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Irving, Calderoli e il libero pensiero
MASSIMO L. SALVADORI 

 

  da Repubblica - 23 febbraio 2006


Devo dire che prima vedere lo storico inglese David Irving arrestato, processato, indotto dalla paura della pena a pronunciare un´autocritica e condannato dal tribunale di uno Stato democratico come l´Austria per le sue tesi sulla Shoah e poi leggere le dichiarazioni di piena approvazione dell´azione penale rilasciate da tante persone stimabili mi ha gettato nel più profondo sconcerto. Credo che la vicenda sia tale da suscitare un forte campanello di allarme.
Irving fa parte di un gruppo di intellettuali che, con diramazioni in varie parti del mondo, hanno fatto della negazione dello sterminio degli ebrei il loro mestiere. Le loro tesi, che costituiscono uno dei maggiori capitoli del libro delle grandi menzogne della storia, sono state confutate da schiere di storici con incontestabili documentazioni a partire da quelle indimenticabili fornite dai cineoperatori che alla fine della guerra filmarono i campi di sterminio, i resti delle vittime e i pochi sopravvissuti. A credere il contrario sono unicamente quanti dominati da un acritico e spregevole antisemitismo, il quale si esprime nella convinzione che l´olocausto sia stato un´invenzione delle potenze vincitrici alimentata strumentalmente dal vittimismo ebraico e che gli ebrei caduti sotto la falce dei loro persecutori abbiano pagato il fio delle loro colpe storiche. I negazionisti con le loro falsità erano stati isolati dal dibattito pubblico e nell´opinione di tutti gli uomini civili. Sennonché, in forza dell´applicazione di una legge in vigore anche in Germania che considera un crimine la negazione della Shoah, lo Stato austriaco ha ritenuto proprio dovere condannare Irving alla prigione per le sue opinioni.
Io penso che si tratti di un grave passo falso, gravido di implicazioni, per due principali motivi: l´uno di natura pratica e l´altro di carattere ideale. Il primo è che esso fornirà argomenti propagandistici alle correnti dell´antisemitismo islamico, oggi capeggiate dal presidente della repubblica iraniana, le quali potranno asserire che la "verità" viene soffocata dallo Stato e additare quali "martiri della causa" i vari Irving. Il secondo è che condannare alla prigione un individuo per le sue opinioni, siano esse come in effetti sono anche le più squallide, costituisce una palese contraddizione dei fondamenti delle libertà civili e politiche.
La libertà di pensiero e di espressione si è fatta strada nel mondo moderno contraddicendo frontalmente l´idea che sia compito dello Stato di tutelare le buone opinioni contro quelle cattive e affermando l´idea opposta che spetti alle prime scacciare le seconde in un confronto aperto, poiché solo questo è in grado di creare intorno ad esse un consenso convinto e durevole nell´intimità delle menti; che la verità imposta per legge induca di per sé quel corrompimento il quale consiste nel tarpare le ali alla verifica delle tesi in contrasto. Credevamo che certi argomenti nelle nostre democrazie liberali avessero posto le più salde radici, ma chi si guarda intorno non può non vedere che la volontà del potere pubblico di ricorrere alla forza dello Stato anziché alla forza della democrazia e della libera opinione a difesa dei propri principi e valori va diffondendosi.
In proposito vale la pena di rileggere le seguenti parole di J.S. Mill, tratte da quel suo saggio Sulla libertà che costituisce una delle pietre miliari del pensiero liberale: «Se tutti gli uomini, meno uno, avessero la stessa opinione, non avrebbero più diritto di far tacere quell´unico individuo di quanto ne avrebbe lui di far tacere, avendone il potere, l´umanità. (...) Impedire l´espressione di un´opinione è un crimine particolare, perché significa derubare la razza umana, i posteri altrettanto che i vivi, coloro che dall´opinione dissentono ancor più di chi la condivide: se l´opinione è giusta, sono privati dell´opportunità di passare dall´errore alla verità, se è sbagliata, perdono un beneficio quasi altrettanto grande, la percezione più chiara e viva della verità, fatta risaltare dal contrasto con l´errore». E ancora: «Se si vietasse di dubitare della filosofia di Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua verità come lo sono. Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate». Mill poi sottopone alla nostra attenzione un altro argomento di valore decisivo, su cui occorre adeguatamente riflettere: che la verità deve trovare la propria protezione nella sua forza intrinseca, che quando invece essa la ricerca e la trova in una imposizione esterna, allora «finirà per essere creduta un freddo dogma, non una verità attuale»; che «se l´opinione comunemente accettata è non solo vera ma costituisce l´intera verità, se non si permette che sia, e se in effetti non è, vigorosamente e accanitamente contestata, la maggior parte dei suoi seguaci l´accetterà come se fosse un pregiudizio, con scarsa comprensione e percezione dei suoi fondamenti razionali».
Lo spettacolo di un Irving che, per paura della pena, protesta di aver cambiato opinione e dei giudici che dicono di non credergli lancia un brutto messaggio: brutto per la viltà dello storico inglese che, guarda caso, non aveva creduto di pronunciare la sua autocritica prima di essere arrestato (e qui la macchia attiene alla moralità dell´individuo); ma brutto, a mio giudizio assai più brutto, per l´esempio di uno Stato che si erige a giudice delle opinioni e della verità (e qui la macchia colpisce le istituzioni). Irving era uno studioso screditato. Nulla di più sbagliato e insidioso che farne uno studioso perseguitato, perché, quando si attiva un meccanismo di tutela per via istituzionale della verità, si sa come si comincia ma non come si finisce. La condanna di un Irving può trovare l´appoggio di una prevalente opinione pubblica che considera giustamente scandalosa la negazione della Shoah. Ma un´opinione pubblica che si predispone ad affidare allo Stato la repressione di ciò che considera scandaloso, compie un passo terribilmente pericoloso, che semina germi potenti di illiberalismo. Prendiamo il caso della religione, più che mai attuale e scottante. L´ex ministro Calderoli – la cui statura intellettuale e morale è al pari di quella di Irving quello che è – viene ora indagato per vilipendio della religione. Non vi è dubbio che nell´opinione pubblica vi sia una parte consistente che ritiene scandalosa (e in effetti anche qui di uno scandalo si tratta) la sua volgare provocazione nei confronti dell´Islam e quindi giusta un´azione giudiziaria nei suoi confronti. Ma siamo sicuri che, una volta imboccata questa via, questa stessa opinione pubblica o un´altra diversamente composta non troverebbe altrettanto giusto punire, ad esempio, uno studioso il quale conducesse una critica distruttiva delle religioni con argomenti giudicati offensivi per la coscienza dei credenti, e, in quanto blasfema, censurabile e perseguibile dalla legge?
Stiamo attenti: la minaccia che non solo gli Stati autoritari ma anche gli Stati democratici recidano il legame con le libertà politiche e civili è sempre incombente. Affidiamo la difesa delle verità in cui crediamo alla sfera della coscienza e del libero confronto e non alla falsa illusione che esse possano trovare il loro scudo in qualsivoglia braccio secolare. Le esperienze del passato dovrebbero averci insegnato abbastanza; ma non sembra che così sia.