Www.segnalo.it

bullet1 torna a: La memoria lunga

MEMORIA LUNGA: LA TESTIMONIANZA DI LIANA MILLU 

IL FUMO DI BIRKENAU


di LIANA MILLU

L'autrice
Liana Millu è nata a Pisa, ma vive a Genova. E' stata deportata ad Auschwitz e ha scritto questo libro appena tornata dal campo di sterminio.

Le storie
Lily Marlene. La protagonista è Lily, diciassettenne ebrea ungherese che lavora alla cava di sabbia di Birkenau e che nonostante la vita del Lager è ancora graziosa e allegra e spesso canta la canzone "Lily Marlene". L'amante della sua kapò è un bell'uomo, che ogni tanto le sorride. Lei lo aspetta tutti i giorni con il batticuore, anche se lui le parla a malapena. Ma il giorno in cui lui la bacia, li vede la kapò, che si sfoga picchiando Lily a sangue e poi mette il suo nome tra quelli dei prescelti per la selezione.

La clandestina. Maria è una giovane ebrea dell'Est, arrivata nel lager già incinta di pochi mesi. Per mesi riesce a nascondere la gravidanza fasciandosi il ventre, finché una vecchia della sua baracca, Adele, la denuncia alla kapò. La ragazza però sopravvive e una notte, l'ultima notte di Hanukkà, partorisce un maschio. Ma è l'ora dell'appello, le compagne se ne vanno e la lasciano sola in preda ad una forte emorragia e lei e il bambino muoiono dissanguati.

Alta tensione. Bruna, ebrea milanese, vede spesso il figlio tredicenne chiuso nel lager vicino. Durante le marce gli dà quel poco cibo di cui riesce a privarsi. Il bambino si ammala, viene scelto per la "selezione" e rinchiuso in baracche cinte da fili percorsi dall'alta tensione. Bruna lo viene a sapere e appena può corre incontro al figlio: i due si abbracciano attraverso il reticolato e muoiono insieme.

Il biglietto da cinque rubli. Zinuchka è un'ebrea russa che sogno di rivedere il marito rinchiuso nel lager degli uomini, ma quando crede di averlo rintracciato scopre che è un giovane omonimo e che il marito è morto. Ma quel ragazzo assomiglia al marito e lei decide di aiutarlo spendendo il tempo che le resta come un "biglietto da cinque rubli", ma viene picchiata a morte mentre cerca di farlo fuggire.

Scheiss egal. Due graziose sorelle olandesi finiscono insieme in un lager. Una delle due vuole sopravvivere a tutti i costi e decide di entrare nel postribolo per i soldati tedeschi. L'altra invece non vuole assolutamente farlo e disconosce la sorella rifiutando perfino i regali che lei le fa per alleviarle la malattia che la porterà alla "selezione" e alla morte.

L'ardua sentenza. Lise è sposata e molto innamorata, ma suo marito è deportato anche lui non si sa in quale lager. La ragazza non sa se sia ancora vivo, ma parla sempre di lui, ma per poterlo ritrovare deve riuscire a sopravvivere. Il modo più sicuro per sopravvivere è quello di trovarsi come innamorato un hocane, che le dia pane e cibo. Ma lei non sa se restargli fedele e quindi morire o cercare di sopravvivere ma tradirlo.

Il libro
Ciascun racconto narra una storia vera. Pur raccontando in prima persona quello che ha visto e vissuto, Liana Millu non ha mai voluto assumere il ruolo di protagonista, nè dire qualcosa di sè. Le protagoniste sono le "altre", le compagne di Birkenau accanto alle quali è vissuta e di cui ci riferisce, con grande e affettuosa misura, le storie. Sopravvivere è tutto, ma non per tutte: ci sono donne indomite, a Birkenau, che scelgono di morire a modo loro, come Zinuchka, come Bruna. E ci sono quelle che decidono di testimoniare sino in fondo una speranza disperata. Non per caso i due racconti più belli e i più strazianti sono quelli che riguardano le due madri, Maria e Bruna. L'una e l'altra riescono a rendere di nuovo "umane", davanti alla propria dolorosissima maternità, le compagne impazzite, incrudelite, le donne che vivono sotto le nubi di fumo dei camini e che sperano nel futuro, sapendo di dire una bugia. E' evidente che Liana Millu non scrive per chiedere giustizia, per esporre le proprie piaghe, o per accusare, perchè queste sono parole vane. Ma "memoria", questa no, non è una parola vana e tutto il libro è scritto in suo nome.

 


Liana Millu,  Dopo il fumo. «Sono il n. A 5384 di Auschwitz Birkenau», a cura di Piero Stefani, pp. 96, L. 15.000 (tutti coloro che erano presenti al convegno di Padova sul male - di cui sono entrati in lavorazione gli Atti - ricorderanno I'intervento pronunciato in quella sede da questa grande testimone dello sterminio nazista. Qui vengono raccolti - corredati da brevi interventi di Paolo De Benedetti e Piero Stefani - alcuni preziosi scritti che costituiscono una vera e propria «testimonianza sul testimoniare». Il titolo allude alla più importante opera di Liana Millu, II fumo di Birkenau, Giuntina, Firenze 1986).


Colloquio con Liana Millu*

di David Dambitsch

 

 

Liana Millu nasce a Pisa nel 1914[1]. Viene cresciuta dai nonni materni, orfana di madre e con padre lontano, risposato[2]. Quando Mussolini riceve dal re d’Italia l’incarico di goveno con poteri illimitati, essa aveva appena nove anni, ma ricorda bene avvenimenti della Marcia su Roma. Sin da piccola desiderò scrivere e viaggiare. Femminista ante litteram, da ragazzina decise di fare la giornalista e, pur osteggiata in tutti i modi dalla famiglia, riuscì ugualmente, già a diciassette anni, a pubblicare articoli per Il Telegrafo di Livorno. Ma negli anni Trenta per una donna italiana il desiderio di diventare indipendente e di lavorare in un giornale era irrealizzabile. Perciò studiò per diventare insegnante e così nel ’36 lasciò la casa e iniziò a lavorare in una piccola scuola elementare, a Volterra[3], pur continuando la sua attività come pubblicista. Nel ’38, però, le leggi razziali e Mussolini cacciarono gli ebrei da tutti i posti pubblici, scuole, uffici, banche. Quindi Liana si trasferì a Genova, vivendo alla giornata con i lavori più disparati e precari[4]. Per opposizione e per amore, nel ’43 entrò nella Resistenza. Arrestata a Venezia, dove si trovava per una missione della sua Organizzazione, la “Otto”, in maggio, dopo due mesi di prigione, fu deportata a Birkenau. Dopo cinque mesi passò da Ravensbrück. Qui fu compresa tra le donne destinate al campo di Malkow, presso Stettino, ove sorgeva una fabbrica di armamenti mimetizzata nel bosco. Nel maggio ’45, dopo un anno preciso di prigionia, fu liberata. Dalla zona russa dove si trovava, decise di raggiungere il ponte di Schwerin, presso il quale, le avevano detto, si trovava la zona americana. Tornata in Italia nell’agosto del ’46, riprese a scrivere e a insegnare.

