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Cade quest'anno il centenario dalla nascita dello scrittore ungherese Arthur Koestler, un grande testimone del XX secolo.
La sua opera più celebre è 
Buio a mezzogiorno. Un libro di condanna allo Stalinismo

Arthur Koestler (Budapest 1905 – Londra 1983), scrittore e giornalista, è autore di romanzi e saggi di argomento politico, filosofico e scientifico. Inviato in Spagna durante la Guerra civile e prigioniero dei franchisti, pubblicò il reportage Dialogo con la morte. Staccatosi dal partito comunista, denunciò i processi staliniani in Buio a mezzogiorno, che con Arrivo e partenza e I gladiatori compone una trilogia di romanzi sui temi dell’etica politica e della rivoluzione.

Arthur Koestler:  opere


cerca anche: Nello Ajello, Il secolo sbagliato di Arthur Kpestler, La Repubblica 1 agosto 2005


Il pessimista che vide le verità
di Renzo Foa

Introduzione a Lo Yogi e il commissario

Nel 1940, Arthur Koestler riuscì a fuggire da Parigi e a raggiungere fortunosamente Londra. Nell'Europa che Hitler stava progressivamente occupando e unificando sotto il segno del nazismo, non c'era posto per uomini come lui. Non era consentito essere contemporaneamente 'rinnegati' del comunismo e antifascisti. Non si poteva stare in mezzo. Anche perché non ne esisteva lo spazio fisico. O, meglio, l'unico spazio consentito era quello dove transitò Margarete Buber-Neumann, rinchiusa prima nel Gulag a Karaganda e poi nel Lager a Ravensbruck. Per non parlare del campo del Vernet. Anticipare la storia equivaleva al suicidio o quasi. Perfino la gran parte della futura classe dirigente della Francia democratica, compreso François Mitterrand, scelse Vichy. Per disperazione? Per viltà? Per istinto di sopravvivenza? Per semplice opportunismo? La discussione è ancora aperta, tra coltri di pudore (e, detto solo tra parentesi, sarebbe interessante sapere cosa facevano nei giorni di Dunkerque tanti maestri di virtù che si stanno agitando oggi in Italia...).
Altri scelsero di continuare la lotta. La parola résistence, la cui 'r' iniziale si sarebbe poi scritta con la maiuscola, fu pronunciata per la prima volta da Charles de Gaulle, l'allora sconosciuto e altezzoso generale riparato oltre Manica. Molti morirono, anche in circostanze oscure. Molti riuscirono a salvarsi. Quando uscì Buio a mezzogiorno, la cui traduzione era già stata inviata per posta all'editore inglese, Koestler era in salvo da pochi giorni. Era in prigione, perché aveva raggiunto il Regno Unito senza documenti, ma era come se fosse libero. Ed era vivo, a differenza di altri, come il suo vecchio amico Willi Muenzenberg, intellettuale tedesco, grande nome del Comintern, scampato quasi per caso alle purghe di Stalin, ma non alle giornate convulse dell'occupazione della Francia. Vivo, deciso a non arrendersi e a continuare la sua azione politica attraverso l'uso della penna.
Così, uscito il libro che lo avrebbe collocato nell'élite planetaria, dandogli fama e onori, si mise a lavorare in rapida successione a Schiuma della terra, a Dialogo con la morte, a Arrivo e partenza. Contemporaneamente scrisse diversi saggi per riviste americane e britanniche, nei quali 'interpretò' in diretta il conflitto mondiale che si stava combattendo ed arricchì gli argomenti della sua rottura con il comunismo. Lo Yogi e il Commissario è, appunto, il titolo sotto il quale vennero raccolti questi interventi, che in italiano uscirono nel 1947, editi da Bompiani, che da allora non sono mai stati ristampati e dei quali si è quasi persa la memoria. Vago è il ricordo della loro esistenza, schiacciata dall'opera più importante, appunto Buio a mezzogiorno, e da quei lunghi capitoli autobiografici dedicati alla Russia di Stalin, alla guerra di Spagna e all'uscita dal comunismo che, a cavallo del 1989, sono stati riscoperti dopo una lunga assenza dalle librerie.
