Paolo Ferrario

Discografia Jazz, 1929-1961


Nel mese di maggio 2006 mi è capitato, nel quadro di una serie di conversazioni sui blog, di individuare qualche titolo di dischi jazz.

Il mio contributo è stato di tipo storico ed ho proposto alcune tracce che mi sembrano “segnare” i passaggi di questa musica. O meglio che hanno segnato alcuni tratti della parte musicale della mia vita. Ho messo assiemequesto essenziale elenco  immaginando un viaggio durante il quale ho un piccolo zaino dove posso portarmi dietro solo poche cose. Ma fondamentali. E scegliendo Cd recuperabili immediatamente attraverso la rete web.

Si comincia con Louis Armstrong. Il suo suono della tromba in “West and Blues “ del 1929 rappresenta la nascita del jazz moderno. E’ come se in quell’istante avesse  indicato la strada su cui tutti, dopo, hanno camminato. Lo trovi (assieme ad altri altri pezzi miliari) nel Cd “Louis Armstrong - Ken Burn Jazz”

Contemporaneo, ma su un filone parallelo c’è Duke Ellington. Innanzitutto il direttore di orchestra, l’infaticabile organizzatore di gruppi, ma anche il finissimo pianista. Dalla immensa discografia tirerei fuori “Sophisticated Lady” , “Take the “A” Train”, “Caravan” (uno standard seminale rielaborato centinaia di volte, fino all’altro ieri), “Mood Indigo”, “In a Sentimental Mood”. Li trovi nel Cd “Duke Ellington – Ken Burn Jazz”.

Non potrebbe mancare nel mio corredo di viaggio l’omaggio di Nina Simone: “Nina Sings Duke Ellington” del 1963.

Poi occorrerebbe passare al Bebop (fine anni ’40). I due ideatori ed interpreti sono: Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Non ti suggerisco titoli perché non mi è mai piaciuto il Bebop. Qualche lettore storcerà il capo e io proverò a sentire quello che lui propone.

Invece, proprio di quegli anni, non ti dovrebbe sfuggire Miles Davis “Birth of the Cool” (1949). E’ la prima rivoluzione di Davis. Sempre ai confini, sempre con lo sguardo in avanti. Un musicista fieramente nero fa incontrare i suoni della musica nera americana con quelli della musica bianca di tradizione europea. La fusione crea un genere nuovissimo pieno di energia e raffinatissimo. Imperdibile.

Ancora su questo percorso della contaminazione “America ed Europa” e anche “classica e jazz” è fondamentale il quartetto del Modern Jazz Quartet, per quarant’anni amorevolmente tenuti assieme dall’amatissimo John Lewis. Uno dei miei musicisti del cuore. I denigratori lo etichettarono “jazz da camera”. In realtà è blues e swing concentrati anche in una sola nota. In questo momento sto sentendo il  “Piazza Navona”. Una delizia che arriva dal passato (1955). Gli eventi successivi hanno dato ragione a John Lewis. I denigratori erano dimenticabili e infatti sono stati dimenticati. Invece loro rimangono nella storia come dei classici. Per non perdere niente dei loro gioielli ti suggerisco: “The Modern Jazz Quartet, MJQ 40 Years”.

Mi accorgo che se devo andare alle origini del jazz moderno sono gli anni ’50 a venirmi incontro. In quel decennio c’è la rielaborazione di una musica che ormai ha circa mezzo secolo e che si avvia alla sua seconda fase storica. Gli album di valore sono davvero tanti. Ma ci sono alcuni che ascolto sempre volentieri, sapendo che ogni volta hanno da comunicarmi ancora qualcosa di più. 

Da dove viene fuori tanta creatività? Credo da tre fattori. In primo luogo è il decennio successivo a quello della seconda guerra mondiale: tutti i paesi stanno ricostruendosi. In secondo luogo stanno nascendo nuovi generi: il Rock, il Soul, il Rhythm and Blues. In terzo luogo il jazz è attraversato da una tensione fra due poli: una “classicista”, alla ricerca delle radici e rappresentata dal Cool Jazz, e una “modernista”, alla ricerca di ancora nuovi modi di suonare, dopo il nervosismo e la velocità del Bebop (l’Hard Bop). Queste due correnti creavano un attrito portatore di continue innovazioni: il Cool Jazz compensava l’iperattivismo del Bebop e l’Hard bop diventava la risposta alla presunta fragilità e leggerezza del Cool. E, come spesso succede, in mezzo a questi due fiumi dalle sorgenti divise, nascevano spiriti musicali originali e non riconducibili rigidamente all’uno o all’altro. 