Liana Millu è certamente una delle prime testimoni a descrivere in forma letteraria il sistema concentrazionario dalla prospettiva femminile — e in particolare un aspetto che fino a quel momento non era ancora mai stato affrontato: l’amore nelle condizioni del campo di concentramento. Nel suo libro Il fumo di Birkenau[5], un intenso monumento letterario, essa racconta di sei donne che, come lei, sono state imprigionate là; mentre la sua fuga verso il ponte di Schwerin viene descritta nel suo secondo libro[6], I ponti di Schwerin, un romanzo a struttura autobiografica. Dal 1945, a Primo Levi, l’ha legata una particolare amicizia[7]. Dopo la pubblicazione del suo primo libro in Germania, mi recai a Genova per avere un colloquio con Liana Millu. Mi trovai dinanzi una signora cosciente di sé, nel cui destino si poteva esemplarmente cogliere la dimensione europea della Shoah.

 

David Dambitsch — Nel 1922, quando il re italiano conferì poteri illimitati a Mussolini, lei aveva nove anni. Come ricorda quella “presa di potere”?

 

Liana Millu — Non ricordo quasi nulla di quell’evento. Ciò di cui effettivamente mi ricordo — ma allora ero davvero molto piccola — è la “marcia su Roma”[8], giacché non c’erano solo le “camicie nere” fasciste, ma anche le “camicie azzurre”, i nazionalisti, di cui più tardi non si è saputo più nulla[9].

 

La persecuzione della minoranza ebraica da parte dei fascisti fu irrilevante rispetto a quella operata dai nazisti tedeschi e comunque — se si considera il processo storico — francamente spiacevole[10]. Come ha vissuto tutto questo?

 

Ho appreso tutto questo con grande stupore, come la maggior parte degli altri ebrei. Difatti, fino al 1938 noi eravamo italiani di religione ebraica — differenza che prima non esisteva affatto. Improvvisamente nel 1938 cambiò tutto: improvvisamente noi eravamo ebrei e gli altri erano italiani.

 

Quale posizione assunse la minoranza ebraica sotto Mussolini? Qualcosa di analogo al pogrom del novembre 1938 in Germania sarebbe stato impensabile in Italia.

 

Questo sarebbe stato del tutto impensabile in Italia. Per quanto riguarda la posizione degli ebrei, questi erano italiani di fede ebraica. C’era solo una piccola minoranza che, in quanto ebrea, si sentiva effettivamente tanto religiosa quanto nazionalista. Quando fummo in Lager, questo divenne del tutto chiaro: gli ebrei dell’est Europa ci disprezzavano apertamente, dicendoci: “Voi non siete ebrei, voi siete italiani e non avete niente a che fare con noi”.

 

Nell’Italia di Mussolini, dunque, in ragione della sua origine ebraica per lei divenne impossibile avere un pubblico impiego come giornalista o come maestra di scuola elementare. Nel 1943 si è unita ai partigiani. Ma come è finita nell’“Organiz-zazione Otto”[11]?

 

Allora vivevo a Genova, quando — all’inizio forse del tutto casualmente — mi sono imbattuta nell’“Organizzazione Otto”. Il capo di questa organizzazione era uno psichiatra, di nome si chiamava Ottorino, da cui l’abbreviazione Otto. Come molte donne, sono entrata in contatto con questa organizzazione tramite un uomo che amavo.

 

Quali erano i suoi compiti nella resistenza?

 

Il compito più importante per l’“Organizzazione Otto” era quello di mantenere i collegamenti tra i campi alleati, ossia con gli inglesi, con gli americani e con i prigionieri inglesi provenienti dai Lager da cui erano stati liberati[12]. L’attività dell’“Organizzazione Otto” cominciò l’8 settembre 1943, quando una parte degli italiani prese le distanze dal Reich tedesco[13]. L’effettuazione dei collegamenti si verificò in parte in modo avventuroso. Ci fu, ad esempio, una piccola imbarcazione che partì da Genova per portare in Corsica alcuni inglesi liberati[14]: rimasero in mare per quattro giorni. Il nostro compito era stabilire il collegamento tra queste due basi. Io, in particolare[15], ero la persona di riferimento per Genova; altri miei compagni, invece, operavano nella periferia di Genova — nel cosiddetto entroterra.

 

Che cosa sapeva del regime nazionalsocialista tedesco nel periodo in cui operava da partigiana?

 

Sapevo veramente molto poco e quel poco venivo a saperlo da soldati italiani che erano stati prigionieri di guerra e che si fermavano nelle nostre basi. Qualche volta potevo ascoltare “Radio Londra”, tramite cui, in effetti, apprendevo dell’esistenza di posti terribili dove molti venivano uccisi. Comunque sia, non sapevamo nulla di preciso, e pensavamo: è solo propaganda inglese o è vero?

 

Lei è stata consegnata nelle mani dei fascisti a causa di un tradimento, ricononosciuta come ebrea e quindi deportata ad Auschwitz. Che significato aveva, a suo avviso, quel tradimento da parte dei funzionari del totalitarismo nero in generale?

 

Quella delazione non fu un tradimento personale e nei miei confronti. Tradita è stata tutta l’“Organizzazione Otto” di Genova e tutti quanti noi siamo stati arrestati. In quel momento, in quanto responsabile dei collegamenti, mi trovavo a Venezia, dove venni arrestata dalla “Guardia Repubblicana”, ossia dalla Polizia Italiana Fascista. Posso solo dire di avere avuto fortuna. Mi trovavo con una falsa carta d’identità e con un passaporto falso e solo a Genova scoprirono il mio vero nome. Il capitano fascista disse: “Ah, siete ebrea! E allora siete fortunata, perché noi non abbiamo nulla contro di voi”. E così fui portata in un carcere normale e non in quello della Gestapo. Fu una grande fortuna, perché la mia angoscia era di essere sottoposta a tortura. In quel momento avrei desiderato la morte, pur di non di essere torturata. Questo non l’avrei veramente sopportato. Arrivai così al campo di Fossoli. Era un campo extraterritorialmente sotto la bandiera delle SS, e quindi io, in realtà, ero contenta, perché non ero stata catturata dalla Gestapo.

 

Nel suo libro Il fumo di Birkenau lei descrive continuamente il clima d’angoscia prima del tradimento e il tradimento medesimo. Dopo la sua esperienza, che cosa significa per lei la parola ‘fiducia’?

 

‘Fiducia’ è una parola molto difficile. È difficile da esprimere, perché in Lager, in generale, non si poteva mai essere sicuri, non sapevi di chi poterti fidare. Ad Auschwitz in realtà c’erano solo due donne di cui mi potevo fidare — una era Jannette, l’altra era Stella —; di nessun’altra. Ognuno infatti doveva sempre stare accorto, perché il proprio vicino poteva rubargli il cucchiaio o il pane per scambiarli contro qualche altra cosa. La parola ‘fiducia’, quindi, ad Auschwitz non esisteva per niente.

Dopo tali esperienze, questa parola per me significa propriamente stare volentieri con la persona che amiamo. Senza questo sentimento, questa parola è del tutto vana e superficiale.

 

Kurt Goldstein, combattente comunista nella resistenza, sostiene che ad Auschwitz resistenza e solidarietà esistevano lo stesso, anche se a un livello molto basso. Di ciò in Primo Levi non c’è traccia. Quale ricordo ne ha lei?

 

Credo che la parola ‘solidarietà’ si possa realmente considerare nel modo in cui ha fatto Primo Levi. C’era una forte solidarietà tra due persone amiche, ma non c’era solidarietà di gruppo, neppure in quei gruppi in cui si parlava la stessa lingua. Si trattava semplicemente della lotta per la vita, sicché essere primi in una fila di uomini era effettivamente molto pericoloso, perché si era maggiormente esposti al nemico. In Lager c’era sempre un duro scontro tra francesi, polacchi e italiani, ed era chiaro che coloro che avevano realmente in mano il Lager erano i polacchi. La solidarietà, dunque, — come si è detto, — c’era, ma solo a livello di poche persone.

