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Perché Benedetto XVI non ha voluto tacere, né ritrattare

di Sandro Magister

in l'Espresso 28 settembre 2006

La lezione capolavoro del papa teologo, dalla cattedra dell'università di Ratisbona, ha davvero messo i brividi al mondo. Perché quello che Benedetto XVI là ha detto, è avvenuto. Il papa ha spiegato la distanza che corre tra il Dio cristiano che è amore, immolato in Gesù sulla croce, ma è anche “Logos”, ragione, e il Dio adorato dall'islam, così trascendente e sublime da non esser legato più a nulla, nemmeno a quel ragionevole asserto secondo cui non dev'esserci “nessuna costrizione nelle cose di fede”. Il Corano questo scrive, nella sura seconda puntualmente richiamata dal papa, ma poi scrive anche altro ed opposto. E la violenza che s'è avventata dal mondo musulmano sul papa e i cristiani conferma che è questo altro a pesare, a dar forma e sostanza allo sguardo che miriadi di fedeli di Allah lanciano sul mondo infedele. L'altra faccia della lezione di papa Joseph Ratzinger a Ratisbona è il sangue versato nella musulmana Mogadiscio da suor Leonella Sgorbati, donna velata ma libera, una martire la cui ultima parola è stata per i suoi uccisori: “Perdono”.

Veramente, la quasi totalità della lezione di Benedetto XVI a Ratisbona era rivolta al mondo cristiano e all'Occidente e all'Europa, a suo giudizio così sicuri, troppo, della loro nuda ragione da smarrire il “timore di Dio”. Ma anche qui le parole del papa hanno trovato conferma nei fatti. Di pari passo col crescere della violenza verbale e fisica di parte musulmana, sull'altro versante, quello teoricamente suo, il papa è stato bersaglio di incessanti bordate di fuoco amico. Come i dotti compagni di Giobbe imputavano a lui la colpa delle sue disgrazie, così attorno a Benedetto XVI è stato tutto un vorticare di consigli e rimproveri d'analogo segno.

Anche in Vaticano è andata così. Benedetto XVI ha avuto la fortuna d'insediare un nuovo segretario di stato e un nuovo ministro degli esteri, entrambi di sua stretta fiducia, proprio il giorno d'avvio dell'attacco musulmano contro di lui, venerdì 15 settembre, appena tornato dal suo viaggio in Baviera. Ma il brontolio della curia a lui ostile non s'è affatto acquietato, anzi. Passi per il nuovo ministro degli esteri, che è l'arcivescovo corso Dominique Mamberti, che è stato nunzio in Sudan, Somalia, Eritrea e prima ancora in Algeria, Libano, Kuwait, Arabia Saudita, e quindi è un conoscitore diretto del mondo arabo e musulmano, versato nelle arti diplomatiche. Ma la nomina a nuovo segretario di stato del cardinale Tarcisio Bertone, questa no, non gliel'hanno perdonata. Il fatto che Bertone non sia un diplomatico di carriera, ma un uomo di dottrina e un pastore d'anime, è ora ritorto ancor più contro il papa, come prova della sua inettitudine sulla scena politica del mondo. In Baviera, a passaggio delle consegne non ancora avvenuto, accompagnava Benedetto XVI il segretario di stato uscente, il cardinale Angelo Sodano, una vita tutta spesa in diplomazia. Ma il papa si guardò bene dal far controllare previamente da lui la lezione che si apprestava a dettare a Ratisbona. Blocchi interi del testo sarebbero stati censurati, se a criterio supremo fosse stata eletta quella Realpolitik di cui si nutre la diplomazia vaticana di Sodano e colleghi.

Anche per Benedetto XVI il realismo nei rapporti tra la Chiesa e gli stati è un valore. Lo è stato con i sistemi totalitari del Novecento: col nazismo tedesco come col comunismo sovietico. I controversi silenzi di Pio XII col nazismo e poi, col comunismo, di Giovanni XXIII, del Concilio Vaticano II e della Ostpolitik di Paolo VI avevano le loro forti ragioni, in primo luogo la difesa delle vittime di quei sistemi medesimi. Ma ora un pari silenzio si esige da Benedetto XVI nei confronti del nuovo aversario, l'islam: un silenzio al quale spesso si dà il nome di dialogo. Papa Ratzinger non l'ha rispettato? Ed ecco il contrappasso che si merita, ad opera dell'islam “offeso”: minacce, cortei, roghi in effigie, governi che pretendono ritrattazioni, ambasciatori richiamati, chiese incendiate, una suora uccisa. Di tutto ciò il papa si vede assegnare la sua parte di colpa. Mentre invece è beatificato “post mortem” il predecessore Giovanni Paolo II, che pregava mite ad Assisi assieme ai mullah musulmani e visitando a Damasco la moschea degli Omayyadi ascoltava in silenzio le invettive scagliate dai suoi ospiti contro i perfidi ebrei. Nessuna fatwa ordinò allora di abbattere le mura vaticane, né di sgozzare papa Karol Wojtyla. Ali Agca, che gli sparò contro, era musulmano per caso, l'assassinio era stato ordito in territorio cristiano...

