Antony

and the Johnson



DA: http://www.sentireascoltare.com/CriticaMusicale/Monografie/Antony%20and%20the%20Johnsons.htm#ild

Antony and the Johnsons

di ©2005 Edoardo Bridda, Stefano Solventi e Ivano Rebustini
Androgino e artsy. Drammatico e cristallino. Alieno e fragile. Trasversalmente epico, circonfuso com'è d'inquietante mistica transgender. Lo strano caso di Antony, l'ultima Drag Queen.

Il dolore e la maschera: l’arte meravigliosa di Antony and the Johnsons

di ©2005 Edoardo Bridda

Negli ultimi due anni lo hanno voluto un po' tutti - dai tipi del Warhol Museum a quelli del teatro di Bloomsbury, dagli organizzatori del Summer Stage al Central Park a quelli del Nancy Jazz Festival e del Townhall di New York City, dalla terra d'Albione alla Grande Mela, dai cineasti ai performer -, ma in pochi prima si erano accorti di questo splendido artista londinese trapiantato a New York al tempo del debutto, sul calar dei Novanta.

A scoprirlo fu l'insospettabile e tormentato David Tibet, leader dei Current 93. Poi, altrettanto imprevedibilmente, Lou Reed se ne sarebbe innamorato al punto da prenderlo sotto la sua rispettabilissima ala, un aumento esponenziale di visibilità (devono ancora spegnersi i brividi provocati dalla Perfect Day cantata da Antony in The Raven), che ha significato il successo e la consacrazione in un colpo solo. Eppure i larghi consensi ottenuti dal cantante ormai newyorchese non erano e non sono per nulla scontati. Antony ha atteso anni prima di essere riconosciuto, e d'altronde non poteva essere altrimenti: l'ex late night singer (nel curriculum anche la militanza nei, o forse meglio nelle Blacklips - combo en travesti dedito a una specie di metal teatrale - e nella punk band Jennifer Honky Tits) era troppo androgino e artsy per poter piacere agli amanti dell'ossessione folk apocalittica di casa Tibet, e allo stesso tempo troppo omosessuale per convincere gli etero(dossi), tanto quelli del gothic quanto quelli del rock.

Insomma, non era per nulla detto che Antony sarebbe piaciuto e forse non sarebbe nemmeno diventato un'icona del pubblico gay adulto (lo stesso che compra l'antiquariato francese del secolo scorso): fin dall'esordio, da quel debutto fortemente voluto da Tibet per la sua etichetta (la Durtro), il cantante rivela una natura drammatica e trasversale (è anche un performer, avendo studiato e praticato teatro sperimentale), musicalmente cristallina ed epica da una parte, troppo ostica per i canoni armonici del raffinato pubblico dei teatri dall’altra.

Quelle di Antony potrebbero essere delle cover neoclassiche di brani di Otis Redding (ammessa ossessione del performer) e Nina Simone, preghiere gospel o addirittura arie liriche; ma se certo ricordano tutto ciò, non lo sono. Com'è altrettanto vero che la “musa” di Reed, con i suoi testi tragici e le sue pose al limite del melò, ha ben poco in comune con il gusto provocatorio e chic della controcultura omossessuale del suo tempo. Più che l'impersonalità sbarazzina di un Boy George (un mito dichiarato, tanto da essere ospitato nell’ultimo album I Am A Bird Now), la provocatoria libidine di Holly Johnson (leader dei disciolti Frankie Goes To Hollywood), o il falsetto di denuncia del cantante dei Bronski Beat, Jimmy Sommerville, Antony - lo si vede nel film di Steve Buscemi "Animal Factory" del 2000, nel quale recita se stesso in una piccola comparsata, oppure in "Wild Side" di Sebastien Lifshitz, in cui canta quello che è un po’ il suo manifesto, I Fell In Love With A Dead Boy - parte dalla solitaria e sconsolata dimensione del piano bar fuori orario per approdare a un senso di tragico universale, a un fato incombente (è forse proprio questo che ha colpito Tibet), come al tempo stesso - con quel particolare timbro androgino, nasale e vissuto, a raccontare caroselli di speranza e rassegnazione - non è così distante dall'epica della strada di reed-iana memoria. Con la pubblicazione del secondo lavoro - uscito a febbraio 2005 -, non possiamo che confermare questa magnifica dicotomia, caratura di un personaggio inimitabile.