 

Un camino del crematorio di Auschwitz sorgeva proprio in mezzo al campo femminile e ciò, secondo quanto riporta Primo Levi in una sua analisi, affinché le donne potessero trovare nel KZ le stesse dure condizioni di quelle degli uomini. Come si può spiegare questa specifica collocazione delle donne ad Auschwitz?

 

È documentato il fatto che le donne siano state sistemate molto peggio degli uomini. Ma è anche vero che le donne abbiano reagito molto meglio a quanto era loro successo — le donne erano semplicemente più pragmatiche e avevano molta più fantasia degli uomini.

 

Nei resoconti degli uomini sopravvissuti ai KZ sono pochi o del tutto assenti i riferimenti all’amore e al sentimento amoroso. Nei suoi racconti è del tutto diverso. Come se lo spiega?

 

In Lager vi era ciò che si può chiamare una vita minimale. Eravamo giovani ed avevamo una vita interiore normale, anche se non potevamo esprimerla. Era sufficiente solo un semplice sguardo o una parola per scambiarli subito per amore. Ma questo accadeva molto, molto raramente. Non mi ricordo di nessuna storia d’amore in Lager, tranne quelle che ho descritto ne Il fumo di Birkenau. Ma era proprio per mezzo di uno sguardo o di una parola che tu venivi riconosciuta come persona. Di colpo non si era più una cosa, ma una persona, ed allora poteva accadere che per qualcuno nascesse un meraviglioso amore.

 

Il ruolo dei Kapo nei KZ è molto discusso: alcuni li ricordano come crudeli sbirri del potere, altri come persone astute che seguivano una precisa tattica nell’ambito del regime del terrore. Come vede lei la cosa?

 

Questi Kapos[16] mi sembravano persone che giungessero da un altro pianeta, da un mondo alla rovescia, da un antimondo (Gegenwelt). Li odiavo, perché non le SS, ma loro erano quelli che ci maltrattavano tutto il giorno. Le SS se ne stavano ben al di sopra di tutto — esse erano le divinità da cui dipendeva la vita e la morte, ma quelli che dovevano mettere in pratica le loro decisioni erano i Kapos. In seguito ho molte volte ripensato al fatto per cui io fossi capace di un odio così naturale e se questo fosse giustificabile o meno. Ultimamente sono giunta alla conclusione che non fosse giusto il modo in cui io una volta reagivo, perché avrebbe potuto succedere anche a me di diventare una Kapo, e allora anch’io avrei reagito con la stessa violenza e avrei maltrattato le persone, come pure mi è successo. Quando parlo con i giovani mi viene in mente qualche volta questo episodio, nel senso che, dopo appena due mesi che ero in Lager, sentii il forte desiderio di picchiare e di fare del male a una giovane greca che non mi aveva fatto niente. In questo modo ho capito che erano bastati solo due mesi per assorbire la violenza e per voler continuare a perpetrarla.

 

Lei ha confessato e pubblicamente ricordato che la brutalità si è impossessata di lei — lo ha ribadito poc’anzi ancora una volta. Attraverso quali meccanismi si arriva a questo?

 

Succedeva di vedere la violenza, di vivere costantemente nella violenza, di respirare addirittura la violenza. È un processo lento e del tutto naturale che si fosse quindi anche portati a fare della violenza. Il pericolo per il nostro presente consiste proprio in questo: nel fatto che i giovani respirino la violenza e che siano indotti a praticarla.

 

Ne Il fumo di Birkenau i tedeschi appaiono come figure secondarie e praticamente solo come dei rappresentanti di quelle strutture che si ispiravano al terrore. C’è qualche tedesca o tedesco che, da allora, le è rimasto nella memoria?

 

No, giacché in Lager io non ho mai visto né un tedesco né una tedesca.

 

Poiché lei era — secondo l’espressione nazista — una “gute Arbeiterin”, una “buona lavoratrice, è stata portata da Auschwitz fino a Ravensbrück e poi a Malkow, presso Stettino, e là messa a lavorare nella produzione di armamenti. Lei ricordava che i direttori delle industrie tedesche come la IG Farben[17], la Krupp e la Siemens hanno preso personalmente parte nella scelta dei prigionieri-schiavi nei KZ. Come succedeva questo?[18]

 

Ero a Ravensbrück da quindici giorni e, dopo aver superato la selezione, venni subito condotta a Malkow, senza sapere sostanzialmente nulla, né di dove si andasse né che cosa mi sarebbe successo. A differenza che ad Auschwitz, a Malkow eravamo degli schiavi da lavoro e per questo, essendo ammalati, ci curavano. Se ad Auschwitz, ad esempio, avessi preso la scabbia[19] sarei stata immediatamente eliminata, mentre qui a Malkow sono stata per due volte ammalata — ho persino subìto un intervento al seno — e tuttavia sono stata nuovamente reinserita nell’attività lavorativa. Questa era la grande differenza — ad Auschwitz sarei stata subito uccisa, se mi fosse successa una cosa del genere[20].

 

Sa quale ruolo ebbero più tardi, nella giovane Repubblica Federale, le persone della IG Farben, della Krupp, della Siemens?

 

Tutto quello di cui sono venuta a conoscenza sulla IG Farben l’ho appreso molto tempo dopo, dai libri e dai giornali. Noi, infatti, allora, lavoravamo e non potevamo assolutamente stare dietro a questi pensieri. Abbiamo lavorato dalle dodici alle quindici ore al giorno e avevamo davvero pochissimo da mangiare. Molto più tardi, dunque, potei capire e mettere insieme le cose.

 

Signora Millu, lei visse l’immediato dopoguerra senza casa, senza lavoro, senza famiglia, senza forza con cui lottare, senza sogni. Quand’è che, per la prima volta, dopo la liberazione, ha potuto di nuovo riprovare qualcosa come la felicità e l’amicizia? In generale, oggi, è ancora possibile per lei questo? — Mi viene in mente a tal proposito Primo Levi.

 

Solo dieci anni dopo il mio ritorno ho provato di nuovo il sentimento della felicità. È successo quando per la prima volta ho trovato un alloggio tutto per me. Ero così sopraffatta dalla felicità che ho persino baciato il pavimento della mia casa. I miei anni terribili erano veramente finiti. Eppure questi anni successivi al mio ritorno sono stati ancora più terribili di quello che ho trascorso in Lager. Mi sono sempre imbattuta in discussioni quando ho parlato di questo. Ma, per quanto assurdo possa apparire, in un certo senso un giorno fui veramente felice in Lager. La notte di natale del 1944 in Lager avevo speranze e sogni; la notte di natale del 1945 ero sì libera, ma non avevo né speranze né sogni.

 

Complessivamente, assieme a lei, sono state deportate ad Auschwitz 672 persone. Di esse, dopo solo pochi giorni, ne sono rimaste in vita 256. Del suo trasporto, alla fine, soltanto 57 persone sono sopravvissute al KZ Morire era dunque la regola, sopravvivere l’eccezione. In cosa si può cogliere chiaramente la solitudine del reduce dei campi (Davongekommenen)?

 

In coscienza, io potrei parlare per delle ore senza che coloro che mi ascoltano pervengano al fondamento della mia verità. Chi mi ascolta può certo rappresentarsi tutto ciò che io ho vissuto, ma non può comprenderlo. Colui che mi ascolta non può comprendere la mia verità, perché non l’ha vissuta[21].

 

Che ne è stato del suo sentimento di odio e di furore?