Perché riproporre oggi Lo Yogi e il Commissario, a poco meno di sessant'anni di distanza dalla sua prima e quasi dimenticata apparizione? I motivi sono almeno due. Il primo è forse ovvio, facile da spiegare, ora che tanti miti si sono infranti, ora che i precursori non servono più. Si tratta di richiamare un po' di attenzione su uno dei personaggi più straordinari del secolo scorso. Un personaggio che è stato un maestro di inquietudine, sia in quella parte della vita cha ha dedicato alla politica, sia nell'altra in cui vi ha rinunciato completamente, attratto da altre passioni e da altri interessi. Un personaggio emblematico, che è stato uno dei grandi protagonisti del dibattito culturale e sul quale è anche possibile misurare le poche virtù e i tanti difetti della cultura europea dell'ultimo cinquantennio. Già, perché se ci fossero stati altri 'no' pesanti come il suo, se in Occidente ci fossero stati altri 'rinnegati' come lui, se fossero stati più numerosi i Victor Serge, i David Rousset e i Victor Kravchenko, probabilmente la storia del Novecento sarebbe stato meno lunga e, forse, anche meno drammatica. E magari Nina Berberova non sarebbe stata costretta a lasciare Parigi, per non ascoltare Jean-Paul Sartre che intimava a scrittori e poeti di parlare della battaglia di Stalingrado per poi avere il diritto di parlare di sentimenti.
L'altro motivo è di natura completamente diversa. Lo Yogi e il Commissario offre alcune decine di pagine inaspettate. Vi si parla dell'atteggiamento degli uomini davanti alla guerra: non tanto delle trincee e delle incursioni, non tanto di coloro che potremmo definire persone comuni, con le loro sofferenze quotidiane, con i loro atti di debolezza o con i loro gesti di coraggio, quanto piuttosto di coloro che dovevano capirne le ragioni generali, leggerne il filo, spiegarne lo svolgimento. Chi ha vissuto o anche solo visto un moderno conflitto militare da vicino sa che esistono più livelli. Uno, il più raccontato, è quello del fragore. Cioè delle distruzioni e del sangue, dello scontro essere umano contro essere umano o macchina contro macchina. Un altro, il più indagato, è quello della discrezione. Cioè della strategia, della politica, delle alleanze, delle grandi e delle piccole mosse, dei tradimenti e dei compromessi. C'è poi il livello che potremmo definire dell'individualità, del rapporto tra l'individuo e la realtà: riguarda le risposte che ciascuno dà ad alcune domande. Perché si combatte? Cosa si difende? Dove si vuole arrivare? Che immagine si ha del nemico? Cosa è la conoscenza della guerra? C'è o non c'è un limite all'idea dell'orrore? Se Primo Levi quando raccontò se stesso nel Lager, Hannah Arendt quando fece la cronaca del processo contro Adolf Eichmann, e Aleksandr Solzenicyn quando descrisse la sua avventura nel Gulag, ci hanno lasciato dei veri e propri manuali, in Koestler c'è la premessa. Una premessa - qui sta la grande sorpresa di queste pagine - che arriva intatta nel pieno dell'attualità che stiamo vivendo, nel pieno della nostra storia più recente, cioè l'ultimo decennio, tanto segnato da tragedie che il mondo ha fatto fatica a capire nel momento in cui si consumavano, ma della cui dimensione ha preso conoscenza quasi subito. E anche nel pieno - se è consentito un riferimento che può apparire di routine - dei problemi così come ci si sono posti all'indomani dell'11 settembre.