 
  • Twilight
  • Cripple And the Starfish
  • Hitler In My Heart
  • Atrocities
  • River Of Sorrow
  • Rapture
  • Deeper Than Love
  • Divine
  • Blue Angel

Antony and The Johnsons (Durtro, 1999)

di ©2005 Edoardo Bridda e Stefano Solventi

Alla fine di uno show newyorchese dei Current 93 datato 1999, uno sconosciuto e corpulento ragazzo alto quasi due metri, di nome Antony, diede al leader di uno dei suoi gruppi preferiti, David Tibet dei Current, un demo intitolato Blue Angel, collezione di nove tracce composte assieme al suo gruppo (i Johnsons). Per Tibet fu un instant classic, un'autentica folgorazione. Inserì quell'album nella lista dei suoi evergreen e volle assolutamente pubblicarlo per la Durtro, l'etichetta da lui gestita. Il disco, questo disco (le cui prime session risalgono addirittura alla fine del '97), si presentò - non proprio al mondo ma piuttosto a chi ebbe la fortuna di ascoltarlo all'epoca – come un piccolo capolavoro, un gioiello rannicchiato nel cupio dissolvi di quella fine decade-fine secolo solo apparentemente luminosa, in realtà foriera più di timori che di speranze, convalescente dal trauma provocato dall’impatto con l’Aids e pericolosamente alla deriva verso sordidi pensieri unici e famelici estremismi sociali.

In questa scenografia tutt’altro che gaia, appare per contrasto ancor più splendida la voce del performer di origini inglesi: per l'estensione e per il vibrato, per l’ampollosità diafana e malsana, per la posa statuaria da soulman pietrificato su un palco d’opera, per il senso di urgenza continuamente stemperato in un’aura senza tempo. Molto lontano dall'estetica apocalittica della famiglia World Serpent e ancor di più dalle sue caligini industriali, Antony incarna il corpulento angelo-cantore di quelle lande: dentro, i dolori e le miserie, le lacerazioni di un mondo malato che si consuma in se stesso; fuori, la maschera, la diva d'altri tempi, la splendida decaduta, la divina emarginata.

Signore e signori, la Drag Queen: con tutto il carico di tragedia consapevole e farsa militante, con il corpo che si traveste di meraviglia, anzi, con quel suo viversi meraviglia in fieri, eterna crisalide a un passo dal compiersi. Un processo perennemente critico, energia che si libera senza soluzione di continuità, costeggiando profondo disincanto e mistica esaltazione, malanimo stagnante e irrefrenabile dolcezza (ciò che sostanzia la conclusiva, struggente Blue Angel, blues-soul a cavallo di un romanticismo di piano e archi).

La voce è un pennello portentoso pronto a dipingere l’incanto azzurrino e l'inferno dantesco (metafora di quell'apocalisse che fu l'Aids per la comunità gay di New York fino a i primi anni Novanta), cui l’ottimo ensemble costituisce adeguatissima “bottega”: ben dieci i musicisti, impegnati alla batteria (Todd Cohen), all’arpa (Baby Dee), al basso (Francois Gehin), al clarinetto (William Basinski), al flauto (Mariana Davenport), al violino (Cady Finlayson e Liz Maranville), al violoncello (Vicky Leavitt), al sassofono (Barb Morrison) e alla chitarra (Charles Neilson).

Dieci anche le tracce, come dieci farfalle crocifisse nel pieno della propria meraviglia, le dinamiche ora veementi ora farraginose (come nel malanimo in punta di piano di Rapture, dove flauto e arpa indagano il lato scuro del proprio splendore), il mood da melodramma glam che si estenua sul sofà della suite in miniatura (la teatralità tumultuosa e problematica di Hitler In My Heart, quasi un incrocio tra Total Eclipse Of The Heart di Bonnie Tyler e gli Alan Parson Project di Ammonia Avenue). E soprattutto l’interpretazione, sempre un po’ sopra le righe, un po’ meno che esasperata e un po’ più che accademica (come nei singulti e nei decolli abortiti di Deeper Than Love, tra riccioli stretti di violino, amarezze inghiottite e una liturgia gospel-soul conclusiva da un'altra dimensione), quasi in gioco ci fosse ben più che la musica e a un tempo non ci fosse più molto da giocare, in equilibrio sul filo di rasoio tra rassegnazione e speranza.