 

Non ne so molto. Mi ricordo solo che una volta, nel momento in cui stavo per manifestare la mia violenza contro una giovane donna, ho avuto come un sussulto. Non appena mi accorsi di quale piega stesse prendendo il mio comportamento, incominciai a prenderne le distanze. Iniziai così a crearmi un mondo tutto mio, un mondo solo mentale, nel quale, ad esempio, recitavo a mente continuamente delle poesie. Riuscii così facilmente a distaccarmi dal mio ambiente circostante, perché avevo capito che esso mi aveva avvelenato con l’odio e con la disperazione. Credo che quella di distanziarmi da questi due sentimenti, i quali alla lunga mi avrebbero ucciso nell’animo, sia stata la mia possibilità di salvezza.

 

Sia prima che dopo la sua prigionia nel KZ, lei ha lavorato come insegnante di scuola elementare.

 

Prima del 1938 ho insegnato per un anno in una scuola elementare al solo scopo di guadagnarmi da vivere. Volevo assolutamente diventare una giornalista. Quando, infatti, nel 1938, con le “leggi razziali” dovetti smettere di insegnare, non rimasi in effetti così male nel dover abbandonare quella professione. In seguito, quando arrivai dal Lager, per prima cosa rientrai in una piccolissima scuola di campagna. Non ho mai parlato con i miei studenti del Lager; ho sempre nascosto il mio  tatuaggio sul braccio, su cui avrebbero potuto vedere il numero del Lager. Ho sempre pensato, infatti, che ciò non fosse giusto e che per loro sarei diventata una persona del tutto diversa se avessi parlato di questo ai bambini, i quali non erano maturi per comprenderlo. Visto che non sono riuscita ad ottenere un posto fisso come giornalista, allora pensai di continuare a fare l’insegnante di scuola elementare — la qual cosa, debbo dire, mi ha sempre fatto piacere. Credo di poter dire che i miei bambini mi abbiano anche amata, infatti ancora oggi sono in contatto con molte delle mie studentesse, le quali ora mi vengono a trovare e mi domandano: “Perché non ce ne ha mai parlato?” E allora io debbo continare a dire loro: Perché allora credevo che non fosse giusto parlare di queste cose con voi bambini. Era tutto ancora molto vicino.

Ancora oggi sono impegnata in questo senso, ma parlo solo con studenti maturi. Infatti dovrò avere un incontro con gli studenti di un liceo di Nervi, vicino Genova, dove discuterò con giovani di diciassette e diciotto anni. Che cosa dirò? Dei valori e dei disvalori del passato e di come esso ci insegni quello a cui dobbiamo fare attenzione nel presente. Non si tratta di parlare di storia, quanto piuttosto di indicare cosa di essa è rimasto e ciò contro cui noi oggi dobbiamo ancora lottare. Oggi sono rimasti l’indifferenza, la violenza e il disprezzo. E in mezzo a questo mondo terribile cresce la nostra gioventù. Io oggi posso dire di avere l’autorità e il diritto di parlare dell’indifferenza, della violenza e del disprezzo, poiché ho visto tutto questo e pertanto metto in guardia perché, di nuovo, noi oggi vi acconsentiamo.

 

Come fu il periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale, quando i suoi studenti era già divenuti un po’ più grandi? Quali domande le ponevano? Come si sono comportati con lei e come hanno reagito con le cose che lei raccontava loro?

 

I bambini che abitavano in campagna — e coi quali ebbi a che fare — sapevano proprio poco della guerra. Vedevano gli aerei volare sulla loro testa, sentivano gli scoppi durante i bombardamenti, sapevano di parenti che hanno combattuto e che non sono più tornati, di uomini che erano stati fatti prigionieri e che ora stavano tornando — ma sono sicura che nella testa di questi bambini vi sia stata ben poca risonanza di quello che questa guerra ha realmente significato. Tutt’altro essa fu invece per i bambini della città, i quali l’hanno vissuta da molto vicino. Penso comunque che per i bambini essa è solo un’esperienza del tutto personale e concreta, che la parola guerra abbia che fare con qualcosa di reale — e che tutto il resto per loro non sia altro che parola e narrazione.

 

Che cosa pensa dei giovani d’oggi?

 

Credo che i giovani di oggi siano migliori di quanto pensiamo. Ho molti contatti con loro e constato sempre che sono molto interessati alla discussione sui valori. Io vado nelle scuole solo per parlare di valori. Spesso noto che mi ringraziano con molto entusiasmo, e ciò nasce evidentemente dal fatto che sono davvero commossi. Vado nelle scuole portando con me anche la mia uniforme da Lager e lascio che i giovani la tocchino. In questo modo la parola diventa immediatamente concreta e loro non la dimenticano. Per strada, infatti, mi capita sovente di incontrare alcuni giovani, che hanno intanto continuato a studiare, che si rivolgono a me dicendomi: “Non ho dimenticato l’incontro con lei”. Sicuramente il fatto che io abbia con me la divisa del Lager costitutisce un segno effettivamente importante in questo processo del Non-Dimenticare (Nicht-Vergessens).

 

I bambini e i ragazzi vogliono essere forti e identificarsi con i potenti. Come si rapporta lei a questi fatti nel suo lavoro di testimone dell’orrore?

 

È la cosa più naturale del mondo che i giovani desiderino essere forti e potenti. Ma che cos’è la forza? La forza non consiste certo nel seguire la moda, nel seguire, ad esempio, delle ideologie di moda o fare cose che si ispirino a questi principi ideologici. La forza consiste nel fare ciò che si è riconosciuto come giusto, il che implica spesso l’andare contro corrente. Oggi comunque nei giovani vedo molta confusione. C’è una mancanza di valori — conosco giovani meravigliosi, ma manca loro la sicurezza: la sicurezza di sapere che cosa è giusto e che cosa è sbagliato non solo per me, ma anche per la società. Questa insicurezza nasce già in famiglia, dove molto semplicemente ai ragazzi non viene dato questo supporto, questo aiuto, e dove i più piccoli vengono abbandonati da soli. Una buona e giusta forma di forza oggi è ad esempio quella espressa dal volontariato, grazie alla quale il povero aiuta il più povero. Si tratta davvero di una forza molto grande, in quanto se si incomincia a picchiare uno straniero, è perché non lo si considera affatto come una persona, ma solo come una cosa. In questo modo si chiude allora il cerchio, nel senso che la riduzione dell’uomo a cosa viene scambiata come il prodotto di una forza.

 

C’è un suo libro che continua il filo de Il fumo di Birkenau: I ponti di Schwerin. Da cosa nasce e che significato ha per lei?

 

Due cose mi hanno spinto a scrivere questo libro. In primo luogo il ritorno dal Lager. Ma altrettanto importante era per me la rappresentazione di una giovane donna che aveva vissuto settanta anni fa e che aveva un solo scopo: la realizzazione di se stessa. Era una scelta molto difficile e dura. Ero una femminista, senza conoscere nemmeno il significato della parola; infatti durante il fascismo non esisteva né la parola né la cosa cui essa si riferisce. Quando ero giovane avevo un solo scopo: diventare libera e indipendente.

 

In che cosa si differenziano i due libri e come li collega l’uno all’altro?