Cominciamo da uno di questi saggi. È quello centrato sul rifiuto di accettare la dimensione dell'orrore. Era stato scritto nel 1944, quando già si sapeva tutto quello che accadeva nell'Europa occupata (anche se con il passar del tempo abbiamo assistito e continuiamo ad assistere a estenuanti discussioni, sempre più accanite, ora sulla consapevolezza di Roosevelt, ora su quella di papa Pacelli e così via). Il titolo era esplicito: Le atrocità non credute. Il testo lo era ancora di più. Koestler vi si dichiarava pubblicamente pazzo per la sola ragione di voler cercare di raccontare - sì, in quell'anno - che tre milioni di ebrei erano stati già uccisi nelle camere a gas, fucilati o sepolti vivi, che era in atto quella che definiva «la più gigantesca esecuzione di massa che la storia ricordi», un'esecuzione che «va avanti ogni giorno, ogni ora, regolare come il battito del vostro orologio». In altre parole, si sapeva, ma non lo si accettava. Raccontava poi di scrivere tenendo sul tavolo alcune fotografie, spiegava che c'era chi era morto per averle fatte uscire clandestinamente dalla Polonia, perché pensava che ne valesse la pena. Aggiungeva che i fatti erano ormai noti grazie a pamphlet, libri bianchi, giornali e riviste. Ma ecco che alla verità dei fatti si contrapponeva un'altra verità, quella del rifiuto: «E poi, l'altro giorno, incontro uno dei più noti giornalisti americani. Mi racconta che, secondo un recente sondaggio d'opinione, nove americani su dieci, quando si chiede loro se credono alle atrocità naziste, rispondono che si tratta solo di bugie della propaganda, di cui non credono una sola parola. Tengo già da tre anni conferenze ai soldati, qui in Inghilterra, e il loro atteggiamento è identico».
Sessant'anni fa? O ieri? O oggi? Ai campi di concentramento di allora, agli ostaggi fucilati, alle fosse comuni, a Lidice, a Treblinka o a Belsen - questi erano gli esempi citati - potremmo ora aggiungere un altro elenco infinito. Incredulità per istinto di sopravvivenza. Sotto questa voce potremmo, ad esempio, considerare il distacco con cui abbiamo seguito il genocidio in Ruanda, rifiutando perfino la verità delle immagini televisive che nel 1941 non c'erano. Incredulità per una più banale fuga dall'orrore. Sotto quest'altra voce potremmo inserire gli occhi che socchiudevamo quando derubricavamo l'assedio di Sarajevo nella categoria dell'ordinario disordine balcanico. Incredulità nel nome di un'ideologia. Cos'altro era la prepotenza con cui i milioni di morti provocati dalla rivoluzione culturale cinese venivano accantonati dietro al mito dell'uguaglianza? Incredulità magari per non rimettere in discussione se stessi, le proprie convinzioni, le proprie scelte e, sì, il proprio impegno politico. Come negli anni dell'autogenocidio cambogiano che si consumava in un silenzio che riusciva a soffocare tante voci e tanti testimoni. Incredulità per un malinteso senso di colpa. In fondo con questa lettura viene spiegata e in molti casi ancora giustificata la lenta e progressiva escalation del fondamentalismo islamista, dal terrorismo palestinese ai fiumi di sangue versati dagli integralisti algerini, fino ai talebani e ai loro simili. Possono essere ancora tante le varianti dell'incredulità, a cominciare dal quieto vivere. Ma ci si può fermare qui. Si corre il rischio di diventare prolissi. Restano comunque una domanda e una constatazione.
La domanda è questa: quanto ha pesato l'incredulità nella storia di cui stiamo parlando e di cui Lo Yogi e il commissario è il punto d'inizio? Quanto ha condizionato il corso della guerra e quanto quello, molto più lungo, del dopo-guerra? E poi perché non ci siamo accorti della sua presenza o, se ce ne siamo accorti, nel peggiore dei casi abbiamo fatto finta di niente e nel migliore non siamo riusciti a scalfirla? Non credo che ci siano delle risposte. La constatazione è questa: se l'incredulità è stata una delle parole-chiave del secondo conflitto mondiale e se accettiamo l'idea che poi lo è stata anche nei decenni successivi, è difficile sfuggire alla conclusione a cui giungeva Koestler, poche parole su questo «grande vizio culturale della modernità» che coinvolge generazione dopo generazione: «Spesso è ciò che rende disonesto anche chi pretende di non esserlo». (Detto solo tra parentesi, perché sarebbe un discorso troppo lungo. A far da contrappeso a questo vizio ce n'è un altro, quello della credulità. Il 'rinnegato' per antonomasia, Victor Kravchenko, quando raccontò la tragedia della Russia di Stalin attraverso la sua biografia, non venne creduto da chi doveva credergli, cioè dai comunisti che vivevano del mito dell'URSS, e si lamentò del fatto che venisse invece creduto l'ambasciatore di Roosevelt a Mosca, Joseph E. Davis, che assistendo ai processi politici delle 'grandi purghe' si convinse che le confessioni degli accusati, a cominciare da quella di Bucharin, fossero vere).
