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Luca Coscioni

 

1967-2006


Il testamento
Io non sono libero
Luca Coscioni
 

  da l'Unità - 21 febbraio 2006


Sono affetto da 10 anni e mezzo da sclerosi laterale amiotrofica, malattia che lascia intatte le facoltà dell'intelletto e distrugge tutto il resto.
Costringe chi ne è affetto alla progressiva ed inesorabile immobilità, fino a causarne la morte.
Non mi sento libero. Non sono libero.
Perché, ancora nel nostro Paese, le persone disabili non possono con una coscienza di libertà propria, essere soggetti attivi nel processo sia di scelta che di consumo di servizi e strutture libere per tutti gli altri individui?
Parlo intenzionalmente di disabilità e non "di abilità diverse", proprio perché, sebbene la situazione sia migliore che in passato, la cultura socio-politica italiana nei confronti della disabilità, è ancor piena di pregiudizi, dove i rapporti civili e sociali, il rispetto della dignità umana, le libertà individuali non sono affatto garantiti.

«Questa democrazia messa in discussione»

È un problema dunque di libertà degli individui che va di pari passo con la responsabilità , perché in un Paese democratico non può esserci libertà senza responsabilità.
Si perché è proprio la democrazia, nel nostro Paese, ad essere messa in discussione, dove l'acquisizione del sapere, la ricerca, risorsa inesauribile per la sopravvivenza dell'umanità, come luogo di discussione e di libertà su temi che riguardano direttamente la vita, la morte, la salute, la qualità della vita degli individui, è negata ad essa. Non può esserci dunque il superamento di nessuna barriera, ideologica, geografica, economica, razziale, politica, se non consideriamo le barriere invisibili per chi non le soffre, elementi fondamentali della libertà personale.
E quando non si superano, si parla di violenza e di crimine contro l'uomo.
Con l'Associazione che porta il mio nome, per la libertà di ricerca scientifica, alla violenza sui diritti fondamentali dei cittadini, ho risposto con il mio corpo che molti, forse, avrebbero voluto ridurre ad una prigionia senza speranza, e rispondo oggi, con la mia sete d'aria, perché è il respiro a mancarmi, che è la mia sete di verità, la mia sete di libertà. Mi auguro che i malati come me, possano armarsi di forza, di coraggio e di uscire dall'isolamento delle mura domestiche, per lottare per la propria esistenza, per il riconoscimento della stessa, per la libertà, come solo chi ne è stato privato è capace di farlo, per la libertà di scienza, per la libertà di ricerca, per la libertà di coscienza, per quel valore di libertà che non può essere teorizzato, ma semplicemente e dignitosamente vissuto.
Buon lavoro, ho concluso.

(Questo l’intervento che Luca Coscioni aveva preparato e che sarebbe stato letto oggi alla Prima Conferenza Organizzativa Regionale sulla SLA organizzata dall’Associazione Viva la Vita in collaborazione con l’Assessorato alla Sanità e quello alle Politiche Sociali della Regione Lazio, il Dipartimento di Neuroscienze dell'Ospedale Gemelli e il Servizio di Telemedicina dell'Ospedale Pertini)


La battaglia di Luca
Scuse e ringraziamenti
Furio Colombo

Verrà un giorno in cui certi vescovi si toglieranno la maschera cattiva di Marcello Pera, torneranno a sentire la religione come legame fraterno, e chiederanno scusa a Luca Coscioni, morto di un dolore atroce del quale mille voci hanno detto «Va bene così, soffra pure, vietato aprire i frigoriferi zeppi di cellule staminali destinate alla distruzione».
Infatti, nel mezzo di una civiltà della ricerca che, certo, - ci avevano detto in passato - è voluta da Dio, è proibito cercare la cura del male. In attesa di quelle scuse, che certo verranno, anche se tristemente sfasate nel tempo, tocca a noi cittadini di una Repubblica fondata sul divieto, chiedere scusa a Luca Coscioni per il modo in cui è stato lasciato senza risposta il suo grido di aiuto, che non era per sé ma per la lotta a malattie finora incurabili, per il modo in cui è stato abbandonato e ignorato, come se Dio non lo avesse messo al mondo con il suo dolore e il suo male, e la sua e la nostra intelligenza capace di lottare contro quel male, se solo fosse permesso.