 

Ne Il fumo di Birkenau non sono propriamente presente, ma sono, come l’ha definito Primo Levi, un “occhio che osserva” (das beobachtende Auge[22]); non sono dunque un personaggio esistente, ma solo osservante. I ponti di Schwerin è un testo che tratta della mia vita, della mia vita dopo il Lager, della mia vita come donna. In esso vi incontro quei tedeschi che in Lager non ho mai incontrato. Come lei sa, Il fumo di Birkenau è un libro in cui non compare nessun tedesco. Nel secondo libro vi sono tre o quattro figure, che io ho pure incontrato, che per me sono certamente molto significative, probabilmente anche come caratterizzazione dei tedeschi e della loro vita di allora. Penso, per esempio, a una persona anziana che aveva fatto il soldato durante la Prima Guerra Mondiale e ad altre tre figure da me incontrate — erano uomini come lei e come me — le quali mi hanno raccontato i loro sentimenti, del modo in cui hanno affrontato e sopravvissuto a questa guerra. Credo quindi che questo libro presenti una realtà del tutto diversa rispetto a quella del primo libro.

 

Lei stessa ha detto una volta che è riuscita a sopravvivere al KZ perché iniziò ad avvertire la forza mentale come un’armatura. “Il filo d’erba sul fango, il tramonto su Auschwitz” — sono cose che lei ha spesso visto. Dopo Auschwitz, come percepisce ciò che chiamiamo creato?

 

Ciò che mi ha permesso di sopravvivere è stato il puro caso. Sono sempre stata fortunata, dal primo fino all’ultimo giorno[23]. Non ho fatto mai nulla per salvarmi e fu solo per il semplice caso che mi salvai. Rispetto al creato, ora, non posso dire che ami l’umanità[24], ma amo la terra su cui abbiamo la fortuna di vivere; amo l’albero che fiorisce, il sole che tramonta. Talvolta racconto la storia del filo d’erba che incontravo ogni mattina in Lager[25]. Ogni mattina, quando percorrevamo la via centrale del campo per andare a lavorare, vedevo spuntare tra due pietre un filo d’erba. Tante mie compagne strappavano questi fili d’erba, ma io ne avevo uno speciale che ogni mattino guardavo e che mi diceva: Vi è della vita tra le pietre. E questo mi ha sempre confortato. Io trovo che la cosa più grande che noi abbiamo è la bellezza di questa terra, su cui possiamo vivere: questo è per me di grande conforto, è ciò che ancor oggi mi rende accetta la vita.


A scuola da Liana Millu
La classe quinta dell’indirizzo linguistico del Liceo Scientifico "A. Gramsci" di Ivrea si reca a Genova per incontrare e sentire la voce di una testimone della Shoah.
di Franco Di Giorgi

con una intervista inedita a Liana Millu

"Non dobbiamo mica andare fin lassù, vero prof!" — esclamò spaventata Roberta, non appena vide quella triplice rampa di scale che dalla chiesa di S. Pietro s’inerpica su fino alla strada.

In effetti quella rampa faceva impressione perché più che una semplice gradinata di passaggio sembrava essere una scala di emergenza, da prendere solo in casi eccezionali. Il suo aspetto non era tanto curato e la balaustra recava qui e là i segni della salsedine che il vento trascinava dalla vicina riva.

"No. No. Stai tranquilla — la rassicurò l’insegnante —. La signora ci aspetta dentro la chiesa".

Era passato esattamente un anno da quando quello stesso insegnante di storia e filosofia del Liceo "Gramsci" di Ivrea aveva chiesto alla signora Liana Millu, ex deportata nel Lager di Auschwitz-Birkenau, di poterla incontrare nella sua città con alcuni studenti. Naturalmente, come al solito, — come già nel maggio del ’95, quando era stata invitata dallo stesso liceo — lei aveva accettato con gioia. Anche perché allora, ossia l’anno scorso, si trattava di concludere un percorso di lavoro di tre anni che tre studentesse avevano compiuto l’anno precedente dopo aver esposto e discusso con gli alunni di alcune scuole medie inferiori la ricerca di storia che esse avevano condotto con l’appoggio dell’Anpi di Ivrea e del Basso Canavese sui bambini nei campi di concentramento: una ricerca e un impegno che l’allora Presidente della Camera dei Deputati, On. Luciano Violante, aveva voluto premiare con un contributo di 3 milioni, grazie al quale quelle tre studentesse e il loro insegnante avevano avuto la possibilità di visitare il campo di Auschwitz. L’anno scorso, comunque, l’incontro con la Testimone sfumò, perché Genova e tutta la Liguria in quel periodo divennero irraggiungibili a causa di un violento nubifragio.

Quest’anno, però, la primavera prometteva bene. La classe quinta linguistico aveva provato a far interagire Il fumo di Birkenau — il testo della signora Millu ormai tradotto in più paesi — con l’etica kantiana. Sullo sfondo dei loro elaborati restavano tuttavia alcune domande, alle quali evidentemente solo l’Autrice poteva rispondere. Con essa ci si accordò per la metà di aprile, il 23, un martedì: Genova —Sopraelevata —Foce — Via Nizza — chiesa S. Pietro — ore 14.45.

Ovviamente la signora Millu non poteva ospitare nel suo appartamento una classe di 15 ragazzi più tre insegnanti. Così lei stessa, classe 1914, per trascorrere due ore con i suoi giovani interlocutori, pensò di richiedere la sala interna alla chiesa di S. Pietro, il cui parroco fu ben lieto di concederla, anche se non gratia et amore Dei.

Dopo esserci disposti in semicerchio attorno a lei, la signora Millu, la Testimone, ha dato inizio alla sua testimonianza con una parola molto semplice — "Sono" —, una parola di valore assolutamente fondativo. Poi, dopo una breve pausa, ha aggiunto: "Sono il numero 5384 di Auschwitz-Birkenau". Ebbene, tutti gli elementi costitutivi e caratterizzanti dell’esistenza concentrazionaria che essa ha in séguito elencato — mantenendosi sempre, com’è ormai nel suo stile testimoniale, sul piano oggettivo, e soprattutto con quella lenteur che le è propria — hanno fortemente risentito di quel singolare incipit. Quella della Millu è peraltro una vera lenteur, la quale, col procedere inesorabile del tempo e con l’avanzare dell’età, fa sempre più pensare alla maestosità di un Largo beethoveniano, a una philosophische Haltung, a un contegno filosoficamente rattenuto, all’espressione apollineamente trasfigurata di un coro sofocleo o di un eroe greco dinanzi al senso tragico dell’esistenza.

Certo, la Testimone ci ha parlato ancora una volta della logica nazista o tutta tedesca dello sterminio, delle modalità di reificazione o del processo violentemente regressivo del Mensch a Untermensch, del Mensch a Arbeitstück, al quale, come tale, era vietato (Verboten) non soltanto pregare (solo i cattolici polacchi e gli ebrei dell’est continuavano a pregare anche sotto le percosse), ma anche provare il sentimento di amicizia e di compassione (se l’uomo è ridotto a una cosa e se la cosa viene buttata via, proviamo forse compassione per essa?), ma anche morire. Ai tedeschi, infatti, non interessava tanto il corpo che muore, ma il corpo che può morire, non la vita né la morte come elementi a sé stanti, bensì il controllo di quel punto di unione o di passaggio eracliteo in cui la vita trapassa nella morte e attraverso cui il già morto può tornare ancora in vita. La tua vita non è tua, è nostra, dicevano. Non ci interessi tu, ma la tua vita. E i Muselmänner erano esattamente questo prodotto eracliteo della meditatio mortis, anch’essa tutta tedesca, le cui radici risalgono addirittura fino a Meister Eckhart.