In altri due saggi raccolti nello Yogi e il Commissario, Koestler trattava una seconda parola-chiave che da allora si è trascinata fino ad oggi: la democrazia. O, ad essere più precisi, cosa può essere una guerra nel suo nome e quali sono le ragioni che possono spingere gli uomini a morire per la sua difesa o la sua affermazione. E anche qui ci imbattiamo in argomenti che ci sorprendono. Nello scritto dal titolo molto accattivante - Il cavaliere dall'armatura arrugginita - affiorava la contestazione di una delle interpretazione dominanti, allora e in seguito, del secondo conflitto mondiale. Testuale: «Mentre ci rallegriamo della vittoria delle nostre armi, dobbiamo riconoscere la disfatta delle nostre aspirazioni». Dove per aspirazioni si intendevano proprio quelle immagini che poi sono state scolpite nella nostra cultura: appunto la democrazia e poi la libertà e tutto ciò che ci si attendeva dalla fine del nazifascismo, definito per quello che era, cioè «una totale menzogna».
Chi aveva visto i campi di battaglia spagnoli - e Koestler era fra questi - si era accorto che i miliziani repubblicani che andavano a morire lo facevano per un'infinita varietà di motivi, dai quali era probabilmente assente quella che veniva descritta come «un'astratta via democratica». Una felice verità. I soldati greci che fermarono l'esercito italiano, l'esercito di Mussolini, sulle montagne albanesi, ubbidivano a un dittatore di nome Metaxas. E si può continuare, arrivando per successive approssimazioni ai combattenti dell'Armata rossa sovietica. Testuali anche queste parole, con cui iniziava l'altro saggio, dal titolo un po' enigmatico, cioè La fraternità dei pessimisti: «In questa guerra noi combattiamo una menzogna totale in nome di una mezza verità… Definiamo menzogna totale il nuovo ordine nazista, perché nega l'ethos peculiare della nostra specie… Noi, dal canto nostro, viviamo in un'atmosfera di mezze verità. Combattiamo il razzismo e tuttavia nei paesi anglosassoni la discriminazione razziale è ben lontana dall'essere abolita; combattiamo per la democrazia, ma il nostro più potente alleato è una dittatura, in cui almeno due delle quattro libertà fondamentali sono negate. Ma l'influenza del clima di mezze verità è così appiccicosa e pervasiva che solo citare questi fatti, per quanto innegabili, suona come una provocazione…».
Quante volte ci siamo imbattuti nel problema delle 'mezze verità', dopo questa provocazione dichiarata? Koestler anticipava allora - era il novembre del 1943 - quello che sarebbe poi diventato il problema dei problemi, su cui è già stato detto e scritto tutto, cioè come Stalingrado, come il 1945 consentì a uno dei due grandi totalitarismi del secolo una lunga sopravvivenza. Poneva un problema molto scomodo. Altri personaggi pagarono il prezzo di questa stessa visione. Margarete Buber-Neumann, liberata da Ravensbruck, camminando verso casa attraverso la Germania distrutta, raccontò una sera ad altri superstiti che prima di essere prigioniera di Hitler lo era stata di Stalin. Venne zittita, considerata una nemica. David Rousset, per aver cercato di richiamare l'attenzione sull'insieme dell''universo concentrazionario', cioè anche sui Gulag, venne isolato e messo al bando dalla comunità della cultura francese. All'autore di Buio a mezzogiorno andò meglio. Forse perché aveva messo tra sé e le ambiguità dell'Europa, da cui proveniva, la difesa rappresentata dal Canale della Manica e dalla cultura anglosassone, o forse per altre ragioni. Ma di sicuro quel problema è rimasto.
In due modi. Da un lato ha costituito la grande giustificazione di tutte le possibili varianti di comunismo. Un esempio? Parlando dell'Italia è proprio difficile non vedere nell'appartenza ideologica alla Russia vincitrice della guerra una delle principali ragioni dell'insediamento politico del PCI togliattiano, in un Paese che invece quella guerra aveva contribuito ad iniziarla e l'aveva persa. Un secondo esempio? C'è un'abbondante memorialistica che testimonia come proprio la debolezza delle democrazie occidentali tra le due guerre - le eterne 'mezze verità' - abbia avvicinato una parte importante di una generazione di intellettuali al comunismo, costringendola a scegliere tra l'Ottobre e il fascismo. C'è una bellissima pagina in cui Miklos Vasarhelyi, stretto collaboratore di Imre Nagy durante la rivoluzione del '56, descriveva quegli anni e spiegava «l'errore» che condivise con tanta élite europea e di cui pagò personalmente il prezzo. Ora, guardando il secolo, possiamo capire perché la democrazia non apparisse come una terza e convincente scelta. Quello che continua a essere difficile da spiegare è invece perché ci sia voluto tanto tempo prima che finalmente riuscisse a diventarlo. Oggi, apparentemente lo è. Ma, per tornare alla provocazione di Koestler, c'è un secondo modo in cui il problema è rimasto aperto.