Diciamo grazie alla sua dolcezza, alla sua tenacia, alla sua appassionata perorazione che è stata un inno alla vita, lui sì, presidente dei presidenti del diritto alla vita, lui nato e vivo e morente e abbandonato.
Per merito di Luca Coscioni possiamo sperare di apparire meno incivili agli occhi del mondo industriale e democratico - in gran parte cristiano - che permette la ricerca, la finanzia, la vuole.
Noi dobbiamo un grazie affettuoso e solidale a Maria Antonietta, compagna di Luca, che gli è sempre stata accanto con una incomprensibile serenità, vita di una vita esemplare e ostinata.
Se tutta questa storia, per un miracolo, si fosse svolta in una comunità di credenti, oggi si parlerebbe di «odore di santità». Certo Luca e Maria Antonietta ci dicono che esiste una santità laica. Quando qualcuno usa la parola sprezzante “laicismo” e vi intima di esibirne i valori dite: Luca Coscioni.
E abbiamo il dovere di ricordare chi, in un deserto di distrazione, ha raccolto il grido di Luca Coscioni, lo ha invitato e ospitato in una casa politica e ha fatto sedere l'ospite sofferente a capo tavola.
Ognuno ha diritto a giudizi e pregiudizi sui Radicali. Ma è bene non dimenticare che sono stati i Radicali di Pannella, Bonino, Capezzone e Marco Cappato a prendersi in carico ciò che restava di una voce e di una vita. E a fare in modo che quella voce artificiale e quella vita al limite del sopportabile restassero bene al centro della scena pubblica italiana.
A loro diciamo grazie a nome di coloro che potevano non sapere e hanno saputo, di coloro che potevano non capire e hanno capito, di coloro che potevano lasciar perdere e si sono impegnati in solidarietà, visione e speranza.
Non c'è niente da dimenticare in questa storia. E per fortuna il cammino continua.
furiocolombo@unita.it

 


LA MORTE DI COSCIONI. IL CORDOGLIO
L'annuncio a Radio Radicale: «Luca è morto»
Il presidente del partito era malato di sclerosi. Le lacrime di Pannella, cordoglio di tutto il mondo politico
 

