo squadrismo, la creazione di istituzioni nordiste come il parlamento di Mantova, la scuola, lo sport e persino le miss che oscillano fra il velleitarismo e il folklore. Un localismo ambiguo che si dichiara nemico del parlamentarismo nazionale e ci campa sopra, che grida Roma ladrona e partecipa ai privilegi e agli appalti, una ripetizione anomala pittoresca di quello che fu nel periodo democristiano il ruolo dei piccoli partiti laici che raccoglievano le briciole del potere e quanto bastava per sopravvivere.
C´è una melanconica comicità nello spettacolo degli onorevoli democratici indignati se il dentista bresciano Cè, il Farinacci del Carroccio, insulta la città di Roma e si ribella alla disciplina parlamentare. Come se questa non fosse una sceneggiata che si è ripetuta negli anni: dagli insulti ai giudici che si permettevano di perseguire le violenze leghiste, all´appoggio ai "serenissimi" scalatori del campanile di San Marco, alla continua apologia di reato di sindaci come quello di Treviso. Questa Lega dura e pura è diventata negli anni una compagna di strada della partitocrazia che voleva distruggere.
Quanto alle ragioni tattiche che spingono i dirigenti leghisti a questo attivismo fragoroso si può supporre che la malattia del loro leader Bossi li abbia gettati in uno smarrimento, in una angoscia di sopravvivenza che pensano di coprire, con l´oltranzismo verbale. Ma è un rimedio di cortissimo respiro, la Lega non ha progetti credibili, è fuori dai grandi giochi della politica, da quelli europei come da quelli atlantici, dalla rivoluzione tecnologica, come dalla lotta al terrorismo, dal rilancio dell´economia come dalla crisi dello Stato sociale.
In questo gioco contorsionista si è arrivati al colmo del ribelle Cè che dichiara alla stampa: «Non siamo dissennati, votiamo la fiducia al governo. Condividiamo alcune cose fatte dalla Casa delle Libertà. C´è ancora in ballo il federalismo». Povera Italia!

Il Carroccio furioso rompe gli argini. Torna la voglie di opposizione?
di Piero Sansonetti
 

 
da l'Unità - 1 aprile 2004


Il capo dello Sdi, Enrico Boselli, dice che la Lega è una ciurma allo sbando perché ha perso il capitano. Non c’è Bossi, c’è Cè, e Cè - perdonate il gioco di suoni - non è all’altezza. Né è all’altezza Maroni, né Castelli, né Galli, Rossi e gli altri. È questo il problema? La malattia di Bossi?
Forse no, forse questo è solo un aspetto minore del problema. L’aspetto maggiore si chiama Zapatero, si chiama Hollande, si chiama crisi della destra (e quindi, drammaticamente, si chiama Berlusconi). L’incidente clamoroso nell’aula di Montecitorio segnala questo: i partiti alleati di Berlusconi sentono la terra che si fa friabile e scivola via sotto il loro piedi; valutano l’ipotesi di una sconfitta elettorale, calcolano i danni che può provocare, cercano le contromisure. Per la Lega il problema è grandissimo, può essere una questione di vita o di morte. Si presenta alle elezioni europee senza avere ottenuto nulla dalla sua presenza al governo, se non una prima lettura (su quattro, più referendum) della revisione federalista della Costituzione; ha vissuto per tre anni su un rapporto fiduciario con Berlusconi e ora si accorge che forse Berlusconi non è affatto in grado di mantenere la parola. Cosa si fa? Ci si prepara ad andare all’opposizione. Ma per farlo occorre fare esplodere tutte le contraddizioni, e distinguersi, e caricare di significato la propria identità padana. Ieri il giornale del partito, nel titolo d’apertura a nove colone, tuonava contro il decreto per la messa in vendita degli immobili pubblici sui quali Berlusconi ha messo la fiducia. Cioè tuonava contro il governo. Definiva il decreto il “frutto di un accordo incestuoso” (incestuoso però vuol dire un’altra cosa, probabilmente il direttore del giornale voleva dire scandaloso, o osceno, ma a forza di parlar padano si perde un po’ l’uso dei termini italiani...). Accordo incestuoso e tuttavia accettabile, perché la fiducia è stata votata anche dalla Lega. E lo steso giornale ieri aveva tutta l’ultima pagina con il simbolo del partito e una scritta metà in dialetto lombardo, e metà in italiano: “mai molè, ten dur” (che vuol dire mai mollare, tieni duro)e “contro Roma ladrona”. Che è come dire: sono ladri, sono nemici, li combatteremo fino alla fine, li staneremo, ma intanto votiamoli. E’ una contraddizione? Sì per ora lo è, ma è probabile che si risolva in tempi ragionevoli. La Lega ormai sta pensando a come sfilarsi dalla maggioranza, però lo vuole fare in tempi ragionevoli, in forme comprensibili, senza strappi che potrebbero non essere accettati dal suo elettorato. È un cammino fatto di passi lunghi e scatti progressivi. Ieri in aula c’è stato uno di questi scatti. Cè, ai tradizionali insulti leghisti, ha aggiunto - nei confronti di Publio Fiori - quello di fascista. Riprendendo un vocabolario che, ormai da qualche anno, nemmeno l’opposizione di sinistra usa più. Fiori, poi - che sicuramente è un reazionario - è uno dei pochi sessantenni di An che non ha un passato neo-fascista. Viene dalla destra Dc. Quella che si oppose al compromesso storico negli anni ‘70 (con De Carolis, Rossi di Montelera, Mazzotta, Segni ed altri).