Abbiamo sotto gli occhi l'uso delle 'mezze verità' come giustificazione, questa volta non del comunismo, ma di una nuova forma di irresponsabilità globale. Non è proprio questa la forma in cui si sono espresse le tante resistenze alla risposta militare decisa dall'America dopo l'11 settembre? In un fiorire di relativismi, abbiamo sentito chiedere e con convinzione chi potesse parlare in nome della democrazia, come ci si potesse alleare con chi calpesta la democrazia, fino a dove una democrazia si potesse spingere nell'uso della forza, quanto una democrazia dovesse prima completare se stessa e poi occuparsi degli altri e anche come la sovranità statale dovesse essere considerata come uno dei cardini della democrazia del mondo. Sessant'anni fa erano 'mezze verità' rimosse nel nome della guerra alla 'menzogna totale', oggi sono 'mezze verità' esibite nel nome della rinuncia. Con una conclusione: ancora oggi la democrazia non è considerata la ragione di una reazione, un motivo valido per scendere in guerra. Almeno non da un grande pezzo di mondo, tra cui l'Europa.
Già, che immagine dava i sé l'Europa in quei primi anni del conflitto? E soprattutto come la descriveva Arthur Koestler che aveva vissuto nelle sue capitali più importanti, dalla natìa Budapest, a Vienna, a Berlino, a Parigi? È presto detto: dallo Yogi e il Commissario la raccontava come l'Europa di una cultura che cede e che si arrende, come una grande Vichy. Quasi con brutalità vedeva un segno di fuga e di rinuncia nelle Entrevues immaginaires di André Gide, nelle poesie di Louis Aragon Le crève-coeur e nel Silence de la mer di Vercors - tre opere edite sotto l'occupazione - e si lamentava osservando che «altri, che potrebbero legittimamente parlare in nome della Francia, tacciono». E faceva un paragone spietato tra le classi dirigenti inglesi e quelle francesi: le prime, dopo Dunquerke, si erano trovate di fronte alla drammatica alternativa tra lo stare con il proprio popolo o con Hitler e, senza esitazione, avevano scelto il proprio popolo; le seconde, poste davanti alla stessa scelta, avevano preferito Hitler. Charles de Gaulle, solo lui, sarebbe poi riuscito a rimuovere il peso di Vichy. Ma, leggendo queste pagine - e ricordando che la carta geografica del continente, nel 1942, era una uniforme macchia scura - resta una domanda sulle debolezze che hanno ripetutamente segnato la storia europea contemporeanea e le sue élites, con una ripetuta propensione a sfuggire alle loro responsabilità.
Naturalmente la parola-chiave più importante dello Yogi e il Commissario è il comunismo. Su questo argomento è difficile aggiungere qualcosa a tutto ciò che è stato detto e scritto in questi anni e che in qualche modo ha oscurato la critica di precursori come Koestler, Orwell, Kravchenko e prima di loro Roth, Gide e, perché no?, anche Simenon con il suo romanzo Le finestre di fronte. Si può forse ricordare che in Koestler prevalse non tanto l'attenzione verso la testimonianza e la denuncia, quanto un'idea dell'individuo che via via, anche nella fase della sua vita segnata dalla rinuncia alla politica, è poi diventata sempre più dominante. Cioè l'individuo con le proprie idee, le proprie passioni, le proprie verità, le proprie inquietudini destinate a entrare in un conflitto irrisolvibile con 'il Commissario'. Formalmente furono i processi di Mosca a provocare l'atto della sua rottura, ma il distacco era iniziato prima, durante la prigionia in Spagna, sotto la minaccia dell'esecuzione capitale già decisa e poi ritirata grazie alla protesta organizzata in Gran Bretagna e in Francia, cioè durante quel lungo Dialogo con la morte in cui nelle pieghe del duello intellettuale con il franchismo cominciò ad affiorare l'altro duello, quello con il Comintern, le sue regole e la pretesa di rappresentare la totalità dell'universo. Si può aggiungere che le pagine contenute nello Yogi e il Commissario sono state a lungo considerate come il testo più importante di analisi e di contestazione del comunismo.