La signora Millu ci ha inoltre malinconicamente avvisati, rivolgendosi in modo particolare ai ragazzi: quanto lei aveva visto dilagare, attecchire e prendere corpo in Lager, vale a dire il Disprezzo, la Violenza e l’Indifferenza, sono di nuovo in mezzo a noi, in mezzo ai giovani, anche se in modo non ancora del tutto visibile ed evidenti.

Ma quel — "Sono" — ci ha fatto immediatamente intuire, più che comprendere, e comunque capire meglio e più profondamente, molte cose: ci ha permesso di afferrare il senso profondo dell’ego cogito cartesiano, l’atto assoluto e autofondativo dell’Ich bin fichtiano. "Sono" — dopo aver attraversato il Nulla. "Sono" — dopo non essere stata. "Sono" — semplicemente ritornata. "Sono": è la vittoria dell’Essere sul Nulla, della Luce sulle Tenebre, della Vita sulla Morte, su quella Vita su cui Liana Millu, come la stessa Elisa Springer, si sforzava di credere pur trovandosi nel cuore della Morte. Già, la Vita. Quel "Sono" è semplicemente la Voce, la Testimonianza, la Profezia della Vita: l’Autoaffermazione della Vita. La Vita della Vita. La Vita rinnovata e rinvigorita dopo l’esperienza della Morte, del Deserto, del Nulla.

Grazie per la lezione, Signora Millu. Grazie ancora una volta. "L’accompagno" disse alla fine dell’incontro l’insegnante, offrendole il braccio. I ragazzi intanto uscivano alla spicciolata dalla Chiesa, mantenendosi ben lontani da quella rampa impossibile e vertiginosa. Ma nei loro sguardi a un certo punto non si poté fare a meno di cogliere un senso di evidente stupore misto a un certo imbarazzo per non dire addirittura vergogna quando si accorsero che quella stessa Testimone della Vita, che poco prima, con quel — "Sono" —, aveva espresso la propria Autoaffermazione, sorretta dal suo bastone e dal professore, si era già avviata, un gradino alla volta, ad affrontare risoluta quella lunga ed erta scalinata.

23 aprile 2002


 

 

 

 

 

TESTIMONIANZA DI LIANA MILLU

 

 

 

tratto da "Chi è come te fra i muti?" Lezioni promosse da Carlo Maria Martini. Garzanti 1993.

Venne il funesto 1938, con le leggi razziali; poi la guerra e, con la guerra, uno spartiacque che da solo determina un "prima" e un "poi": venne Auschwitz.
Ricordo che in una scuola un ragazzetto mi chiese: Se potesse tornare indietro, che cosa farebbe pur di non finire laggiù? Gli risposi che non avrei fatto nulla. Lui però insistette: Perché non farebbe niente? Mi mise in imbarazzo, dal momento che era complicato rispondergli. Di fatto, nel 1943, non feci proprio nulla per mimetizzarmi o per nascondermi. Entrare nella Resistenza non era proprio il modo più adatto per sfuggire ai pericoli. Ma non sapevo che cosa fosse Auschwitz, anzi non sapevo nemmeno che esistesse.
Tornando alla domanda del ragazzino, mi chiedo: E ora che so? Ora che so, credo che non vorrei mai rinunciare a quella esperienza suprema, esperienza della convivenza con la morte, esperienza delle reazioni che la convivenza con la morte produce in noi stessi e negli altri; esperienza di quello che è e che può diventare l'uomo; esperienza della necessità della fede, di credere in qualcosa.
Dicendo "fede", intendo sia la fede religiosa sia la fede laica sia la fede politica. Come dice il Levitico: "Se è testimone perché ha visto e sentito qualcosa e non lo riferisce, colui porti il peso del suo peccato" (Lev. 5,1).
Non mi gravo di questo peccato; piuttosto, siccome racconto sempre, ogni volta che mi capita di parlare, la mia testimonianza, insisto sul fatto che dove c'è una forza potente e brutale, tesa senza requie a distruggere l'essere umano – badiamo bene, nell'animo prima ancora che nel corpo -, dove c'è una simile forza, l'unico modo per resistervi rimanendo umani è avere una controforza, è difendersi con l'armatura morale di una fede.
Nel lager c'era la compresenza di questa fede. Della fede religiosa si conoscono epifanie commoventi e io stessa potrei testimoniare di quelle viste proprio con i miei occhi, vicine a me. Della fede politica, leggendo i documenti, sappiamo che operò una resistenza in mezzo ai pericoli atroci perfino nei lager, e ciò testimonia quanto adamantina potesse essere. Infine, la fede laica, che fu anche di Primo Levi. La fede laica faceva nella mente, nell'anima, un baluardo, un bunker inviolabile alle brutalità e alle abiezioni che circondavano, un rifugio dove conservare l'idea, il concetto di tutte quelle cose che illuminano la vita civile, che rendono la vita "civile".
Inoltre, in un posto dove non era possibile abbandonarsi nemmeno agli affetti più cari – perché anche l'abbandonarsi all'idea della famiglia, che sarebbe stata la cosa più normale, poteva diventare un'arma a doppio taglio nel lager, poteva dare resistenza o, al contrario, consumare-, l'unico rifugio per trovare conforto era la mente, ricuperando dalla memoria dei versi che magari non si ricordava nemmeno di avere studiato, di aver conosciuto. Cito uno dei miei preferiti: "Uomini, pace / sulla prona terra / troppo è il mistero". Il mistero.
Nella lunga strada, che mi condusse dall'ateismo all'agnosticismo, l'acquisizione del senso del mistero fu, io credo, determinante. Ho provato molte volte a identificare i momenti di tale passaggio, ma è impossibile. L'unica cosa che mi è rimasta nettissima nella memoria è il ricordo di un pomeriggio di domenica, in cui non si lavorava; tra la zona delle baracche e la zona dei crematori c'era un grande spiazzo erboso. E mi rivedo, quella domenica, sdraiata sulla terra e fissa a guardare una catena di montagne viola che si profilavano all'orizzonte.
Non pensavo a nulla, però mi sentivo affascinata, come se dalle lontane montagne mi raggiungesse qualcosa; e capivo che io ero sì all'ombra dei crematori, ma oltre la pianura e oltre le montagne c'era ancora qualcosa. Insomma, era per me evidente il senso del mistero. Forse in quella domenica cominciò a cambiare il mio animo. Perché ero stata di un ateismo puro, che talora, in certe ore cupe, diventava un ateismo invidioso; proprio così. L'animo, indurito e rattrappito dalle sofferenze, anelava la fede dei credenti, pensava al conforto, all'abbandono che sarebbe stato lasciarsi trascinare dalla corrente di una fede. E me lo scrollavo da dosso quasi con rabbia.
Tuttavia non posso per onestà tacere che proprio laggiù ci fu un breve periodo in cui fui credente, abbandonandomi appunto al desiderio di una fede. Accadde così. Ci alzavamo alle prime ore del mattino, quando era ancora notte, e rimanevamo davanti alle baracche ad aspettare che il cielo schiarisse. Una volta mi sentivo talmente stanca che il bisogno di aiuto era lacerante ed ecco che, guardando il cielo immobile, senza alcuna determinazione, mattina dopo mattina, mi vennero alla mente dei versi (io che non avevo mai scritto) che erano effettivamente una preghiera: "Fa, o signore, che io non divenga fumo, /fumo che si dissolve, /fumo in questo cielo straniero;/ ma riposare io possa laggiù, /nel mio piccolo cimitero".
Una preghiera, e avevo la coscienza di pregare; con quale fervore guardavo quel cielo di morte, ripetendo con fiducia la preghiera, credendo fortemente nell'aiuto di un Essere supremo, onnipotente, misericordioso, che ascoltasse la mia voce supplichevole: "Fa, o Signore, che io non divenga fumo".
Ma non durò a lungo. Probabilmente la continua ripetizione consumò lo slancio o forse mi accorsi che si trattava di una invocazione di aiuto dovuta alla troppa stanchezza. Di fatto, non chiedevo la vita, bensì "il mio piccolo cimitero", la morte, il riposo eterno. Analizzandomi e rianalizzandomi, risolsi che il mio era stato appunto un cedimento alla stanchezza.
Fu allora – lo riconobbi dopo come quello che io chiamo il "complesso della carriola", che ha tutta una storia nata ad Auschwitz, che ora non ho il tempo di spiegare – che decisi: da sola ho camminato, da sola devo continuare a camminare.
E' stato detto che nessuno uscì dai lager come vi era entrato, ed è vero; io entrai atea e ne sono uscita agnostica. Un'agnostica seria, e questa volta non per incoscienza. La domanda ultima: che cosa sarà di me quando il mio corpo giacerà sotto la terra?, l'ho ben presente. E come non potrei? La mia vita ormai è così vicina al suo termine! Ma, se il mistero c'è, io lo conoscerò. Questo dà al mio ultimo tratto di strada una serenità appena velata di malinconia.
Cosa rimane delle tante cose che formano il tessuto di una lunga esistenza? Forse che tale tessuto ha seguito una trama che ci rimane misteriosamente celata? Non so e non cerco di saperlo.