É bravo Antony a fare proprie le sfumature comprese fra tutti gli estremi fin qui citati, sfuggendo così senza fatica al rischio della caricatura. Questo spiega la disarmante bellezza di Divine - impagabile elegia alla madre di tutte le drag queen in un vasto miraggio di sacralità terrena (che è già in quel nome-titolo, in quel fare idolo il proprio stesso sognarsi) - e Atrocities, la madre d’ogni doglianza soul, non lontana dal Boy George di Victims (e sarebbe senz’altro piaciuta al Jeff Buckley di Lilac Wine).
Preziosismi, impellenze e sfumature sono ben distribuiti in tutto il programma. Tuttavia, gran parte del patrimonio complessivo di bellezza si deve alle prime due fenomenali tracce: quella d’apertura, Twilight, è un valzer intorpidito con un piede nella fiaba romantica e l’altro in un pantano blues, la voce uno struggimento cristallino, un marmoreo languore quasi come il Nick Cave più confidenziale, mentre la successiva Cripple And The Starfish può contare su un indimenticabile riff di violino, su refoli d’angoscia dolciastra, su quell’avvitarsi della melodia che diventa un decollo in prossimità dell’ultimo chorus, quando si fa luce un’enfasi impetuosa, una disperata euforia, il sax e l’arpa a dettare sottigliezze, abbandono, corposità.

É il dramma psichico di un cuore sanguinante, specchi che non riflettono come dovrebbero, voci che non si riconoscono, parole che acquistano la leggiadria del volo e il panico della caduta, mentre oltrepassano l’abisso che separa il destino dalla volontà. (8.0/10)

 
 
  • Cripple And The Starfish
  • Immortal Bird

Antony and The Johnsons/Current 93 - Cripple And The Starfish/Immortal Bird (Durtro, 2000, 7’’/Cd)

di ©2005 Ivano Rebustini

Sulla falsariga dei vecchi 45 giri un lato a me e un lato a te, il disco esce sia come cd singolo, sia come 7’’ in mille copie, delle quali 940 in vinile rosso e 60 in vinile verde. A uno dei pezzi forti del primo album di Antony si accompagna un ipnotico brano dei Current 93 del suo mentore David Tibet (autore anche della copertina), tratto dall’album Sleep Has His House.

 

 

 
 
  • I Fell In Love With a Dead Boy
  • Mysteries Of Love
  • Soft Black Stars

I Fell In Love With A Dead Boy (Durtro, 2001)

di ©2004 Ivano Rebustini

Sarà solo un ep, ma basta e avanza la presenza della canzone-manifesto I Fell in Love With A Dead Boy per renderlo unico e preziosissimo. Il disco è completato da una cover di Angelo Badalamenti, Mysteries Of Love, dalla colonna sonora di "Blue Velvet" (nella soundtrack del film compare in versione strumentale e cantata da Julee Cruise), e da una cover dei Current 93.

 
  • Current 93 - Calling For Vanished Faces 1
  • Current 93 - The Carnival Is Dead And Gone
  • Antony and The Johnsons - Virgin Mary

Antony and The Johnsons/Current 93 (PanDurtro, 2003, 7’’)

di ©2005 Ivano Rebustini

Si tratta di un 45 giri che vede la consueta coabitazione con i Current 93, tirato in sole 500 copie.

 
  • You Stand Above Me
  • The Lake
  • Cripple And The Starfish
  • Judas As Black Moth
  • Sleep Has His House
  • Walking Like Shadow

Antony/Current 93 - Live At St. Olave's Church, London 2002 (PanDurtro, 2003)

di ©2005 Ivano Rebustini

Live sempre della serie “una poltrona per due”, registrato a Londra il 5 e 6 aprile del 2002. Di modestissima durata (meno di 20 minuti), reca in copertina un disegno di Antony e i biglietti dello show. Antony è senza i Johnsons: siede al piano, accompagnato dal violinista russo della band, Maxim Moston. Per la prima volta, in una sorta di ping-pong con Lou Reed, compare su disco The Lake, il brano tratto dal poema del 1827 di Edgar Allan Poe, pezzo forte del successivo ep.

 
  • The Lake
  • Fistful Of Love (con Lou Reed)
  • The Horror Has Gone

The Lake (Secretly Canadian / Wide, 2004, 12’’/Cd)

di ©2005 Ivano Rebustini

L’ep precede di qualche mese l’uscita del secondo album, del quale anticipa la sola Fistful Of Love, che si avvale com’è noto della voce e della nervosa chitarra di Lou Reed. In copertina - ritratta in bianco e nero sul letto di morte dal fotografo Peter Hujar - uno dei tanti miti, non solo iconografici, di Antony: la warholiana Candy Darling, morta di leucemia a 25 anni: è la Candy Says del brano dei Velvet Underground, che Reed aveva fatto cantare proprio ad Antony nel doppio Animal Serenade, il live del tour 2003 (Antony vi aveva preso parte nella veste di corista, dopo essersi fatto notare come interprete reed-iano in Perfect Day, ripresa per il progetto Reed-Poe di The Raven).