Non si può però sfuggire ad una domanda: quanto ha pesato Arthur Koestler nel dibattito politico e culturale italiano e cosa ne è rimasto? È una domanda importante quanto ovvia, posta da tutti coloro che hanno cercato di riproporre la questione della impermeabilità - non solo a sinistra - di fronte alle verità sul comunismo, come effettivamente era dove è stato un sistema sociale e di governo. Ultima a sollevarla è stata Barbara Spinelli quando ha cercato di richiamare l'attenzione sull'Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn. Anche su questo argomento è già stato detto o scritto tutto. Forse si può cercare di dare una spiegazione in più, leggendo le pagine del saggio Le atrocità non credute come la metafora di un atteggiamento che ha coinvolto una generazione dopo l'altra e che ha reso, qui in Italia, l'appartenenza al comunismo un fenomeno anomalo e perfino bizzarro. Chiediamoci perché nel Paese che ha avuto il maggiore partito comunista dell'Occidente, al cui interno è transitata la gran parte delle élites intellettuali, adesso sembra che nessuno in passato sia stato comunista. Opportunismo? Doppiezza? Malafede? Disonestà culturale? Disonestà tout court? Qualunque risposta si voglia dare, questa rimozione - certamente interessata sotto il profilo politico - è in realtà un grande spreco. Si dimentica un problema, un pezzo di storia, una responsabilità ma, soprattutto, si sfugge all'idea dell'errore. E quindi si rinuncia alla possibilità di spiegarlo. Così come il comunismo è diventato un argomento fastidioso, fastidiosi sono diventati anche i precursori della sua critica.
Per quello che riguarda il passato, ora sappiamo perché Koestler, insieme con gli altri 'rinnegati' e con gli altri testimoni, non riuscì a trasmettere il problema di quell'errore quando avrebbe avuto un'utilità. Per quanto forti, le idee e la scrittura sono state più deboli dei fatti. E i fatti furono l'abbattimento del mito di Stalin, il '56 ungherese, il muro di Berlino, il fallimento di Krusciov, il '68 di Praga. Sempre per quello che riguarda il passato, sappiamo anche che - problema nel problema - la rottura con il comunismo, inteso come comunismo sovietico, per una generazione di europei significò la fuga nell'altro errore, il comunismo terzomondista, il comunismo cinese. Cioè non significò la rottura con il totalitarismo, bensì lo scisma all'interno della stessa chiesa. Fu così che i precursori rimasero negli interstizi della politica e della cultura. Vittime di una fuga da un errore all'altro. Ma non solo. Forse, sul versante opposte, furono vittime anche di un anticomunismo - questo è il dubbio - che non riconobbe loro una piena dignità e che troppo a lungo è stato anch'esso una 'mezza verità'.
Infine un altro dubbio, molto personale. Penso che possa davvero amare Koestler - il quale tra l'altro aveva la dote non comune di tradurre in un linguaggio molto semplice dei concetti molto intelligenti - solo chi riesce a rispecchiarsi nei suoi racconti e nelle sue analisi. In altre parole, solo chi è stato comunista, solo chi in qualche modo se ne è chiesto le ragioni, solo chi ha provato a spiegarsi l'errore e a farci i conti. Un target preciso, almeno qui in Italia. Quando a cavallo del 1989 cominciarono a essere ripubblicati i suoi scritti autobiografici - se mi è consentito un ricordo - mi accorsi che Schiuma della terra era un titolo che mi suonava famigliare e che dalla memoria visiva richiamava una copertina bianca, con i caratteri scuri, quelle degli anni Cinquanta. Era uno dei libri che - avrò avuto dieci anni - avevo spulciato nella voluminosa biblioteca di mio nonno, Michele Giua, socialista di una generazione che era passata attraverso l'infatuazione per Sorel, aveva conosciuto il massimalismo e, alla fine, quando la sinistra era stata egemonazzata da Togliatti, era stata attratta dal riformismo. Mi chiesi perché non lo avessi poi trovato altrove e pensai che per trent'anni non mi era capitato più di imbattermi in Koestler o di discuterne. Solo quando si parlava di Orwell poteva accadere che qualcuno ne associasse il nome. E credo che questa assenza non fosse il risultato di una mia disattenzione. Fino al grande ritorno del 1989, quando i testi dell''anticomunismo democratico' cominciarono a infiltrarsi tra gli sconfinati recinti della sinistra. Forse tardi per avere un effetto politico, visto che erano la critica di una storia ormai finita. Ma ancora in tempo - come del resto avviene ora con la lettura dello Yogi e il Commissario - a porre nuovi problemi.
 