 

 



* Il presente colloquio è tratto dal testo di David Dambitsch, Im Schatten der Shoah. Gespräche mit Überlebenden und deren Nachkommen, 2002 Philo Verlagsgesellschaft mbH, Berlin/Wien, pp. 67-77. Traduzione dal tedesco di Franco Di Giorgi. [Nt] sta per Nota del traduttore. Dopo la traduzione, Liana Millu ha voluto apportare alcune modifiche e ulteriori precisazioni in quasi tutto il testo di Dambitsch, specialmente all’interno della scheda introduttiva. Questi interventi dell’Autrice, quando sono riportati in nota, verranno segnalati con la sigla [A].

[1] Era il 21 dicembre. [Nt]

[2] Liana aveva solo due anni quando sua madre morì. Il padre, capostazione, fu trasferito in Friuli, dove si risposò. [Nt]

[3] Come si apprende dal suo secondo libro, I ponti di Schwerin, ECIG, Genova, 1994, la scuola si trovava in una frazioncina a 4 km da Volterra, a Montolivo (Montebradano). [Nt]

[4] Rammendatrice di calze, ripetitrice di pargoli tonti, nonché tuttofare e lavapiatti di osteria con intemezzo come chiromante. [A]

[5] Tradotto in Germania nel 1997, ma tradotto anche in Francia, in Olanda, negli Stati Uniti, nei Paesi Scandinavi, cfr. la Prefazione di Piero Stefani a Liana Millu, Dopo il fumo. “Sono il n. A 5384 di Auschwitz Birkenau”, Morcelliana, Brescia, 1999, p.11. [Nt]

[6] Tradotto in Germania nel 1998. In questo testo, cosparsi nella struttura romanzesca della narrazione, si possono ricavare molti elementi autobiografici [Nt].

[7] La Prefazione a Il fumo di Birkenau, Giuntina, Firenze, 1991, 6ª ed., è di Primo Levi. In essa si legge: “Il fumo di Birkenau di Liana Millu è fra le più intense testimonianze europee sul Lager femminile di Auschwitz-Birkenau: certamente la più toccante fra le testimonianze italiane”. Come si legge ne I ponti di Schwerin (Parte I, V), Il fumo di Birkenau cominciò a essere scritto, tra il 2, il 3 o forse il 4 maggio 1945, “con una matita e una scheggia di specchio” su un vecchio diario trovati per caso in una casa abbandonata dopo la liberazione. Liana Millu — come racconta in “Quel mozzicone di matita del Meclemburgo”, in Dopo il fumo, op. cit. pp. 75-78 — per la vigilia di natale 1986 ha voluto regalare quel pezzo di matita a Primo Levi; il quale, il 7 gennaio 1987, le invia il seguente biglietto: “Cara amica, ho ricevuto lo strano e prezioso dono, e ne ho apprezzato tutto il valore. La conserverò. Anche per me i giorni si stanno facendo corti, ma le auguro di conservare a lungo la Sua serenità e la capacità di affetto che ha testimoniato inviandomi quel ‘mozzicone del Meclemburgo’ così carico di ricordi per Lei (e per me). Con affetto. Suo Primo Levi”. Due mesi dopo, l’11 aprile Primo Levi metteva fine alla sua vita. [Nt]

[8] La leggendaria “marcia su Roma” dell’ottobre 1922 a cui parteciparono i reduci dal fronte e i fascisti italiani e a cui soprattutto per disperazione Mussolini stesso fece ricorso, avvenne perché il re Vittorio Emanuele III, sufficientemente angosciato dai suoi consiglieri, volle sfruttare il carismatico “Duce” come Primo Ministro Italiano e per evitare una carneficina tra fascisti e forze armate.

[9] Erano confluite nel fascismo. [A]

[10] Cfr. a tal proposito Joanathan Steinberg, Deutsche, Italiener und Juden — Der italianische Wiederstand gegen den Holocaust, Göttingen, 1997.

[11] L’Organizzazione “Otto” fu una tra le più attive durante il periodo della Resistenza italiana, non soltanto in Liguria, ma anche in Piemonte, Toscana, Veneto. Nacque alla fine di settembre 1943 (anche se operava già prima dell’8 settembre ’43: cfr. la scheda su Liana Millu in Dalla Liguria ai campi di sterminio, a cura della Sezione Provinciale dell’ANED di Genova, p. 112) per volontà di un neurologo pavese, ma abitante a Genova, il professor Ottorino Balduzzi, da cui prese il nome la stessa Organizzazione. La sua attività si svolse solo in cinque mesi, fino al marzo 1944, allorché, a causa probabilmente di un tradimento, ma anche per “l’imprudenza del Balduzzi nel reclutare collaboratori (e quindi) per l’incoscienza di molti di questi e per la debolezza di alcuni”, i suoi membri furono arrestati dal Sicherheitsdienst (SD) (cfr. Franco Fucci, Spie per la libertà. I serviszi segreti della Resistenza italiana, Mursia, Milano, 1983, pp. 120-140). [Nt]

[12] Dopo la disfatta militare e politica dell’8 settembre, nella mente del comunista Balduzzi divenne ben chiaro il fatto che la Resistenza non poteva svolgere azioni incisive senza l’aiuto degli Alleati. Ma gli eventi che si verificarono in quella data e quelli conseguenti ad essi ingenerarono negli anglo-americani una certa diffidenza nei confronti degli italiani. Sicché se si voleva operare efficacemente nella Resistenza e se si intendeva farlo attraverso il supporto degli Alleati, occorreva in primo luogo conquistarsi la fiducia di questi. Per farlo, Balduzzi pensò di poter garantire il passaggio dei prigionieri anglo-americani “evasi dopo l’armistizio dai campi di concentramento italiani”, nonché, in seguito, di collaborare con gli Alleati fornendo loro informazioni politiche e militari. Le informazioni poterono effettuarsi grazie alle ben 12 radio ricetrasmittenti di cui gli Alleati munirono i partigiani della “Otto” per intensificare la loro collaborazione. (Cfr. Franco Fucci, Spie per la libertà, op. cit.) [Nt]

[13] Dopo che Mussolini il 25 luglio 1943 venne destituito dal suo incarico di Primo Ministro e arrestato, si formò un governo antifascista sotto il Maresciallo Badoglio. Non tutte le leggi del regime fascista sono state comunque allora abbandonate: quelle relative alle “leggi ebraiche”, ad esempio, non sono state superate. Così, quando l’8 settembre 1943 gli italiani siglarono l’armistizio con gli alleati, e il re assieme al principe reggente fuggirono verso Brindisi,  la deportazione e gli assassinii degli ebrei si moltiplicarono. Un notevole aiuto, tuttavia, gli ebrei lo ebbero dalla stragrande maggioranza degli italiani appartenenti a tutti gli strati sociali. In questo modo, una parte cospicua di ebrei italiani potè salvarsi.

