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Una inutile prova d’appello

    Cura Di Bella: la Regione Lazio riapre la sperimentazione

La cura di Di Bella, un caso politico nel 1998 quando l'allora ministro della Sanità decretò la conclusione della sperimentazione dopo che i protocolli clinici avevano dato esito negativo, torna alla ribalta in seguito alla decisione della Regione Lazio di finanziare una nuova ricerca. La cura, com'è noto, è un cocktail di sostanze di per sé sprovviste di effetti terapeutici ma anche di principi tumorali efficaci usati nelle terapie tradizionali: al centro di polemiche che hanno visto lo scontro della cosiddetta medicina "ufficiale" con i sostenitori della terapia, tra cui le persone colpite da tumori e i loro parenti, la cura Di Bella ci pone di fronte a un conflitto di poteri che non riguarda soltanto la medicina "ufficiale" ma anche i limiti dei poteri locali e di una gestione razionale dell'innovazione.
I sostenitori della terapia Di Bella affermano che la sperimentazione voluta nel 1998 dal ministero della Sanità non era stata condotta correttamente, che alcune sostanze non erano state preparate secondo regole non a tutti evidenti e che non si era tenuto conto delle guarigioni avvenute al di fuori dei protocolli sperimentali. In realtà la sperimentazione su questo metodo non è stata diversa rispetto a quella che riguarda altri farmaci o associazioni farmacologiche ed è stata vagliata anche al di fuori del nostro paese senza che emergessero risultati positivi. Che esistano alcune lobby legate all'industria farmaceutica è fuori discussione, il che può portare acqua al mulino degli scettici o dei fautori della terapia: ma è anche vero che i protocolli sperimentali italiani sono in tutto e per tutto simili a quelli di altri paesi, che le informazioni sugli effetti delle sostanze terapeutiche circolano senza restrizioni, che esistono riviste scientifiche dove prima o poi la verità viene fuori su ciò che funziona e ciò che non funziona.
Dal punto di vista tecnico-scientifico non vi sono quindi motivi per un "ricorso in appello" e mi pare negativo suscitare le speranze di quanti si attendono miracoli da un "metodo" che, come altri, accende le speranze di chi è disposto a tutto. Dal punto di vista politico, il caso Di Bella ripropone i limiti dei localismi: si tratti di sperimentare i farmaci, di politiche agricole o ambientali, esistono limiti alle iniziative locali. Il metodo in questione aveva già ricevuto un parere negativo da una commissione nazionale e in modo altrettanto negativo si era espressa, nel marzo scorso, la commissione oncologica regionale: sino a che livello si può cercare la disponibilità di strutture locali per sperimentare il metodo in questione? Più in generale, è possibile ignorare i pareri di organismi dotati di una ufficialità nazionale e regionale per cercare risposte o adesioni da altre istituzioni, più propense a raccogliere una proposta o un'indicazione politica?
Io ritengo che questo caso, difficilmente ipotizzabile in altri paesi, sollevi un tema ancora più vasto: quello dei rapporti tra conoscenza e politica e, più in generale, dei rapporti tra opinione pubblica e istituzioni. Il mondo in cui viviamo è estremamente complesso ed è ben difficile, per il singolo, decidere con cognizione di causa quali scelte siano opportune e giuste. Per questo motivo ci si affida agli esperti di cui, ovviamente, si può dubitare: ma non è buona prassi ignorarne il parere o prendere decisioni politiche cui manchi un retroterra obiettivo. Più che i pazienti, il caso Di Bella dovrebbe quindi interessare i politici in quanto sottolinea i pericoli di una conflittualità tra istituzioni e dell'uso delle leve emotive e del consenso in rapporto a decisioni che dovrebbero basarsi su un metodo razionale e condiviso.