 


KOESTLER Un profeta contro il comunismo

Da: da il Corriere della Sera
Categoria: Articolo stampa
Nome remoto: 213.254.3.151
Data: 09 Apr 2002
Ora: 13:36:19
 

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Esce lo «Yogi e il Commissario», una raccolta di saggi degli anni Quaranta in cui l’autore di «Buio a mezzogiorno» analizza la crisi del socialismo reale

KOESTLER Un profeta contro il comunismo

 

A più di cinquant’anni dalla sua prima, fuggevole comparsa italiana, torna in libreria per i tipi di liberal libri, con una lucida introduzione di Renzo Foa, Lo Yogi e il Commissario di Arthur Koestler: una raccolta di articoli scritti tra il ’42 e il ’45 che, come dirà vent’anni dopo lo stesso Koestler, costituiscono prima di tutto «la testimonianza del cammino di un pellegrino perplesso» dalle grandi illusioni degli anni Trenta sino ad una «età dell’ansia» nella quale siamo, per tanti aspetti, tuttora immersi. Molto, ma molto di più di un libro politico, e non solo perché vi si affrontano una quantità di temi che con la politica strettamente intesa poco hanno da spartire. Anche, e forse soprattutto, in queste pagine l’autore di Buio a mezzogiorno stringe d’assedio silenzi, reticenze, «mezze verità» che tanti di noi continuano a portarsi appresso, nonostante le dure repliche della storia, le revisioni e persino le abiure. Stiamo parlando, naturalmente, di chi, come Koestler, è stato comunista, seppure in tempi di pace e comunque in frangenti infinitamente meno drammatici. Perché proprio chi è stato comunista sente, o dovrebbe sentire, un debito particolarissimo verso questo straordinario intellettuale (e uomo d’azione) del Novecento, capace come nessun altro di rappresentare assieme la grandezza delle speranze e l’orrore degli esiti del comunismo, dopo aver condiviso integralmente quelle e aver impietosamente vivisezionato questi. E capace anche come nessun altro, vorremmo aggiungere, di fotografare con dolore non disgiunto da ironia uno stato d’animo che in molti sopravviverà di gran lunga all’età del ferro e del fuoco: «Nel combattere contro i comunisti», scrive nel ’41 in Schiuma della terra l’ex comunista e anticomunista Koestler, «si è sempre imbarazzati dai propri alleati». Ma qui c’è dell’altro, molto altro. Perché Lo Yogi e il Commissario ? Perché un ipotetico «spettroscopio sociale», annota (genialmente) Koestler, individuerebbe alle estremità dello spettro proprio questi due tipi ideali. Da una parte il Commissario (il commissario politico, il rivoluzionario di professione), convinto che il cambiamento vada introdotto «dall’Esterno», che «tutti i malanni dell’umanità, costipazione e complesso edipico compresi, possano essere e saranno guariti dalla Rivoluzione», che «questo fine giustifichi tutti i mezzi». Dall’altra lo Yogi, convinto, esattamente al contrario, che «niente possa essere migliorato da un’organizzazione esterna, e tutto da uno sforzo individuale interiore», che l’idea di violenza vada respinta sempre e comunque, che «il tributo imposto ai contadini indiani dagli usurai non possa essere abolito da una legge finanziaria, ma unicamente attraverso mezzi spirituali». Sia il Commissario sia lo Yogi, con i