  dal Corriere - 21 febbraio 2006


ROMA — Come ogni mattina. «Come ogni mattina, intorno alle 10 e mezzo — racconta Marco Cappato, dirigente radicale — abbiamo chiamato la casa di Orvieto per la riunione dell'Associazione Luca Coscioni. Lui ascoltava, non poteva intervenire...». Ieri nell'appartamento dietro al Duomo, si sentiva il terrore di Maria Antonietta, la moglie: «Luca! Luca, dai, dai...». Poi la malattia di Luca Coscioni ha fatto venir meno ai polmoni la possibilità di respirare, è finita a meno di 39 anni la sua vita. Lo avevano paragonato a Superman, vale a dire all'attore Christopher Reeve, poiché come lui si batteva contro i tagli alla ricerca sulle cellule staminali. La malattia di Luca ha un nome così, Sla, sclerosi laterale amiotrofica. Coscioni era designato capolista per la Rosa nel pugno alle elezioni di aprile. Sarebbe stato eletto.
QUATTROMILA — Marco Pannella ha dato l'annuncio in diretta a Radio Radicale: «Luca è stato ammazzato anche dalla qualità di questo paese, della sua oligarchia che lo corrompe e lo distrugge». Fino a dieci anni fa la vita di Luca era normale, professore di Politica economica all'Università di Viterbo, marito felice di una ex allieva, Maria Antonietta. Poi la sentenza, malattia degenerativa delle cellule nervose cerebrali e del midollo spinale, quelle che muovono i muscoli volontari. Come altri quattromila italiani. Incidenza molto forte fra i calciatori. Unica speranza, la ricerca sulle cellule staminali, in Italia rallentata dall'impossibilità (legge sulla fecondazione artificiale) di sperimentare sugli embrioni. Coscioni ne aveva fatto una ragione di vita: «Non possiamo aspettare le scuse dei prossimi papi», dice uno slogan della sua associazione.
VOCE ROTTA — Nel pomeriggio, Pannella ricorda Coscioni e la voce spesso si rompe. Ricorda quando la lista radicale con il nome di Luca fu respinta, regionali 2005, dalle componenti cattoliche dell'Unione. Precisa che i Ds difesero fino all'ultimo quella lista. Ricorda che un anno prima Berlusconi non volle inserire Luca fra i membri del Comitato per la bioetica. Ma è un Pannella che concilia. Impressionato dalla «fiumana di dichiarazioni» in morte di Luca, «come quando se ne andò Alberto Sordi». Dice che lo hanno colpito le parole dei giovani di An e di Alessandra Mussolini. Ma ieri hanno dichiarato stima per Luca i presidenti Pera e Casini, Fassino e D'Alema, Rutelli e Prodi e Bertinotti. Anche Bondi, il ministro Storace e il premier Berlusconi: «Ha testimoniato il valore dei diritti civili che sono alla base della grande famiglia liberale». E il presidente Ciampi: «È stato un simbolo e un esempio».
Per molto tempo Coscioni ha comunicato grazie a un dito, batteva sul computer e un sintetizzatore gli dava voce. Negli ultimi tempi Luca si esprimeva spostando gli occhi su uno schermo con le lettere dell'alfabeto. Rita Bernardini ha ricordato che grazie alle sue battaglie i malati nelle sue condizioni potranno votare. Domani, a Orvieto, camera ardente e funerali.
Andrea Garibaldi


IL RICORDO
«Mi inviò un'email, così l'ho scoperto»
Dentamaro: il giro elettorale su un'utilitaria, lui mangiava solo gelati