  • Hope There's Someone
  • My Lady Story
  • For Today I Am A Boy
  • Man Is The Baby
  • You Are My Sister (con Boy George)
  • What Can I Do? (con Rufus Wainwright)
  • Fistful Of Love (con Lou Reed)
  • Spiralling (con Devendra Banhart)
  • Free At Last
  • Bird Gehrl

I Am a Bird Now (Secretly Canadian / Wide, 2005, Lp, Cd)

di ©2005 Stefano Solventi

Dopo il bagno di notorietà provocato dalla collaborazione con Lou Reed in The Raven e la conseguente riscoperta del fenomenale album d’esordio (datato addirittura ’99), tornano Antony and The Johnsons con un disco che infonde anche prima dell’ascolto - ovvero dalla lettura dei credits - un senso di ammenda per la tardiva consacrazione. Ben quattro gli ospiti “eccellenti”, due giovani alfieri sulla cresta dell’hype (Devendra Banhart e Rufus Wainwright) e due iconosauri come Reed e Boy George, che solo a pronunciarli uno accanto all’altro sembra di chiudere un cerchio. Nel mezzo del quale c’è appunto Antony, la sua teatralità accorata ai limiti del mélo, la sua mistica transgender che scompagina le carte e confonde gli appigli. Il suo corpo sempre al centro di una spiritualità che vuole manifestarsi pura, per quanto intensamente consapevole della propria impura, problematica cifra espressiva.

É un bel disco, per quanto non raggiunga il pathos sconvolgente del predecessore, vuoi perché i miracoli accadono di rado, vuoi per una precisa scelta poetico/formale, come se i nostri (il nostro) avessero scelto di intraprendere una strategica “normalizzazione”, un contenersi nei ranghi della ballata pianistica con qualche scappatella rappresentata dall’agro errebì Fistful Of Love (storia d’amore violento introdotta dalla voce e grattugiata dalla chitarra ritmica di Reed) e dalla sconcertante coda di Hope There's Someone (dove la più angelica delle malinconie è triturata da un pressante conglomerato di piano, organo e voci fantasmatiche). Per il resto, l’impeto struggente di un’anima alla ricerca di sé (l’ombrosa e vibratile Man Is The Baby, forse l’unica concessione a un certo autocompiacimento), caroselli di speranza e rassegnazione (la vibrante For Today I Am A Boy), stille di orgoglio e mestizia (la toccante My Lady Story, vellutata d’archi e flauto). Eppoi malanimo vertiginoso (la tanto breve quanto splendida What Can I Do?, dove Antony è solo un lieve controcanto e Wainwright procede caracollando su ritmica obliqua) e nenie che gonfiano il cuore (l’empito rinfrancante di Spiralling, cui Banhart concede una memorabile intro con la sua tipica voce accartocciata).

É insomma come se il lato più scopertamente freak di Antony fosse già stato socialmente metabolizzato, e il problema si fosse spostato a un livello meno visibile, più profondo, nel dissidio tra sentire ed essere, nel divenire in una traiettoria confusa, ingovernabile, spiritualmente conflittuale. Per questo, malgrado la sensibile normalizzazione formale, si continua ad avvertire chiaramente l'anomalia di questa voce incantevole e aliena, efebica come riusciva ad esserlo certo Jeff Buckley, cioè ansiosa di sfuggire alla presa e contemporaneamente alla ricerca febbrile di un posto tra le cose del mondo.
E in questo senso Your Are My Sister sembra risuonare di un vero e proprio passaggio di testimone, col timbro di Boy George mai così rugoso, la voce di uno che ha già speso battaglie sullo stesso identico fronte, scomparso dai riflettori per volontà di non sprecarsi più del troppo già compiuto. Ed ecco che la conclusiva Bird Gehrl, con il suo traslucido incedere da soul atrofizzato, con la sua teatralità sfatta, esausta, declinante, sembra l’approdo di tutti i desideri e i timori. L’assoluzione e l’esalazione, il volo. Verso il meritato paradiso. (7.4/10)

 

Appendice: Volti, stra-volti e stravoltissime

di ©2005 Ivano Rebustini

Mi prendo tutte le responsabilità del caso, ma dei mille volti, dei mille corpi, dei mille costumi, a lasciarmi con tanto d’occhi non è stato il Sant’Antonio dei pettorali di Blue Angel e neanche il Mr. Tit Head messo all’angolo di una notte niuiorchese, ma l’Antony-Lorenzo - sì, Lorenzo, lo studente non proprio intelligentissimo partorito dalla mente malata di Corrado Guzzanti - che fa capolino da una delle ormai innumerevoli pagine Web dedicate alla Drag Voice più trendy del nuovo Millennio. Capita a quelli che guardano troppa tivù, mentre fortunatamente di musica non se ne ascolta mai troppa, altrimenti quando mai si potrebbero fare i paragoni e le similitudini ardite che ogni scrittore rock (che si rispetti o no, mica questo è il punto) deve sciorinare come la tabellina del 2?

