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LA REPUBBLICA

VENERDÌ, 02 DICEMBRE 2005
 
Pagina 49 - Varie
 
Quel viaggio nel totalitarismo
 
 
 
Al culmine della celebrità e dell´impegno scomparve il 4 dicembre 1975
Il pensiero di un´ebrea esule, che analizzò gli orrori della politica
 
JULIA KRISTEVA

Hannah Arendt deve la propria celebrità all´opera di antropologia politica intitolata Le origini del totalitarismo. Il saggio cerca di descrivere la cristallizzazione di un male assoluto: l´idea e la sua pratica attuazione nel XX secolo che l´umanità sia superflua. Facendo leva sull´economia, la politica, la sociologia, persino sulla psicologia sociale, attingendo alla letteratura e alla filosofia, la Arendt racconta una Storia fatta di storie personali e collettive: i "dati" transitano attraverso l´immaginario e sono strumentalizzati dall´ideologia più mortifera che l´umanità abbia mai conosciuto, poiché arriva al punto di decretare che alcuni esseri umani sono superflui. Alcuni, oppure, sotto la spinta dell´utilitarismo e dell´automazione e a lungo andare tutti gli esseri umani? Questo è il timore, per nulla, dissimulato, della Arendt.
L´ambizione di rintracciare le "origini" o la "natura" di tale orrore è temperata dalla sua perspicacia intellettuale: poiché la categoria della "causalità" è estranea al campo delle discipline storiche e politiche, bisogna individuare alcuni "elementi" che divengono un´«origine degli eventi solo quando si cristallizzano in forme fisse e definite. Allora, e solo allora, sarà possibile seguire all´indietro la loro storia. L´evento illumina il suo stesso passato, ma non può mai essere dedotto da esso». L´autrice ammette dunque che la "cristallizzazione", da lei individuata ripercorrendo gli eventi a ritroso, alla ricerca nel passato degli "elementi" premonitori, è simile a un processo dell´immaginazione. Stendhal non parlava forse della nascita dell´amore come di una "cristallizzazione"? Per altro verso, rivela che la sua intenzione era quella di fornire gli "elementi" (the elemental structure) «che alla fine si cristallizzano» nel totalitarismo. Claude Lévi-Strauss aveva appena pubblicato Le strutture elementari della parentela (1949) e lo strutturalismo cominciava ad assumere importanza, analizzando gli elementi costitutivi del «pensiero selvaggio».
Solo lo sfociare parossistico degli "elementi" in "eventi" porta a indicare i primi come ingredienti dei secondi. Quanto al processo della "cristallizzazione" in sé, il ricercatore non può che raccontarne la storia, basata su fatti incontestabili e su interpretazioni determinate dalle proprie personali implicazioni, dalle proprie scelte politiche e dai propri giudizi personali, che non sono direttamente morali, ma dipendono da una serie di parametri. La Arendt ha rifiutato ogni "impegno" alla maniera di Sartre o di qualunque altra "nuova sinistra", per rivendicare unicamente il ruolo dello "spettatore" esterno all´azione; solo lo spettatore può giudicarla con imparzialità: è questa la condizione necessaria che permette al giudizio di diventare un´azione, la più pertinente di tutte. La lucidità della Arendt su tale conseguenza, la sua passione per la verità, rivelata come se fosse al tempo stesso una verità personale (quella di un´ebrea sfuggita alla Shoah) e una necessità storica universale (quella del giudizio più informato e più rigoroso, perché non si limita a essere coerente, ma si basa su un imperativo morale che altro non è che l´amore per il prossimo), fanno di questo libro una testimonianza unica. Oggi, a distanza di tempo, senza trascurare la pertinenza delle analisi storiche e il vigore del pamphlet moralista - salutati o criticati fin dalla pubblicazione - la qualità essenziale di questo testo ci sembra consistere prima di tutto nell´arte di raccontare il romanzo del secolo: Le origini del totalitarismo si presenta infatti come una serie di storie individuali e collettive intervallate dalla storia personale della narratrice, anche lei alle prese con la "cristallizzazione".
«La parola "ebreo" non veniva usata quando ero bambina», ricorda Hannah Arendt in un´intervista. Allevata da una madre che «non era affatto religiosa», ebbe un´ "illuminazione" sulla sua identità di ebrea solo ascoltando le battute antisemite dei bambini per strada, mentre la raccomandazione materna era, in quei casi, di non abbassare la testa, ma di difendersi. Martha prendeva più sul serio le affermazioni antisemite dei professori di liceo: «Avevo l´ordine di alzarmi immediatamente, abbandonare la classe, tornare a casa e fare un resoconto dettagliato [zu Protokoll [...] geben] di ciò che era avvenuto». La madre scriveva allora una delle sue numerose lettere di protesta, e Hannah godeva di un giorno di vacanza.
Accettare che si affermi qui una definizione laica, non religiosa, dell´identità ebraica, si rivela insufficiente: io non mi definisco come qualcuno che condivide una religione, ma accetto la mia identità difendendomi da sola, e io scrivo - noi scriviamo - a chi di diritto, perché io credo, noi crediamo - che sia possibile giudicare le ingiustizie. In uno scambio di opinioni ormai celebre con Scholem, dopo lo scandalo suscitato dal suo resoconto del processo a Eichmann, la Arendt respinge un presunto rifiuto laico della religione di cui alcuni sionisti si servivano con l´obiettivo più o meno confessato di trasferire in realtà lo spirito religioso al culto dello Stato o del popolo provvidenziali: senza Dio, il popolo è il nostro Dio. Contraria a tale atteggiamento, sostiene una posizione originale: rifiutando il nichilismo, per lei è importante ripensare la tradizione («credere in Dio») interrogando continuamente la trascendenza. Questa è, secondo la Arendt, la condizione indispensabile perché ogni individuo sia rispettato e possa rinascere all´interno di una comunità politica plurale.
Pur tenendo conto del fatto che nasciamo a ogni atto del nostro pensiero, la Arendt si vide segnata dall´educazione dei genitori e dalla lingua materna. A ciò si aggiunge la convinzione che l´ebraicità sia un "dato di fatto", siano "fattezze": il che la fa apparire tale nello spazio, sempre politico, degli altri. Né determinazione biologica, sulla quale non si dilunga mai (probabilmente la considerava una semplice zoe che ogni essere vivente, per umanizzarsi, deve trasformare in bios) né particolarità psicologica (che chiama "vizio", accusando gli ebrei assimilati e i loro assimilatori falsamente filosemiti di compiacersene per meglio braccare l´intruso, una volta arrivato il momento), l´ebraicità è uno di quei doni che si ricevono alla nascita, per i quali si deve essere riconoscenti e sui quali è opportuno riflettere e giudicare. E´ quello che la Arendt definisce un "problema politico": «Lei mi chiede se sono tedesca o ebrea. Per essere onesta, devo dire che da un punto di vista individuale e personale, la cosa mi è del tutto indifferente [...]; sul piano politico, parlerò sempre soltanto a nome degli ebrei», scrive a Jaspers. Più avanti, ribadisce la propria posizione: «Ora l´appartenenza all´ebraismo era diventata anche per me un problema, e questo problema era un problema politico: puramente politico!».
Impietosa con i nemici del popolo ebraico, non lo è di meno con i suoi pari: il caso Eichmann ne sarà la prova.