In tutto questo, naturalmente, l’assenza di Bossi conta, ma fino a un certo punto. Ieri pomeriggio ha funzionato molto bene il gioco delle parti tra i moderati (Maroni e Castelli) e la base leghista (i deputati di base). Quando Casini, in aula, ha dichiarato la sua solidarietà a Fiori, la base leghista ha iniziato a rumoreggiare contro Maroni. Gridavano (testualmente): “Col cazzo che gli votiamo la fiducia! È una vergogna! se la scordino la fiducia...”. Maroni, che era presente - e che aveva appena dichiarato che la Lega avrebbe votato la fiducia - ha fatto finta di niente e si è appartato col suo cellulare. Mentre i deputati di base decidevano di riunirsi al gruppo. Con chi parlava Maroni? Chissà, forse con Berlusconi. Che infatti poi si è precipitato al gruppo della Lega a calmare le acque, a pagare dazio, e a portare a casa il voto di fiducia. E ha dichiarato: “Sì, l’assenza di Bossi qualche problema lo crea”. Quale problema? Uno solo: finora il patto Lega-Berlusconi è passato per il rapporto particolare e personale tra i due. Con Bossi fuorigioco questo rapporto salta. Maroni e Castelli non hanno l’autorità di Bossi per decidere le mosse a prescindere dai pareri, dagli umori, dai maldipancia della base e dei deputati di base. Questo, in una situazione di fibrillazione e in una lunga marcia di ritorno all’opposizione, può essere un problema: può far saltare gli schemi, i tempi, le mosse previste.