Al realismo della politica, Benedetto XVI non nega il giusto prezzo. La segreteria di stato ha mobilitato la rete delle sue nunziature perché i governi abbiano a disposizione il testo integrale della lezione di Ratisbona, così come la nota di spiegazione ufficiale diffusa sabato 16 settembre dal cardinale Bertone e le giustificazioni dette all'Angelus di domenica 17 dal papa in persona. Entro fine settembre saranno convocati in Vaticano per un'ulteriore atto distensivo gli ambasciatori dei paesi a maggioranza musulmana. E più in là il pontificio consiglio per la cultura presieduto dal cardinale Paul Poupard prepara un incontro con esponenti religiosi dell'islam.

Ma per Benedetto XVI il realismo non è tutto. Il dialogo che vuole tessere con l'islam non è fatto di pavidi silenzi e di abbracci cerimoniali. Non è fatto di umiliazioni che in campo musulmano sono interpretate come atti di sottomissione. La citazione che egli ha fatto a Ratisbona dei “Dialoghi con un maomettano” scritti alla fine del Trecento dal dialogante cristiano, l'imperatore bizantino Manuele II Paleologo, l'aveva scelta a ragion veduta. Si è in guerra, Costantinopoli è sotto attacco e di lì a mezzo secolo, nel 1453, sarebbe caduta sotto il dominio ottomano. Ma il colto imperatore cristiano porta il suo interlocutore di Persia sul terreno della verità, della ragione, della legge, della violenza, su ciò che fa la vera differenza tra la fede cristiana e l'islam, sulle questioni capitali da cui discendono la guerra o la pace tra le due civiltà.

Anche i tempi attuali papa Ratzinger li vede come gravidi di guerra, e di guerra santa. Ma chiede all'islam di fissare esso stesso un limite al “jihad”. Propone ai musulmani di slegare la violenza dalla fede, come prescritto dallo stesso Corano. E di riallacciare invece alla fede la ragione, perché “agire contro la ragione è in contraddizione con la natura di Dio”.

A Ratisbona il papa ha esaltato la grandezza della filosofia greca, quella di Aristotele e Platone. Ha mostrato che essa è parte integrante della fede biblica e cristiana nel Dio che è “Logos”. E anche questo l'ha fatto a ragion veduta. Quando il Paleologo dialogava col suo interlocutore persiano, la cultura islamica era da poco fuoruscita dal suo periodo più felice, quello dell'innesto della filosofia greca sul tronco della fede coranica. Chiedendo oggi all'islam di riaccendere il lume della ragione aristotelica, Benedetto XVI non chiede l'impossibile. L'islam ha avuto il suo Averroè, il grande commentatore arabo di Aristotele di cui fece tesoro un gigante della teologia cattolica come Tommaso d'Aquino. Un ritorno, oggi, alla sintesi tra fede e ragione è la sola via perché l'interpretazione islamica del Corano si liberi dalla paralisi fondamentalista e dall'ossessione del “jihad”. È il solo terreno per un dialogo veritiero del mondo musulmano con il cristianesimo e l'Occidente.

All'Angelus di domenica 17 settembre, ripreso in diretta anche dalla tv araba Al Jazeera, Benedetto XVI ha detto il suo “rammarico” per come la sua lezione è stata fraintesa. Ha detto di non condividere il passaggio da lui citato di Manuele II Paleologo, secondo il quale in ciò che di nuovo ha portato Maometto “troverai soltanto cose cattive e disumane, come la direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede”. Ma non si è scusato di niente, non ha ritrattato una sola riga. La lezione di Ratisbona non è stata per lui un esercizio accademico. Là non ha smesso le vesti del papa per parlare solo la lingua sofisticata del teologo, a un uditorio di soli specialisti. Il papa e il teologo in lui sono tutt'uno, per tutti. Il cardinale Camillo Ruini, che più di altri capi di Chiesa ha capito l'essenza di questo pontificato, ha detto lunedì 18 settembre al direttivo dei vescovi italiani che “le coordinate fondamentali” del messaggio che Benedetto XVI va proponendo alla Chiesa e al mondo sono in questi tre testi: l'enciclica “Deus Caritas Est”, il discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005 sull'interpretazione del Concilio Vaticano II e, ultima ma non meno importante, la “splendida” lezione di Ratisbona.

Benedetto XVI è fiducioso. Non avrebbe osato tanto se non credesse in una reale possibilità che nel pensiero islamico si riapra un'interpretazione del Corano che sposi fede e ragione e libertà. Però troppo deboli e rare, quasi introvabili, sono le voci che nel mondo musulmano raccolgono la sua offerta di dialogo. E troppo solo il papa si trova, in un Europa smarrita che un po' somiglia davvero all'Eurabia descritta da Oriana Fallaci, una “atea cristiana” che egli ha letto, incontrato e stimato. E poi c'è la violenza che incombe sui cristiani in terra d'islam, e anche fuori. Quando per far tacere il papa si uccidono i suoi, tanto più se innocenti, una suora, una donna.