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E ora la globalizzazione è stata colpita al cuore
di FEDERICO RAMPINI
 

Gli esperti di calamità naturali delle Nazioni Unite osano dire quello che nessuno vorrebbe sentire in queste ore di lutto e di angoscia: il peggio forse deve ancora venire. Il peggio è la sorte che minaccia i superstiti.

Su di loro incombono epidemie, carestie, il crollo economico di zone dallo sviluppo fragile, la fuga dei turisti e anche quella delle multinazionali e delle loro fabbriche. I segnali di disponibilità che arrivano dai paesi ricchi del G-8 per cancellare i debiti dei paesi colpiti dallo tsunami danno la misura della gravità della situazione per i sopravvissuti: in quest'area del mondo l'arresto dello sviluppo può segnare il confine tra la vita e la morte. La sola Indonesia ha 40 miliardi di dollari di debito estero. La logica spietata dei mercati finanziari dirige gli investimenti verso i paesi che ispirano fiducia, la spirale dell'insicurezza può avere effetti letali. Il miracolo economico del sud-est asiatico è ancora recente. I suoi frutti hanno appena cominciato a beneficiare gli strati più ampi della popolazione in paesi come l'India (600 dollari l'anno di reddito individuale), il Bangladesh (400 dollari), lo Sri Lanka (980 dollari l'anno) e l'Indonesia (mille dollari pro capite il reddito annuo). Nello Sri Lanka in tre giorni è già triplicato il prezzo del riso. In Indonesia i dirigenti della Croce rossa dicono che "i saccheggi nelle zone colpite non sono opera di sciacalli, ma di gente che ha fame".

Il primo pericolo è quello denunciato dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms): "Solo nelle prossime tre settimane le epidemie possono fare altri 50.000 morti". Gli esperti dell'Oms conoscono la feroce regola statistica delle grandi calamità naturali: se le epidemie non vengono arginate con la massima urgenza, il loro bilancio in vite umane può raggiungere l'1% degli sfollati e dei senzatetto, che sono 5 milioni nelle zone devastate dallo tsunami.

Malaria, colera, tifo, dissenteria e polmonite possono infierire come un altro maremoto. Il costo per prevenire queste malattie è troppo alto per le finanze pubbliche di alcuni paesi colpiti come lo Sri Lanka, una nazione dove già il 20-25% della popolazione vive sotto la soglia della povertà. I soccorsi devono raggiungere zone lontane, le infrastrutture sono a pezzi. La prima carenza a cui è difficile rispondere in maniera adeguata è quella dell'acqua potabile, e da lì ha inizio la catena delle infezioni. Un cataclisma che ha colpito undici fra le zone più popolose del mondo - in tutto 350 milioni di abitanti - pone problemi logistici e organizzativi enormi.

La stima dei danni economici di un simile cataclisma è approssimativa, anche perché in questi paesi emergenti pochi sono assicurati e quindi manca un indicatore essenziale del prezzo delle distruzioni. I grandi assicuratori internazionali come Munich Re hanno azzardato la cifra di 10 miliardi di euro ma è probabilmente una frazione del totale. In realtà questo tsunami ha superato da solo la somma delle devastazioni di tutte le precedenti 400 calamità naturali dall'inizio del 2004, che avevano seminato danni per 42 miliardi di dollari. Sono queste cifre che fanno temere una depressione economica nelle zone colpite.

Anche se le nazioni dell'Asia meridionale hanno notevoli dislivelli tra di loro - il reddito pro capite in Malaysia è cinque volte quello dello Sri Lanka, il ritmo di sviluppo indiano (+8,4% del Pil) è il doppio di quello indonesiano - esse hanno anche alcune caratteristiche comuni. Tutte hanno beneficiato degli investimenti esteri che arrivano con il fenomeno della delocalizzazione produttiva: quest'area del mondo attira da anni le multinazionali del tessile-abbigliamento e delle scarpe.

Inoltre per quasi tutte queste nazioni il turismo è la prima o seconda fonte di valuta pregiata, con punte del 10% del Pil in Thailandia e del 33% nelle Maldive. L'impatto dello tsunami rischia di durare più a lungo di quanto le deboli economie emergenti possono sopportare. Per la sola isola di Bali non sono bastati due anni a recuperare il turismo messo in fuga da un attentato terroristico. Anche se i turisti americani, europei e giapponesi in uno slancio di solidarietà volessero tornare rapidamente a trascorrere le loro vacanze nelle aree della tragedia, la ricostruzione delle infrastrutture può durare a lungo.

