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Ricordo di ARMANDO TORNO
In Il Corriere della sera 30 dicembre 2004


FIRENZE
- Con la morte di Eugenio Garin scompare uno dei più grandi studiosi italiani del Novecento, uno storico e un curatore di testi che per quasi una settantina d’anni ha insegnato il perenne valore di Umanesimo e Rinascimento. Un uomo che non riuscì a invecchiare, sempre attuale con i suoi studi che spaziavano dalla filosofia inglese a quella francese; inoltre ci ha lasciato una Storia della filosofia italiana che è diventata un punto di riferimento indiscutibile. Garin ha fatto apprezzare al nostro tempo figure come Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, Coluccio Salutati, ha spiegato il valore culturale dell’astrologia come nessun altro, ha soprattutto insegnato che nella vita vale sempre la pena leggere le opere fondamentali. Se sommassimo quanto ha fatto direttamente e quello che ha ispirato, dovremmo convenire che Garin ha dato alla cultura italiana qualcosa che non muore. Non a caso, il primo volume delle Opere mnemoniche di Giordano Bruno , uscito in questi giorni da Adelphi, è dedicato a lui, maestro riconosciuto di questo genere di edizioni.

Garin in una foto d'archivio


Ma tali notizie, che vengono alla mente mentre le agenzie di stampa nella notte diffondono la sua morte, sono soltanto un misero cenno rispetto al lavoro svolto da Garin. Egli era diventato, soprattutto dopo la scomparsa di figure come Abbagnano, Dal Pra e Geymonat, un vero e proprio punto di riferimento. A dispetto dell’età che avanzava, egli voleva curare le opere come se fosse la prima volta; desiderava rivedere ogni cosa, rimeditare ancora una volta le sue traduzioni, ricontrollare una citazione come uno studente. Recentemente gli fu offerta per i Classici Utet la possibilità di ripubblicare quella serie di opere di Pico della Mirandola che aveva curato per Vallecchi agli inizi degli anni Quaranta nella collana dedicata al pensiero italiano. Ma con sorpresa di tutti rispose che lo avrebbe fatto volentieri soltanto dopo i ripensamenti e le verifiche di cui dicevamo. La sorte non gli ha lasciato né la salute né il tempo.

Garin è importante per la nostra cultura perché come nessun altro ci ha insegnato a leggere Gramsci e Gentile, perché ci ha lasciato una raccolta di opere di Cartesio che è esemplare, perché ha spiegato in che cosa consisteva il valore filosofico del Rinascimento italiano. Ha diretto per Laterza (editore che ha in catalogo molti suoi titoli) la compianta collana dei Classici della Filosofia dopo la scomparsa di Benedetto Croce, pubblicando sempre quei testi fondamentali che mancavano. È stato poi un testimone morale unico. Nei momenti di crisi era il rifugio ideale: all’intervistatore sapeva sempre spiegare quel che stava accadendo e mai con vuote formule. Così, Garin sapeva ammirare Gentile ma scelse l’antifascismo; si avvicinò alla cultura marxista ma non accettò le riduzioni della contestazione e cambiò università in quegli anni per continuare a studiare. Maestro di metodo, nel delineare la via battuta per la sua Storia della filosofia italiana (edita da Einaudi) confessava di aver rivisitato le figure attraverso i «limiti di esperienze politiche o di meditazioni personali, morali e religiose, piuttosto che affrontati sul terreno metafisico». Un equilibrio raro, una capacità unica nel distinguere questi aspetti.

Fu un uomo che seppe combattere il pessimismo con la volontà e che riusciva ad affascinare chiunque dopo poche parole. Chi scrive ha sempre avuto pudore nel rivolgergli una richiesta, ma Garin ha risposto ogni volta positivamente, con tono tranquillizzante. Sapeva, come i veri maestri, mettere sempre l’interlocutore perfettamente a suo agio: gli bastavano due o tre battute, un sorriso, un gesto.

Per il Novecento provò un innamoramento particolare e da questo secolo ebbe forse anche le sue più forti delusioni. Sentiva in esso, e nel realizzarsi di certi avvenimenti, il senso della sconfitta della ragione più che nei tempi bui della Seconda guerra mondiale. Continuò nonostante tutto ad amarlo, anche se la sua anima forse non si era mai allontanata dalla Firenze di Lorenzo il Magnifico.

EUGENIO GARIN di Claudio Cesa

(su segnalazione di Giancarlo Conti, sito http://www.arifs.it 

 

Ai primi di gennaio del 2004 è morto Norberto Bobbio; agli ultimi di dicembre se ne è andato Eugenio Garin. Se l'accostamento si impone quasi da solo, non è, soltanto per le coincidenze cronologiche, anche dell'anno di nascita (1909), quanto perché entrambi, per almeno un quarto di secolo, furono gli esponenti più illustri - diciamo pure i "maestri" - nel settore, amplissimo, degli studi da ciascuno coltivato; e lo furono per l'incisività, il ritmo, la mole del loro lavoro scientifico, la ricchezza di idee che ne fece ascoltati consiglieri delle più vive case editrici, la capacità di far fiducia a chiunque sembrasse loro capace di studi seri. Nel 1984, al convegno torinese per i 75 anni di Bobbio, Garin tenne una relazione che si apriva e si chiudeva con il nome di Aldo Capitini, quasi a ricordare la vicinanza delle loro posizioni morali alla fine degli anni trenta. Fu il ricordo di quegli anni, e della tensione, del primo decennio del dopoguerra, per un rinnovamento sociale e culturale del paese a mantenere vivo, nel mezzo secolo successivo, il loro impegno pubblico, non sempre nella stessa direzione, ma meno divergente di quanto, talvolta, allora, poté sembrare.