Ecco allora Antony figlio di una notte d’amore tra Nina Simone e Jimmy Scott, ecco Antony più donna di Marianne Faithfull nella poco conosciuta, pietrificata cover di As Tears Go By della premiata Brontosauri Spa Jagger, Richards & Pronipoti (mai donna, però, come Mick che la canta in italiano mordendosi la coda o forse qualcosa d’altro).
Ecco ancora Strange Fruit (mioddio, Strange Fruit!), ecco Be My Husband di mammà e nientepopodimenoche So Young delle Ronettes (le Ronettes!), con l’immancabile contorno di colpi di tosse e scusa-vado-a-pisciare e tintinnar di bicchieri (le manette dopo) dei mille live di Antony.

Ecco il Dolore e la Cartapesta e tette improbabili e stoffe da Mille e una notte, ma non le notti della Grande Mela, ed ecco farsi strada l’ultimo stravolgimento: adesso che Old Blue Eyes è solo vinile pesantissimo e molto, molto rigato, via i mille volti, via i mille corpi, via i mille costumi, Antony è pura Voice, è Stranger in the night, è il buio oltre la siepe e dietro un cespuglio, è il primato irrinunciabile del Lato Oscuro. “A modo mio”, ma soprattutto a modo suo.

 

Live: Ferrara sotto le stelle (Ferrara, 14 luglio 2005)

di ©2005 Fabrizio Zampighi e Edoardo Bridda

Se c’è un artista che ha messo d’accordo critica e pubblico convincendo la prima in virtù delle notevoli doti canore e conquistando il secondo grazie ad una musica febbrile e intensa come poche, quell’artista è Antony Hegarty. Un musicista cresciuto sotto l’ala protettrice di un paterno Lou Reed, ma ormai talmente originale da diventare più di una costola dell’Adamo di Heroin, nonché il “caso discografico” dell’anno. Ne sono testimonianza le sue apparizioni italiane, sempre toccanti e capaci di richiamare un pubblico numerosissimo, non ultima la data di Ferrara Sotto le Stelle.

A vederlo sul palco non si direbbe e invece sotto la parrucca dai lunghi capelli neri stampata sul volto pallido e una doppia t-shirt che nasconde a fatica un corpo ingombrante, c’è un artista così innocente da sembrare quasi finto, così trasparente da tradire un certo timore reverenziale anche nei confronti di una platea letteralmente rapita.

Davanti al pianoforte a coda e circondato da chitarre, violini, fisarmoniche e viole, il musicista americano delinea melodie a metà strada tra un Marvin Gaye folk e un J.J. Johanson plagiato dal soul, stropiccia ricordi dolorosi e si lascia sovrastare da frammenti di emozioni, mette a nudo l’anima e la dà in pasto al pubblico. E il pubblico è lì, certo d'aver di fronte l'Elephant Man di turno, pronto a cogliere ogni respiro, impegnato a tradurre i sussurri in battiti o magari deciso a seguirlo in gospel improvvisati voce e clapping hands come il divertissement conclusivo Water And Dust, rilascio primordiale dopo tanta lirica bontà.

Il concerto ripercorre gran parte degli episodi dei due album dell'artista - Antony & the Johnsons e I’m a bird now -, arricchendosi di alcune cover - Leonard Cohen, Nico, Reed - e dell'immancabile Cripple and the Starfish, per una durata complessiva vicina alle due ore. Un lasso di tempo che ha esaltato ampiamente uno stile in bilico tra femminee latitudini e intimismo espressivo in vibrato, contorni strumentali essenziali (spesso ridotti al solo pianoforte) e crescendo vorticosi, grazie anche a un ensemble calibratissimo nel suo essere presente e al tempo stesso invisibile.

Potremmo ricordare Hope There’s Someone, You Are My Sister, ma è doveroso annoverare anche le tre cover (che dopo il lungo tour sono perfettamente integrate nella scaletta live del cantautore): le velvettiane Candy Says e Afraid (di Nico) e The Guests, una dolente ballata di Leonard Cohen.

Trattasi soltanto di citazioni estemporanee: quella di Antony è sublime poetica, slancio sincero e incorrotto, che tuttavia - come si è visto - rischia, in una contemporaneità che divora il talento come un lollypop all'arancia, d'esser principio di fine, inizio di cristallizzazione, soffocante visione di un Donkey che si spegne di perfezione tra lacrime di ragazzine e plausi della sinistra radical chic.