Un vero premier lascerebbe
di Antonio Padellaro

Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi non conta più nulla per la sua maggioranza. Sorride inutilmente, scambia battute, e i suoi o lo negano o fanno finta che non abbia parlato. Non vanno neanche alle riunioni del governo se non ne hanno voglia. E se ne hanno voglia si ribellano e si barricano in Parlamento. In una normale democrazia, un normale presidente del Consiglio ne prende atto, sale immediatamente al Quirinale e presenta le dimissioni al capo dello Stato. Nella democrazia anomala, sgangherata e a rischio di Silvio Berlusconi, il presidente del Consiglio fa finta di niente e la sommossa dei leghisti nell’aula della Camera, con il sequestro di fatto di un ramo del Parlamento, diventa meno grave dell’interruzione dell’incontro Lazio-Roma. Con la differenza che ieri, a Montecitorio, è stato Casini a ordinare il finale di partita.
Sono i fatti a dirci che il governo non c’è più e che nessuno governa più niente. Martedì 30 marzo il vicepremier Gianfranco Fini, leader di An, decide di disertare la riunione del consiglio dei Ministri dopo avere contestato duramente il premier su scelte fondamentali di politica economica. Passa un giorno e il governo pone la fiducia sulla cartolarizzazione degli immobili, provvedimento avversato dalla Lega perché svenderebbe il patrimonio pubblico «alle solite clientele di Roma ladrona». Come in molte altre occasioni è un voto di fiducia a cui il governo ricorre contro la propria maggioranza, di cui evidentemente non può più fidarsi. Un voto, infatti, che la Lega subisce come una prepotenza. Il partito del Carroccio vive un momento molto particolare.
Umberto Bossi giace da settimane in un letto di ospedale e le sue condizioni non gli permettono alcuna attività, se non quelle che i medici hanno disposto per il suo ristabilimento. Senza più il riferimento essenziale del capo supremo e fondatore, i leghisti sembrano subire una doppia involuzione. La loro insofferenza nei confronti degli altri partiti della coalizione, An e Udc, non più governata dal carisma e dall’esperienza di Bossi sfocia in forme di aperto ribellismo, e non c’è Berlusconi che tenga. È come se - questa l’altra mutazione -, senza più vincoli e autocontrollo il leghismo tornasse allo stato brado delle origini. Come se il movimento riabbracciasse con entusiasmo l’ideologia eversiva e antistituzionale dell’odio militante contro tutti i simboli dell’unità nazionale. Finché accade quel che doveva accadere. A Montecitorio il capogruppo Cè ricomincia con Roma ladrona, e a una garbata ma ferma interruzione del vicepresidente della Camera Publio Fiori dà il via alla gazzarra che si trasforma nell’occupazione dell’Aula di Montecitorio. Episodio senza precedenti nella storia repubblicana, e che perfino alcuni deputati della destra definiscono di stampo fascista. Inutile meravigliarsi davanti a un comportamento perfettamente coerente con la natura della Lega. C’è da chiedersi, semmai, come sia stato possibile che gente di tal fatta sieda da tre anni, indisturbata, nel governo italiano occupando poltrone di grande responsabilità. Ministri delle Riforme, della Giustizia, del Lavoro che rivendicano il diritto di definire, con sommo disprezzo, la capitale del nostro paese (ma che essi considerano la capitale di uno stato straniero) «ladrona» e «imbrogliona».
È la miscela infernale che Berlusconi ha cinicamente utilizzato per appropriarsi del potere, ma che adesso prende fuoco dentro la stessa Casa delle Libertà. La scena in cui Fiori (An) espelle dall’aula Cè (Lega), il quale si barrica con l’intero gruppo del Carroccio è la rappresentazione grottesca di una situazione drammatica. La maggioranza non esiste più. C’è una guerra per bande. Ci sono regolamenti di conti che avvengono sulla pelle delle istituzioni. C’è un paese allo sbando e senza guida. Poi c’è un signore, sedicente premier, che assiste al disastro e dice trattarsi di un temporale estivo (a marzo!). Che qualcuno intervenga. Prima che sia troppo tardi.


1 Aprile 2004
La Camera occupata dai leghisti
Il centro-destra in crisi si avvia
alla campagna elettorale...
Violante: La destra si sgretola
e travolge il Paese