E un’altra analogia va rilevata: il loro (se è lecita questa espressione) radicamento territoriale: entrambi fecero i loro studi, e poi insegnarono per gran parte della loro carriera, nella stessa università: Bobbio voleva dire Torino, e Garin Firenze. Non c'è quasi istituzione culturale fiorentina della quale Garin non sia stato gran parte, la Biblioteca filosofica (finché sussistette), l'Istituto del Rinascimento, la Colombaria; ma il centro fu sempre la Facoltà di lettere, per un certo torno di anni la migliore d'Italia, ove Garin insegnò prima come incaricato, poi, dal 1949, come cattedratico, nella ormai mitica sede di S. Marco, poi, dal 1964, in quella di piazza Brunelleschi; in quanto delegato alla biblioteca, Garin vi aveva curato il trasferimento dei libri, e aveva costruito una splendida sala di consultazione per l'allora Istituto di filosofia. L’aula delle sue lezioni era sempre colma, e anche quando non aveva obblighi didattici non c’era quasi giorno che non venisse in facoltà; lo si vedeva in crocchio, con professori e studenti; lo si vedeva alle sedute di laurea, e alle commissioni di esami, ove non di rado impartiva, a uso del candidato, e magari dei colleghi più giovani che lo assistevano, un piccolo supplemento di lezione. L’alluvione del 1966 sommerse il deposito librario, e nei mesi successivi quell'uomo dall'aspetto fragile fu tra i più attivi nell'impegno per il salvataggio del materiale bibliografico. Dopo l'alluvione, vennero le agitazioni studentesche, di cui Garin vedeva bene i motivi; a turbarlo, non furono esse, ma il loro trasformarsi in permanente "contestazione", il loro degenerare in brutti episodi di violenza (ricordo soltanto l’aggressione a Ernesto Ragionieri), la furbesca acquiescenza di taluni professori. Nel 1960, commemorando il centenario della fondazione dell'Istituto di studi superiori, aveva rievocato le parole di gratitudine che P. Villani aveva rivolto ai giovani, sessant'anni prima; e aveva aggiunto, a conclusione: «Firenze, in questa sua scuola, lungo un secolo. ha favorito un lavoro raccolto e un po' schivo, ma serio, fondato sulla collaborazione reale dei membri dell'Università, alimentato da legami saldi fra insegnanti e allievi, fra generazioni e generazioni». Ora questo legame gli pareva essersi infranto, e fu non senza esitazioni, e con intima sofferenza, che accettò, nel 1974, la chiamata alla Scuola Normale di Pisa; qui esercitò a lungo, anche dopo essere stato nominato emerito, il ruolo, a lui così congeniale, di consigliere degli studi dei più giovani.

Non è questa l'occasione per parlare del Garin straordinario esploratore della cultura dell'Umanesimo e del Rinascimento, che tanti percorsi di ricerca ha aperto, né, più in generale, di lui come storico delle filosofia; tanto più che quest'ultima formula rischierebbe di essere riduttiva rispetto alle sue intenzioni; il titolo di un suo libro, quasi programmatico, La filosofia come sapere storico, segnala, a prima vista, che scopo di esso non era tanto stabilire i canoni per una corretta storiografia filosofica, bensì prender posizione sul tema dei compiti e del significato della filosofia. Sull'argomento, egli non si stancò mai di intervenire, e la sua tesi si può compendiare con una frase di Benedetto Croce, da lui ripresa proprio dal saggio da cui aveva ricavato anche il titolo del volume: «La consapevolezza dell'unità, cioè del vivo ricambio che corre tra filosofia ed esperienza, tra metodologia e storia, rende necessaria la formazione di un nuovo tipo di studioso di filosofia, che partecipi alle indagini della storia e della scienza, e soprattutto al travaglio della vita del suo tempo, politica e morale». Quali modelli di questo tipo di impegno intellettuale, Garin evocava, accanto a tanti altri, Villari, Labriola e Gramsci, che pure «non era un professore»; e proponeva così un profilo del pensiero italiano tra Ottocento e Novecento che rettificava, o sostituiva, quello di ascendenza crociana e gentiliana. Ma non pretendeva di dare un quadro definitivo, perché, con le sue parole, «l’indagine storica è di continuo sollecitata a riesaminare le scelte già operate in funzione di certi modi di agire, per saggiarne la validità, respingerne l’insufficienza, risolverne la parzialità»; sapeva benissimo, e lo disse più volte, che questo criterio valeva anche per lui stesso: a conclusione della lunga discussione suscitata dal libro che si è sopra citato, scriveva di preferire «al filosofo che ha per sé l'eterno, chi combatte negli anni suoi ed è distrutto dalla sua lotta». Non è la battuta di un fine conoscitore dell'arte retorica, quale pure Garin era, perché, finché le forze gli ressero, egli continuò a lavorare, sulle fonti e sulla letteratura secondaria, senza preoccuparsi troppo se i suoi nuovi risultati non concordavano perfettamente con quelli precedenti, perché «le revisioni non devono impressionare nessuno, ed attestano, anzi, la serietà di un lavoro legato a una concreta realtà in movimento». 

Dall’ultimo numero della Rivista “Il Ponte”. 

http://www.ilponterivista.com/it/Index.html