[14] Alcuni prigionieri inglesi — ufficiali e soldati, usciti a migliaia dai campi di concentramento italiani dopo l’8 settembre — furono scortati da alcuni membri della “Otto” e portati con una piccola imbarcazione dalla Liguria in Corsica, dove c’erano le basi degli Alleati. (Cfr. Franco Fucci, Spie per la libertà, op. cit.). [Nt]

[15] Liana Millu era l’unica donna attiva nella “Otto”. [A]

[16] Erano criminali, presi dalle comuni galere. [A].

[17] La I.G. Farben nasce nel “1925 dalla fusione di diverse aziende chimiche che avevano, fra l’altro, prodotto tonnellate di gas per la guerra chimica nel primo conflitto mondiale (..). Nei primi anni Trenta (..) si schierò apertamente, con laute contribuzioni, al fianco dei nazisti (..). Nel ’40 la I.G. Farben la sua produzione di gomma sintetica decide di insediarla a Monowitz, nella Polonia occupata (..). Per gli operai semplici l’azienda paga 3 marchi, e 4 per i lavoratori specializzati, direttamente alle SS responsabili di Auschwitz (..). Dal ’42 al ’45 la I.G. Farben, tramite la sua controllata Degesch (Deutsche Gesellschaft zur Schädlingsbekämpfung, “Società tedesca per la lotta contro i parassiti”. La ditta che si occupava della distribuzione era la Tesch und Stabenow che faceva la spola tra Dessau, dove sorgevano le fabbriche, e Auschwitz. La Topf und Söhne era invece la ditta di Erfurt che si occupò della costruzione dei forni crematori e delle installazioni dello sterminio. Cfr. Kazimierz. Smoleń, Auschwitz 1940-1945, Guide du Musée, Édition du Musée d’Ètat à Oświęcim, Quatriême Édition, 1972, pp. 30-3), fornirà tutto il gas necessario allo sterminio di quasi quattro milioni di esseri umani, in massima parte ebrei”, cfr. Paolo Soldini, l’Unità, 20 settembre 1994. L’articolo riguarda la richiesta avanzata il 30 agosto 1994, da parte di alcuni azionisti dell’attuale I.G. Farben, dei beni perduti nei Länder orientali e ad essa espropriati alla fine della guerra. Inoltre, da un articolo apparso su Repubblica il 27 febbraio 1999 apprendiamo che erano almeno dodici le maggiori aziende e banche tedesche che sfruttando la forza-lavoro dei prigionieri si arricchirono (Allianz, Basf, Bayer, Bmw, Steyr-Daimler-Puch, Heinkel-Werke, Messerschmitt, Dest, Deutsche Bank, Degussa, Dresdner Bank, le acciaierie Hoesch-Krupp, Hoechst, Siemens e Volkswagen). Esse ora, nei nostri giorni, riconoscendo le responsabilità morali del passato — hanno finanziato Auschwitz! — vorrebbero lavarsi la coscienza pagando (per il momento solo ai sopravvissuti residenti in America: gli altri possono aspettare. Possono aspettare? Sì, ma quanto?) la bella cifra di 3 miliardi di marchi, pari a circa 3 mila miliardi di lire. La stessa notizia era apparsa su El Mundo del 5 febbraio 1999, ove più specificamente si parla di alcuni documenti compromettenti della Deutsche Bank rinvenuti in uno scantinato di una filiale di tale banca ad Hannover. [Nt]

[18] Nell’ottobre del 1944, in seguito all’avanzamento russo, — aggiunge la Millu, — cominciarono ad evacuare Birkenau. Ebbi la fortuna di partire col primo (e ultimo) treno. A Ravensbrück venivano i dirigenti delle fabbriche: sceglievano le donne di aspetto ancora buono. Io l’avevo, e mi mandarono nel campo di lavoro di Malkow. [A]

[19] Malattia parassitaria della pelle dovuta alle femmine di acari, frequenti in condizioni igieniche precarie. [Nt]

[20] Il campo di lavoro non era di sterminio. [A].

[21] Anche in Jean Améry si può cogliere un senso di solitudine simile a quello espresso qui da Liana Millu. “Non sia impedito agli altri di immedesimarsi. Riflettiamo su un destino che ieri avrebbe potuto e domani potrà essere il loro. I loro sforzi spirituali godranno del nostro rispetto, ma sarà un rispetto minato da scetticismo, e nel corso del dialogo ben presto ammutoliremo e tra noi e noi diremo: coraggio, brava gente, datevi da fare quanto volete, ma discorrerete sempre come un cieco può discorrere del colore”, Jenseits von Schuld und Sühne. Bewältigungsversuche eines Überweltigten, tr. it. di Enrico Ganni, Intellettiale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, p. 151. [Nt]

[22] Cfr. la Prefazione di Primo Levi a Il fumo di Birkenau: “L’autrice compare raramente in primo piano: è un occhio che penetra, una coscienza mirabilmente vigile che registra e trascrive…”, op. cit., p. 7. [Nt]

[23] Per quanto riguarda la “fortuna” capitata a Liana Millu negli ultimi giorni di Birkenau, si è già ricordato l’episodio (vedi supra, nota 18) di quell’unico treno che lei era riuscita a prendere nell’ottobre 1944 e che doveva portarla da Auschwitz a Ravensbrück e da qui a Malkow. Sulla “fortuna” relativa al primo giorno possiamo invece ricordare l’esperienza del suo arrivo a Birkenau, del suo “primo sguardo” gettato su quel Vernichtungslager in quella “chiara mattina di maggio” 1944 (cfr. Liana Millu, “Primo sguardo: arrivo a Birkenau”, in La via del sale, n° 3, vol. IV, sett.-ott. 2000, “Perché la guerra?”, Genova, 2000, pp. 23-24). Mentre era in attesa di entrare in Lager, a un certo punto la lunga coda di deportati, della quale lei faceva parte, fu spezzata in due. Liana Millu fu casualmente l’ultima della fila ad entrare in Lager, tutti gli altri che venivano dopo di lei furono condotti direttamente al crematorio. [Nt]

[24] C’è una breve poesia della Millu che, più di ogni altra spiegazione, esprime appieno la sua disaffection — per usare la parola di un poeta a lei caro: T.S. Eliot, —  il suo amaro scetticismo nei confronti dell’umanità; una poesia che l’Autrice ci ha consentito gentilmente di citare: “Invettiva 1945”: Andate, umani. Più niente / Voglio avere a che fare / Con voi. /Voi che parlate, parlate, parlate, /Affannati come alacri formiche, /Accigliati come ragni in un buco. /E gli uomini sanno di sperma / E le donne di mestruo. [Nt]

[25] Si tratta di un racconto che ora, insieme ad altre testimonianze, compare in Dopo il fumo, op. cit., pp. 35-38. [Nt]