Un altro choc collaterale creato dallo tsunami è quello che dilaga tra le grandi multinazionali che producono in questi paesi per sfruttare il basso costo della manodopera locale. La banca d'affari Prudential ha già decretato che sono "a rischio" gli investimenti di due giganti americani in quest'area del mondo. La Nike e la Reebok - i due marchi più noti delle scarpe sportive - secondo la banca Usa starebbero riesaminando le loro scelte strategiche che avevano privilegiato Indonesia e Thailandia. La Nike fabbrica in questi due paesi il 43% delle sue scarpe, la Reebok il 36%. Nell'Asia meridionale l'impatto della globalizzazione non è certo stato sempre benefico: basti pensare ai casi di sfruttamento del lavoro minorile più volte denunciati da organizzazioni internazionali, o ai disastri ambientali dalla Union Carbide di Bhopal in poi. E non a caso da queste zone si sono levate alcune delle voci più critiche verso l'integrazione nel circuito dei mercati mondiali, come quella dell'ex premier Mahatir in Malaysia. Ma se la globalizzazione talvolta ha fatto paura, è ancora peggio quando la sua marea si ritira e rimette a nudo quella povertà antica che si sperava di aver debellato con l'aiuto degli investimenti stranieri.

Tanto più che oggi sul destino economico del sud-est asiatico pesa l'ascesa di un formidabile rivale-vicino, che è la Cina. Per la Nike e la Reebok, ma anche per molte altre multinazionali, smobilizzare gli investimenti dalle aree colpite dallo tsunami non significa tornare a fabbricare nei paesi ricchi. Esiste un'alternativa molto più attraente e competitiva. Già gli altri paesi asiatici vivevano con ansia l'avvicinarsi del primo gennaio, quando in base agli accordi del Wto cadranno i limiti alle esportazioni di tessili, abiti e maglieria "made in China". La caduta delle barriere preoccupava gli indiani, i thailandesi e i malesi ancor più dei produttori italiani o americani. Ora la tragedia del 26 dicembre rende ancora più vulnerabile l'industria tessile dell'Asia meridionale.

L'ultimo grande rischio economico deriva dalla struttura ancora arretrata di questi paesi. Il 90% dei loro poveri vivono nelle zone rurali e qui i danni del maremoto possono colpire per molti anni. Lo tsunami ha provocato distruzioni anche tra il bestiame che per milioni di contadini è la fonte di sussistenza. L'allagamento di acqua salata, e lo spargimento di sostanze tossiche da depositi industriali distrutti, può rendere aridi a lungo intere regioni coltivate.
Per i paesi ricchi questa tragedia suggerisce alcune dure lezioni.

La prima riguarda la nostra stessa sicurezza. L'inaudita carenza di infrastrutture e di piani di allarme per prevenire gli tsunami - quando sarebbe bastato reinvestire in quei dispositivi una piccola percentuale dei profitti delle multinazionali alberghiere - ha seminato il lutto anche tra noi. La sicurezza è un bene collettivo, che tradizionalmente viene garantito dagli Stati nazionali. Ma nell'economia globale in cui viviamo non possiamo più disinteressarci della "qualità" degli Stati neppure in zone remote del pianeta: della loro democrazia, del buongoverno, della cura degli interessi collettivi.

Un altro monito riguarda l'affidabilità delle nostre promesse di aiuti. Purtroppo non è vero che questo tsunami sia la più grave calamità naturale a memoria d'uomo. Nel 1976 in Cina un terremoto fece 600.000 morti, nel 1970 in Bangladesh un ciclone uccise 500.000 persone. Ma non c'erano turisti occidentali di mezzo.

Stavolta in mezzo a tanto dolore che ci colpisce direttamente, possiamo sperare che la nostra attenzione sia meno superficiale, la memoria meno corta. Forse non si ripeterà quel che è successo un anno fa in Iran. Un terremoto vi fece 26.000 morti il 27 dicembre del 2003. Degli aiuti promessi dai paesi ricchi è arrivato appena l'uno per cento.
 

(31 dicembre 2004