 di Ignazio Vacca


Mercoledì 31 marzo l’aula della Camera è stata teatro di un episodio che, se non fosse umiliante per la democrazia, sarebbe grottesco.
Si votava il decreto sulla cartolarizzazione (la cessione) degli immobili di Stato (...sempre la finanza creativa di Tremonti), il Governo aveva dovuto porre la fiducia perché la Lega, nonostante la relazione speciale con Tremonti, voleva ostacolare il provvedimento sostenendo che fosse un “regalo alle clientele romane”, ossia che, essendo immobili prevalentemente situati a Roma, la loro messa sul mercato avrebbe interessato venditori, mediatori e acquirenti della Capitale.
Nel corso del suo intervento il capogruppo leghista Cè stava spiegando perché non era d’accordo con il provvedimento, sul quale era stata posta la questione di fiducia, ripetendo le giaculatorie su “Roma ladrona” eccetera.
Il Presidente d’Aula, il deputato romano di An Publio Fiori, lo interrompeva censurando quelle espressioni e lo richiamava ripetutamente all’ordine; alle proteste del capogruppo leghista, lo espellava dall’aula.
Proteste, insulti dai leghisti a Fiori (“fascista”, “deficiente”), tre deputati della Lega espulsi dall’Aula che si rifiutano di uscire. Seduta sospesa.

Qui succede che i deputati leghisti non escono dall’Aula e la occupano con bavagli e cartelli per quattro ore, consumando un’offesa alle istituzioni di dimensioni inaudite.
Nessuno provvede a sgomberarli perché nel frattempo la diplomazia sotterranea della Casa delle libertà cerca di rimediare all’incidente e di non pregiudicare il voto di fiducia.
Finisce con Casini che riprende i lavori censurando i leghisti e comminando cinque giorni di sospensione dall’Aula per Cè e Galli della lega, i leghisti che annunciano di autosospendersi tutti, ma poi si incamminano docilmente a votare la fiducia.
Il decreto passa 308 a 210.

Cosa succede in questa maggioranza che da un lato incassa un voto di fiducia, ma dall’altra appare ogni giorno più rissosa, divisa, senza bussola?
Succede in realtà che il governo si presenta ad una cruciale tornata elettorale (le europee e le amministrative di giugno prossimo) con un bilancio deludente.
E’ un’esecutivo che non può scrollarsi di dosso un’immagine di inaffidabilità e di incompetenza, di divisione e di attaccamento agli interessi particolari dei suoi maggiorenti.
Di fronte all’aspettativa di una punizione da parte degli elettori, il suo premier, con l’atteggiamento padronale che lo contraddistingue, non si prepara a un bagno d’umiltà: correzione di rotta, nuovo programma e nuovo accordo generale con i suoi alleati. Berlusconi intende invece blindarsi nel suo partito e con i suoi alleati più fedeli, impostare una campagna elettorale, per l’ennesima volta, come un’ordalia su sé stesso, convogliare i voti su Forza Italia e far pagare pegno agli alleati, rimanendo in condizione così, pur bastonato nelle urne, di continuare a “comandare” la coalizione, ignorando le richieste degli alleati.
L’effetto di questa impostazione è quello di una coalizione disperata, ostaggio del suo leader, che vota tutto ma non ha più freni inibitori nel manifestare, anche nelle forme più distruttive, il malcontento che la pervade.
Non è difficile prevedere che questa situazione può produrre due effetti, o una precipitazione della crisi politica dopo il voto, oppure una terribile seconda fase di legislatura, tutta dominata dai fantasmi e dalle esigenze propagandistiche di Berlusconi, un finale di partita capace di sfibrare in modo serio le prospettive, già precarie, del nostro paese: della sua economia, del suo tessuto sociale e istituzionale, della sua posizione internazionale e del suo ruolo in Europa.
Anche per questo i democratici di sinistra affrontano la scadenza elettorale con la lista “Uniti nell’Ulivo”, perché non ci si può attardare a fare la conta tra i partiti del centro-sinistra, ma bisogna sin d’ora dimostrare agli italiani che siamo pronti a prendere in mano le redini di un paese che la destra sta logorando. Bisogna offrire ai cittadini una forte, unitaria, rinnovata alternativa di governo.
Con questo spirito ci apprestiamo alla campagna elettorale e, avendo questo scenario davanti agli occhi, abbiamo voluto intitolare la manifestazione del prossimo 6 Aprile, a Roma, con Fassino e D’Alema: “dopo la destra, un futuro sicuro”.