loro dilemmi, si trovano inevitabilmente di fronte un loro pendio, lungo il quale sono dannati a precipitare. «Un pendio porta all’Inquisizione e alle Purghe; l’altro alla passiva sottomissione alle baionette e agli stupri, ai villaggi privi di fognature, ai parti nella sporcizia e al tracoma. Lo Yogi e il Commissario possono dichiararsi pari». Ma non lo fanno. Si attraggono e si respingono quasi secondo un moto pendolare, provocando «migrazioni di massa», in particolare tra gli intellettuali. Cosicché, osserva Koestler, se «il Diciannovesimo Secolo ha portato a una sorta di generale spostamento verso il Commissario, l’estremità infrarossa», «il clima attuale favorisce la direzione opposta», quella che porta verso lo Yogi, «l’estremità ultravioletta». Può darsi, anzi, è pressoché certo che la storia (anche la storia degli intellettuali) abbia provveduto a rimarcare l’inesattezza del giudizio: nel ’42, quando Koestler scrive questo articolo, il Commissario sta facendo molti più proseliti che in passato. A colpire il lettore è però il modo tutto particolare, modernissimo, in cui Koestler tiene insieme (diciamolo con parole antiche) il disincanto e un impegno che non viene messo affatto in discussione dalla consapevolezza che il Dio del Commissario è fallito. «Personalmente, vorrei che si potesse scrivere un onesto romanzo ultrarosso senza un finale ultravioletto», scrive: «Ma non si può. Chi si attacca ciecamente al passato sarà lasciato indietro, ma chi si abbandona troppo facilmente sarà portato via come una foglia secca». A dare ulteriore drammaticità a questo ragionare, e a complicarlo, c’è, ovviamente, la guerra. La guerra per come la vive chi, è il caso del pur disincantato uomo di sinistra Arthur Koestler, «ha sognato e lavorato per un’Europa unificata, affratellata, socialista»; ha vissuto il fallimento della Seconda e della Terza Internazionale; sa che in campo ci sono le democrazie, ma anche che a sconfiggere il fascismo in Grecia sono le truppe di un dittatore di nome Metaxas, e che Stalin è un tiranno sanguinario, non lo zio Joe. Koestler non ha dubbi sulla vittoria: si interroga, invece, sul dopo. La pace, scrive, la faranno i conservatori: «Non risolverà in nessun modo i problemi delle minoranze nel complicato puzzle europeo, non troverà un rimedio alla malattia insita nel sistema capitalistico, ma porterà la salvezza a milioni di uomini le cui vite sembravano condannate, e assicurerà loro un minimo di libertà. In breve, sarà una nuova edizione, forse leggermente migliorata, del vecchio ordine prehitleriano, un post-scriptum del Diciannovesimo Secolo alla prima metà del Ventesimo, la cui storia è stata scritta in modo abominevole». Adesso sappiamo che le previsioni del pessimista Koestler erano sin troppo ottimistiche. Ma lo sentiamo vicino, quasi amico, quando esorta a ricordare «ogni mattina che ci svegliamo senza una sentinella della Gestapo sotto la porta», che «quel post-scriptum del Diciannovesimo Secolo ci ha salvato la pelle». E prevede che i suoi amici di sinistra gli tireranno per questo «pietre e insulti».

 

Il libro di Arthur Koestler, «Lo Yogi e il Commissario», esce oggi da liberal libri (pagine 182, euro 13).