Il Cool Jazz, già anticipato dal veggente Miles Davis, è jazz “fresco”, non “freddo” come i denigratori etichettarono subito. Un disco espressivo di questa corrente è Gerry Mulligan Quartet with Chet Baker (1953).  L’originalità e l’invenzione è un gruppo senza pianoforte: tromba, sax baritono, basso e batteria elaborano un suono morbido che lascia lo spazio per conversazioni sottovoce. Chet Baker è il trombettista maledetto dalla vita e mitizzato nel film di Bruce Weber Let’s Get Lost (“perdiamoci …”). La sua versione di My Funny Valentine è mitica e diventerà il suo segno distintivo. Basta ascoltare quei tre minuti per non dimenticarlo mai più. Ma il disco è, pieno di altre gemme: Moonlight in Vermont, Bernie’s Tune, Jeru … Pezzi lenti ed altri più veloci. Degli stessi anni è Chet Baker Sings (1954), dove è la voce a fare da protagonista. Si ascolta un jazz elegante e minimale in cui l’alternanza tromba e canto diventa l’espressione perfetta del Cool Jazz: toni sussurrati, canzoni di intensa potenza emotiva, non esagerata malinconia, ballad lentissime. 

Un disco veramente fantastico di questo periodo è Erroll Garner, Concert by the Sea (1955).  Un live suonato in una serata unica ed irripetibile a Carmel, sulla costa della California. Solo l’improvvisazione ha reso possibile questo concerto straordinario, con un prodigioso pianista “orchestrale” che rende spumeggiante il suono dello strumento. Errol Garner aveva un immenso talento, tanto da non poterlo ricondurre a generi o a mode, e uno straordinario intuito musicale che gli consentiva di passare, sfumando la fine dei pezzi, da vecchi brani dixieland, alle canzoni popolari, agli standard jazz fino a sue originali composizioni come Misty.  Michel Petrucciani, nelle sue esecuzioni al piano solo, adotterà personalizzandolo questo stile. Mentre scrivo sto ascoltando I'll Remember April, in ritmo swing pieno di idee e di variazioni, Where or When, che smonta e ricompone a velocità siderale le linee armoniche originali, Mambo Carmel, in cui sembra di vedere le mani che sul piano suonano due canzoni indipendenti l’una dall’altra, April in Paris, dove la lunga introduzione tiene nascosto fino all’ultimo il tema, per poi procedere in modo irresistibile. Applauso !!! 

Altro live meraviglioso è Ahmad Jamal, But Not For Me - At The Pershing (1955).  Ahmad Jamal è un pianista e leader di trio jazz difficilmente inquadrabile in un genere fisso. E infatti le storie del jazz sono piuttosto avare di sue notizie. Si potrebbe dire che è un personaggio interstiziale di questo mondo musicale che però (e questo è un forte indizio di bravura) è stato molto amato da Miles Davis. Il suo è un suono originalissimo, ricco di coloriture e sfumature. E’ sapientissimo nell’usare lo spazio del pezzo per caratterizzarlo con la sua personale esecuzione, come in Poinciana, che dipana otto minuti di emozionante delizia. In una delle sue rare interviste, Keith Jarrett ricorda che ascoltando Portfolio of Ahmad Jamal (1958), altro live rivelatore di immenso talento, ha capito che il suo destino era anche fare musica jazz. Ed infatti è solo la sua interpretazione di Poinciana all’Umbria Jazz del 2000 che regge l’emozione di quella originale.  Due album capolavoro, perfetti per ogni discoteca. 

Alla fine del decennio il jazz, che è una musica nomade, cerca altri confini ed altri luoghi geografici e simbolici in cui esprimersi. Ed è ancora il trentatreenne Miles Davis ad aprire la strada con Kind of Blue (1959), la sua seconda rivoluzione (e ce ne saranno altre!).  Con questo disco siamo definitivamente fuori dal Bebop degli anni quaranta e dal Cool dei cinquanta: c’è il recupero stilizzato del passato (un profumo) e la prefigurazione del futuro. L’album ha quasi cinquant’anni ma il suono è modernissimo, come appunto solo i classici sanno fare, anche se questo è un super-classico. Nel gruppo c’è anche il pianista Bill Evans: un bianco accanto a un perfino superbo nero, perché nel jazz non ci sono confini, ma solo la ricerca del suono fino a quel momento non ancora creato.  