ROMA — Cominciò così, era la fine dell'ottobre 2000 e i radicali decisero di eleggere on line il loro comitato di coordinamento. Una lista si chiamava «Radicali 3000», da un'idea di Bruno Zevi, che andava oltre il secondo millennio, e a quella lista arrivò una mail di adesione: «Sono Luca Coscioni, ho 33 anni, vivo a Orvieto. Sono impegnato nella lotta quotidiana alla sclerosi laterale amiotrofica. Il mio programma può essere riassunto in una parola: antiproibizionismo. In particolare, antiproibizionismo nella scienza».
Cominciò così, lo racconta Gaetano Dentamaro, 43 anni, militante radicale, promotore di «Radicali 3000»: «Eravamo antiproibizionisti su tutto, droga, scienza, diritti religiosi e politici, mettemmo Luca in capo alla lista».
Coscioni s'era presentato nella sua regione, l'Umbria, nella lista Bonino e aveva ottenuto 179 preferenze, ma quella
mail gli apre la porta della politica nazionale. Ecco il ricordo di Dentamaro: «Elezioni 2001. Siamo stati un mese in giro per l'Italia, io, Luca e le nostre mogli, Antonella Spolaor e Maria Antonietta Farina, su una Ford Escort familiare. Lui poteva bere solo liquidi e noi avevamo dietro un frullatore. Spesso arrivavamo tardi al momento di mangiare. Andavamo nei ristoranti: "Possiamo avere un filetto cotto, così poi lo frulliamo dato che il nostro amico ha seri problemi?".
No, non si poteva, non si poteva quasi mai. Ci trattavano come zingari. Alla fine, Luca mangiò quasi soltanto gelati».
Prima del tour Luca era stato al Policlinico Gemelli, a Roma, visita neurologica. «Il medico gli disse: "Ma dove vai, un viaggio non ti farà guarire, la politica ti farà soltanto male..."».
Dice Dentamaro che la difficoltà di Luca era proprio questa, riuscire ad affermare il proprio diritto all'esistenza. E non sopportava di essere trattato come un bambino, con condiscendenza. «Luca diceva: "Perché tutti mi danno del tu, mentre a mia moglie danno del
lei? Perché sto in carrozzina?"».
In quella stessa stagione pre-elettorale ci fu un comizio in piazza del Quirinale che concludeva la campagna radicale contro il presidente Ciampi, sugli spazi per la propaganda. Luca parlava attraverso il sintetizzatore. Ma la manifestazione non era autorizzata, arrivò la polizia e portò via tutti. Luca rimase lì, sulla sua sedia. E fece pipì in piazza. Fu durante quella stessa campagna che mentre Emma Bonino faceva lo sciopero della sete, lui decise di autoridursi i farmaci contro gli spasmi muscolari: «Stava malissimo, era difficile "maneggiarlo", ma voleva dare il suo contributo».
Avendo deciso di non fare il malato che si lamenta steso su un letto, Coscioni si trovava a fronteggiare numerose «angherie», così le chiama Dentamaro. Ad esempio, all'hotel Senato di Roma era costretto a entrare dal retro. «Non si riusciva a ottenere che fosse installata una pedana all'ingresso. "Non vogliamo impressionare gli altri clienti", dissero i responsabili dell'accoglienza».
Poi, c'era quell'altra storia. «Un ritornello: Luca era strumentalizzato da Pannella per i suoi fini politici. Come se lui non fosse nelle sue piene facoltà cognitive. Quando andava in televisione lui doveva prepararsi dei testi pronti, altrimenti avrebbe impiegato troppo tempo. Ecco, sul plagio di Pannella aveva sempre una risposta preconfezionata, la domanda era sicura».
Ha ricordato Coscioni in uno dei suoi ultimi scritti: «La sclerosi non limita le facoltà dell'intelletto, rende lucida la coscienza di sentire la disperazione e la paura del tempo della vita».


LA MORTE DI COSCIONI. LA STORIA
Coscioni, la battaglia senza voce
Dieci anni di lotta per la ricerca.
Con lui 50 premi Nobel
Aldo Cazzullo