 


Antony & The Johnsons
Antony & The Johnsons (Secretly Canadian - USA - 1998 (rist. 2004) - distr. Wide)

Enrico Bettinello (DA: http://www.allaboutjazz.com/italy/reviews/r0704_026_it.htm)

 

Forse qualcuno si sar� accorto della sua incredibile voce nel disco dal vivo Animal Serenade di Lou Reed, in cui si appropria di una emozionante "Candy Says": si tratta di Antony, incredibile e indefinibile personaggio di quelli che solo una favola continua come la musica - dove ogni cosa diviene plausibile e ogni sofferenza si trasforma in un dolcetto - poteva regalarci.

Riassumiamo al volo: giunto a New York all'inizio degli anni Novanta, si fa notare al Pyramid Club, tra cabaret, teatranti e drag queens, introducendo la malinconia senza tempo di romanticissime canzoni d'amore in un mondo pieno d'amore e disagio.

Formato un gruppo che lo accompagni, i The Johnsons in cui compare anche l'arpista transessuale Baby Dee, incide un disco d'esordio omonimo che qualche tempo pi� tardi verr� notato dai Current 93 e che dar� loro una certa notoriet�.

Oltre a un EP di materiale inedito, I Fell in Love with a Dead Boy e un live con i Current 93, in attesa dell'imminente pubblicazione del nuovo I Am a Bird Now, possiamo oggi gustare nuovamente quell'esordio nella ristampa della Secretly Canadian: mezzora o poco pi� di archi, pianoforte, zuccheri e malinconie che la voce di Antony rende unici.

Con un timbro che � stato accostato a quello di Nina Simone, ma che in effetti � pi� vicino a quello di un Brian Ferry en travesti, il nostro disegna traiettorie struggenti a cui non si resiste, davvero contro ogni previsione: perch� alla fine l'album � un'esperienza di emozione continua, a partire dall'iniziale "Twilight" e passando per quella meraviglia che � "Cripple & the Starfish" [non a caso un suo vero e proprio cavallo di battaglia], finendo con "Rapture", un vero e proprio soul degli angeli!

Ci si commuove, si intravede il disagio, la sofferenza e la dolcezza, l'arte e la sfida [un po' come succedeva al miglior Boy George, prima che nei nostri ricordi venisse assorbito nella nuvola trash che tutto ingloba degli anni Ottanta], le canzoni imperfette e oblique... un disco che potrebbe capitarvi di ascoltare davvero con frequenza e intensit�!

Memorabile il brano dedicato a Divine, con i versi "I Hold Your Big Fat Heart In My Hands / I Hold Your Burning Heart In My Hands"!

Valutazione: * * * *

Sito di Antony & The Johnsons:
www.antonyandthejohnsons.com
Sito della Secrtely Canadian:
www.secretlycanadian.com
 

Elenco dei brani:
01. Twilight
02. Cripple And The Starfish
03. Hitler In My Heart
04. The Atrocities
05. River Of Sorrow
06. Rapture
07. Deeper Than Love
08. Divine
09. Blue Angel

 

Musicisti:
Antony (voce, pianoforte)
Todd Cohen (batteria)
Baby Dee (arpa)
Francois Gehin (basso)
Cady Finlayson, Liz Maranville (violino)
Vicky Leavitt (violoncello)
Marina Davenport (flauto)
William Basinski, Barb Morrison (clarinetto, sax)
Charles Neiland (chitarra, effetti)


 

DA: http://www.ondarock.it/recensioni/2005/antony.html

Autore:ANTONY AND THE JOHNSONS Titolo:I Am A Bird Now Anno:2005 Genere:folk-pop Etichetta:Secretly Canadian/Wide  

Quando Antony era un ragazzino c'era Boy George. Oggi c'è George Bush. "Do you really want to hurt me?". Il secondo George oggi risponde volentieri "Yeah". "I am very happy, so please hit me!" avrebbe implorato Antony qualche anno fa. Quando era un ragazzino, voleva diventare come "Sister" George: i desideri lottano con la realtà, la mutano e si trasformano con essa. Antony è diventato una misurata stella del mondo arty, e non più soltanto di quello newyorchese in cui si è fatto le ossa con spettacoli punky fra teatro d'avanguardia e cabaret. Di mezzo si accorgono dei primi parti dei Johnsons David Tibet e poi il "tenero" maudit della Grande Mela, Lou Reed, fra gli ultimi segni viventi del mondo poetico di Warhol. Oggi il cerchio si chiude con "Sister" George a duettare in "You Are My Sister", e la modella di Drella a inscenare la propria morte in copertina. Sopra ogni cosa una voce che Diamanda Galas ha detto contenere in sé tutte le emozioni del pianeta. Eccoci al difficile secondo album. Antony vince, ma non supera i suoi brani capolavoro, entrambi fuori dagli Lp, ovvero "I Fell In Love With A Dead Boy" e "The Lake" (nella versione su "Live at St.Olave's Church").