Altro autore, direi proprio fondamentale, che contribuisce a consolidare lo stile e la qualità jazz è Charles Mingus. Tre sono gli album più rappresentativi (o meglio: che più mi ispirano): Mingus At The Bohemia (1955), Ah Um (1960) e la suite The Black Saint and the Sinner Lady (1963). Mingus è un eccezionale contrabbassista, ma soprattutto uno dei grandi compositori afroamericani del Novecento. L’unico che è accostabile alla grandezza quasi irrangiungibile di Duke Ellington. Le sue composizioni sono attraversate da memorie blues e gospel, da uno swing di grande energia sonora ed arrivano ad un caos organizzato che anticipa il dimenticabile Free Jazz dei successivi anni sessanta. Sorsate di puro jazz: o piace o non piace, non ci sono vie di mezzo. In queste composizioni si possono cogliere e percepire le strutture portanti del jazz: lo smontaggio delle armonie, il feeling fra gli esecutori, l’umorismo, la forza del leader e la cooperazione di gruppo. 

I primi anni sessanta chiudono un ciclo storico e aprono quello che arriva più vicino a noi contemporanei. Un disco-simbolo di questa curvatura musicale è Bill Evans, Waltz for Debby (1962), registrato da una serata live al Village Vanguard di New York. Questo è l’album che cambia la storia del trio pianoforte/contrabbasso/batteria. Il piacere che qui si prova è quello di ascoltare e sentire gli strumenti che colloquiano fra loro: la parola “interplay”, ossia quel particolare gusto telepatico nell’interagire di gruppo e nel passarsi i pezzi da fare in a solo, la si comprende qui. Influenzato dalla musica classica (Chopin, Debussy, Ravel) Bill Evans anticipa e pone i fondamenti di altre meraviglie che Keith Jarrett saprà esprimere negli anni successivi. Bellissima è la ballad My Foolish Heart che si dipana in modo magico: parte con la melodia del piano di Evans e del contrabbasso di LaFaro per essere raggiunta poi dal batterista Motian che gli dà sempre più spazio creando con le spazzole il tappeto su cui crescono ancora i primi due.  

L’altro disco-simbolo dell’apertura alla nuova fase è Olè Coltrane (1961). Il capolavoro è Olè, dove si percepisce che il nuovo confine ricercato da John Coltrane è l’Est. Il jazz viene portato a guardare verso oriente, passando per la Spagna. Il pezzo si avvia con un tappeto ritmico su cui si appoggia un assolo di sax discreto e delicato, poi è seguito da un duetto di basso al gusto del flamenco e infine si sviluppa in una lunga improvvisazione di tono, per l’appunto, spagnoleggiante, con continue e ricorrenti ripetizioni del tema. Sono 18 minuti di musica magmatica, molto in sintonia con alcune preferenze di oggi, anche se è stata creata 45 anni fa, e che alla fine lascia estenuati e storditi, ma anche consapevoli di avere sfiorato una vetta. 

Finisce qui il mio personalissimo contributo a questa discografia jazz. Dicevo incidentalmente che il Free Jazz degli anni sessanta è, per il mio soggettivo senso dell’ascolto e funzione che assegno alla musica nella vita, del tutto dimenticabile. Ma poi avviene un fatto rilevante, acutamente osservato da Joachim Ernst Berendt nel suo importante libro “Il nuovo libro del jazz” (1981):

“Finora abbiamo potuto contrassegnare ogni decennio con uno stile ben definito …Con l’inizio degli anni Settanta questo principio viene a cadere. Perché gli anni Settanta sono caratterizzati da almeno cinque tendenze: Fusion o jazz-rock … estetizzazione del jazz … la corrente principale del jazz continua a fluire … nuova generazione del free jazz … graduale formazione di un nuovo musicista che trascende e integra il jazz, il rock e le varie culture musicali”

Insomma oggi i generi tendono a mescolarsi sempre di più. La globalizzazione e la connessa interdipendenza attraversa anche la musica e i generi si contaminano, talvolta in modo eccellente.

I gusti si moltiplicano e l’estrema soggettività delle persone che ascoltano si fanno molto interessanti. Diventa possibile ed interessante scoprire cosa, come e perché le persone ascoltano e provano piacere nell’ascolto e pronunciare il fatidico aggettivo: “bello”.