Si allenava per la maratona di New York, quando per la prima volta sentì le gambe di marmo. All'università affascinava le studentesse — aveva sposato una di loro, Maria Antonietta Farina — con la voce che d'un tratto si era fatta flebile, sino a sparire. Cominciò allora la seconda breve vita di Luca Coscioni. Una morte pubblica, messa al servizio della politica e del partito radicale. Un politico senza voce, senza parola, impresentabile in televisione, che parlava con l'accento metallico di un sintetizzatore. Una politica fatta con il proprio corpo, attraverso la propria malattia. In un mondo che non era il suo e che l'aveva respinto, senza dichiararlo, ricorrendo a cavilli e pretesti. Gli unici a trovargli un posto — da presidente — erano stati gli irregolari come lui, gli imprevedibili, i fuori dai giochi: i radicali.
Due mesi dopo la prima fitta al ginocchio destro, nell'autunno del '95, un neurologo scrisse la diagnosi in una busta chiusa, da consegnare al medico di famiglia. «La busta conteneva la mia condanna a morte». Sclerosi laterale amiotrofica.
Una malattia degenerativa: non poteva che peggiorare.
I motoneuroni, le cellule nervose che trasmettono i comandi dal cervello ai muscoli, avrebbero funzionato sempre meno. Respirare, parlare, deglutire, mangiare, le cose più banali si facevano a poco a poco impossibili. «Come vivere prigioniero dentro un gigante di pietra». Aveva 28 anni.
Racconta Marco Pannella che la prima mail arrivò nella primavera del 2000. «Avevamo deciso di eleggere parte del nostro consiglio nazionale via Internet». Coscioni spedì un messaggio, propose una lista, fu eletto. «L'anno dopo lo volli capolista alle politiche, nel posto che era stato di Leonardo Sciascia. Dissero che lo avevamo strumentalizzato. Rispondeva che era lui a strumentalizzare noi. Non era un testimone; era un lottatore. A trattarlo da malato si arrabbiava come un bufalo. Talvolta qualcuno chiedeva alla moglie se riuscivano a fare l'amore. Lui replicava che tutto il kamasutra magari no, ma comunque se la cavava meglio degli interlocutori curiosi».
Quando perse la voce cominciò a parlare attraverso il sintetizzatore. Coscioni digitava al computer, la voce metallica traduceva il suo pensiero in suoni comprensibili. Fino all'anno scorso muoveva ancora l'indice della mano destra, riusciva a comunicare da solo. Una parola ogni trenta secondi. Poi, nei giorni della campagna per il referendum sulla procreazione assistita, immobili ormai le mani, aveva inventato con la moglie un nuovo sistema: Maria Antonietta disponeva le lettere dell'alfabeto sul tavolo, lui le indicava con lo sguardo. Una parola al minuto. Un politico abituato a dosare il linguaggio. «Il deserto è entrato dentro di me, il cuore si è fatto di sabbia».
Già nel 2001 la sua candidatura fu sostenuta da 50 premi Nobel e centinaia di scienziati. Alla fine erano 2.400 ad aver aderito all'associazione che porta il suo nome, da Dulbecco a Veronesi. Con Saramago, Nobel per la letteratura, comunista, erano diventati amici; il libro di Coscioni, «Il maratoneta», porta la sua prefazione. Uomini di scienza e di lettere avevano considerato il suo impegno politico come una speranza. Ma la politica, quella vera, l'aveva respinto, con autentico spirito bipartisan. «Due anni fa il centrodestra non lo volle nel comitato di bioetica — ricorda Daniele Capezzone —. Ufficialmente per mancanza di requisiti scientifici, anche se Luca era un precocissimo docente universitario, economia ambientale a Viterbo. In realtà per le sue posizioni eterodosse. E l'anno scorso la trattativa con il centrosinistra per le regionali fu fermata dal veto sul nomedella nostra lista, Radicali- Luca Coscioni. Evocava troppo direttamente il referendum».
Per il Vaticano lui non aveva invettive. Semmai, humour: «Non posso aspettare che i prossimi papi ci chiedano scusa». Sugli avversari coniava giochi di parole, li chiamava Bindibondi, dalla crasi tra la pasionaria Rosy e il devoto Sandro. Si batteva per l'abolizione della legge 40, in particolare le norme che vietano la ricerca sulle migliaia di embrioni destinati a non uscire mai dai congelatori, se non per essere gettati via. Lo spiegava con pazienza, senza sprecare le parole che gli costavano energia e tempo: «Le cellule staminali, ricavate da embrioni ai primi stadi di sviluppo, possono essere usate per riparare organi o tessuti danneggiati. Potrebbero curare malattie come l'infarto, il diabete, il Parkinson, l'Alzheimer, le lesioni del midollo spinale, la sclerosi laterale amiotrofica». La sua la metteva per ultima. Molti cattolici si schierarono dalla sua parte. Altri contro. «Non posso credere che soffrano per l'embrione. La sofferenza, la compassione per gli altri sono legati a sentimenti, idee, emozioni che si incrociano nel mondo delle persone, non in cellule osservate al microscopio».
A votare per il referendum l'aveva portato di peso la moglie. «Come un cieco cui viene chiesto cosa prova davanti a un tramonto». L'ultima volta che l'hanno visto era a Orvieto, la sua città, al convegno della sua associazione, nel dicembre scorso: almeno il primo giorno, non voleva mancare. L'ultima volta che hanno sentito il sintetizzatore, considerato ormai la sua vera voce, è stata la settimana scorsa, al convegno di Roma per la libertà della ricerca scientifica. «Non ho paura della morte. Forse perché, a volte, penso di essere già morto».