Il cantante vince Hitler nel suo cuore e ci mostra come riesce a far splendere il grasso cuore di Divine nella luce del suo raffinato pop da camera. La voce è più naturale, il respiro è rilassato, non si concede nulla all'autoindulgenza e vibra l'accoglienza di ciò che emerge con gioia da dentro e di ciò che si manifesta dolcemente fuori. Ancora la grazia si costruisce sul filo della fragilità, non più come nel rito sacrificale di "Cripple And The Starfish", ma nella ricerca di un'elevazione umana che trae sostegno dall'altro e dalla forza interiore. Antony ha espresso in più occasioni il desiderio di essere tutt'uno con la sua arte, di non celarsi dietro a un personaggio, di aspirare alla sincerità e di porgerla al pubblico proprio tramite la propria vulnerabilità. E di questo parla il disco, con le sue liriche semplici e in certi casi addirittura banali, con i suoi arrangiamenti come di blues spogli, spettrali ed evanescenti, con la compagnia di ospiti presi per mano, mossi in coreografie perfette, e con la sua voce che sembra sacrificare i lamenti di Billie Holiday e Morrissey, i tormenti di Marc Almond e Nina Simone alla mollezza cameristica tutta archi celestiali dei This Mortal Coil.

C'è un percorso, una linea che parte dalla solitudine desiderante per poi incontrare in un empireo carnale anime consimili, e concludersi in alto, in una nuova solitudine conquistata, libera dalle prime paure. "Hope There's Someone" è invocazione notturna, richiamo al calore dell'abbraccio, e sprofonda in una coda scura di accordi pianistici e armonie di canto estatico, mentre l'organo gira intorno creando un baratro psichico, come la caduta nel mondo dei sogni. Ecco, forse il resto del disco non tocca più la qualità magmatica che si raggiunge in questo momento, e un po' dispiace.

"My Lady Story" è il primo frangente in cui si sfiorano le corde del soul-pop anni 60/70 e io non riesco a non immaginarmela cantata da Dionne Warwick con un arrangiamento di Bacharach. Suona magnifica, eppure sembra melodicamente incompiuta, mentre pennella di trasparenze i tratti che distinguono il maschile dal femminile. "For Today I Am A Bouy" è solo un bozzetto soul pianistico ma fa meglio, drammatizzando il desiderio di sdoppiarsi in riflesso di donna con la forza di una promessa. Ci traghetta oltre, verso lo spirito malinconico del Lou Reed del capolavoro "Berlin", da cui potrebbe essere tratta "Man Is The Baby", torch-song perfetta anche per il catalogo Current 93 oppure cantata dalla Rossellini morbosa di "Velluto Blu", una delle icone da cui Antony ha tratto linfa. Poi "You Are My Sister", coglietene lo spirito vi prego, e almeno la prima volta lasciate correre le lacrime. Boy George qui è eccezionale, indimenticabile (ricordate "Victims"?), e mette in scena con il protagonista un gospel di speranza e di forza che potrebbe far cedere anche Mr Muscle.

Le canzoni di Antony sono visioni fissate in un momento archetipico: come la copertina aliena del primo album dei Johnsons che ritraeva l'androginia arcana e luminosa del cantante, come la femminilità amletica che inabissa Candy Darling fra le lenzuola nella foto di Peter Hujar per questo "I Am A Bird Now". Ogni canzone aspira a una perfezione talmente fuori dal tempo che si potrebbe parlare di classicità, non fosse che siamo al cospetto di uno degli autori e cantanti più genuinamente romantici che sia dato incontrare nel mondo del pop. Così romantico da cedere il primo piano a Rufus Wainwright per "What Can I Do?", per farmi così controllare il leaflet più volte in cerca della collaborazione di Thom Yorke. E si arriva al singolo "Fist Full Of Love", spoken e chitarra di Lou Reed, Sam Cooke e Otis Redding sbiancati ma non troppo per cantare un amore visto con gli occhi di una passività adorante, quella stile "Donne che amano troppo". Meravigliosa. Basta un salto a sinistra ed entriamo in "Respect" versione Aretha Franklin.

La indie-folk star Devendra Banhart introduce psichedelica(ta)mente "Spiralling", e qui Antony passa le strofe trattenendosi, sussurrando, e anche se si tratta di mossa astuta e misurata, a me spiace. Poi i versi centrali ci rendono la gloria della sua voce. Due movimenti fra strofa e ritornello, il tutto è celestiale, ma manca una costruzione solida. La fragilità è sempre uno dei temi centrali di Antony, però ci aspettiamo che il lavoro certosino effettuato sugli arrangiamenti ci sia anche nelle composizioni. "Free At Last" è una preghiera intermezzo che una voce sconosciuta recita su piano e codice Morse, uno stacco e un'introduzione al finale, "Bird Girl", dove il protagonista di questa elevazione finalmente, sui titoli di coda, prende il volo con piume di dea, concludendo il sogno in cui è precipitato all'inizio con la catarsi, la realizzazione della sua identità. Troppo breve, le ali non fanno in tempo a spiegarsi.

Ma Antony ci incanta lo stesso anche questa volta. E' un maestro incolto, tutto sentimento e anima, qualcosa di cui c'e' assoluto bisogno. Oggi deve trovare una strada per riportare la sua poetica a un livello più profondo. La pasta della sua musica, in fondo, non è molto diversa da quella dell'ultimo Nick Cave: torch-song rifinite, intime, religiose e insieme vitali. Ma se a quelle eccelse di King Ink concediamo che saltino ormai qualche pulsazione, quelle di Queen Bird non se lo possono permettere. Perché la vulnerabilità, se vuole trionfare, oggi deve essere forte. Il voto che darei al primo dei Johnsons è 9, per cui a "I Am A Bird Now" va comunque un 8.
Recensione di Davide Ariasso


Antony & The Johnsons
Milano   03/05/2005
Ciak

 

 

C'è fila, fuori dal Ciak stasera: suona Antony (foto), e lo fa con i Johnsons, il suo fido gruppo di accompagnamento. E, oltre alla fila, c'è anche, e non deve stupire, una discreta attesa, perché Antony è un personaggio bizzarro: candido, timido, di parvenza androgina, nutritosi di un immaginario da drag queen, con Boy George e Otis Redding nella testa e nel cuore. Londinese trapiantato a New York, ha dovuto attendere più del dovuto per riscuotere il successo che merita, se è vero che il bellissimo e omonimo primo album è del 1999, mentre il secondo I am bird now,è solo del 2005, e porta in dote il supporto e la partecipazione di gente come Lou Reed, Rufus Wainwright e il folletto Devendra Banhart.

Antony sul palco è come uno se lo aspetta, nel suo inconsapevole look alla Renato Zero: timido, mezzo sorridente, a volte impacciato e insicuro. Tra un pezzo e l'altro mugugna qualche «ok», come alla fine di qualche ragionamento svoltosi solo nella sua testa, e ogni volta sembra che la canzone parta in maniera casuale, con qualche accordo di piano buttato lì e la sua splendida voce a renderla finalmente riconoscibile. I Johnsons (basso, chitarra acustica, volino e violoncello) aspettano sempre un suo cenno, guardandolo quasi imploranti, timidi ed emozionati come lui, spaesati di fronte a tutta questa gente.

Genuino e, a modo suo, di maniera, Antony rapisce e colpisce; parte con My lady storye snocciola i suoi dischi e pezzi imprescindibili di Nina Simone e Leonard Cohen, interpretandoli come se li avesse scritti lui, con la sua voce calda e nervosamente lamentosa, sempre su coordinate soul e blues: in versione bianca, ovviamente, e incredibilmente melodrammatica.

Passa poco, poi, e anche Antony sembra più tranquillo: il pubblico gradisce e lui non si risparmia, piacevolmente stupito da tanto calore. Scherza e ride con i Johnsons, gioca con l'asta del microfono, finge di lamentarsi con se stesso per la presenza di troppi pezzi lenti in repertorio, coinvolge addirittura il pubblico in una clapping song appena composta e chiamata Dust and water: il ritmo è scandito solo dai battiti delle mani, il resto lo fa la sua voce. E poi ci sono ancora You are my sister, River of sorrowe altre gemme che l'acustica e l'ambiente teatrale rendono ancora più toccanti che su disco, tanto da far sembrare ogni cosa perfettamente a suo posto, come nelle serate migliori.

I bis sono due, tre, si rischia di perdere il conto: un'ora e mezza di concerto non pare bastare a una platea che sembra in adorazione. La prima data del tour italiano è andata a meraviglia e i fiori e gli applausi che Antony si porta via ne sono la migliore testimonianza. Cibo per un'anima inquieta, fragile e luminosa, che si fonde con un'arte che Antony, con o senza i Johnsons, sembra conoscere a meraviglia. (gianvittorio randaccio)

da: http://www.delrock.it/hdoc/live.asp?idconcerto=2164