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Pro e contro Oriana Fallaci

A pagina 2 di La Stampa - Libero - Il Foglio - Il Riformista del 2005-11-24, Mattia Feltri - Renato Farina - un giornalista - Jacopo Tondelli firma un articolo dal titolo «Il giornale di An sulla Fallaci:»

LA STAMPA di mercoledì 24 novembre 2005 pubblica a pagina 2 l'articolo di Mattia Feltri "Il giornale di An sulla Fallaci: "E' vicina alla xenofobia".
All'attacco a Oriana Fallaci si aggiungono le critiche di alcuni intellettuali vicini al partito alla linea ritenuta troppo filo-Usa e filo-Israele della dirigenza di An.
E' la proposta di un ritorno al passato?

Ecco il testo:

Un postulato particolarmente schematico vorrebbe Oriana Fallaci amata a destra e detestata a sinistra. Vera la seconda parte, falsa la prima. A destra già era nota la perplessità dei cattolici centristi, così spaventati dalla schiettezza feroce della scrittrice toscana, così distanti dalla sua tenacia nell’individuare lo scontro di civiltà. Da ieri un’altra destra, quella più tradizionalmente nata dal Movimento sociale, ha voluto marcare la distanza. Sul «Secolo d’Italia», Filippo Rossi (autore con Luciano Lanna di «Fascisti immaginari») ha scritto una pagina programmaticamente richiamata in prima pagina, e titolata senza prudenze: «Oriana e la destra. Dov’è il feeling?».
Doveva succedere, prima o poi. Anzi, si poteva scommettere che succedesse prima. Perché in effetti è soprattutto l’ostilità della Fallaci per l’oscurantismo islamico e per il fanatismo importato in Europa a non coincidere con la storia della destra. Come ha scritto Rossi, certe chiusure prossime alla xenofobia sono estranee ad Alleanza nazionale, e comunque a tutto un mondo che già qualche tempo fa trovò nello storico Franco Cardini e nel giornalista-scrittore Pietrangelo Buttafuoco le voci del dissenso. Oggi Cardini spiega che, dopo quattro anni e mezzo di governo, le persone di destra «si sentono tradite se appartengono alla base, e in colpa se appartengono ai quadri». Cardini si rifersice a una deriva «liberal-liberista, occidentalista, berlusconiana, che ha preso Alleanza nazionale. Molti sono stati costretti, o si sono persuasi, a vendersi per un piatto di lenticchie. Per un assessorato. O forse per un piatto di caviale, ma deviando dalla tradizione del partito».
In effetti si può tranquillamente parlare di tradizione anche senza andare indietro sino al fascismo come spada dell’Islam, nei sogni di Benito Mussolini. Lo fa Cardini e lo fa Buttafuoco, secondo il quale «è vero che in Alleanza nazionale c’è un’anima più moderna, e uso il termine per indicare gli ultimi arrivati. Ma è anche vero che c’è un’anima più riflessiva, più estesa, che rispecchia effettivamente la tradizione. E intendo la tradizione spirituale, il legame con il cattolicesimo, e quindi con l’islam, che come il cattolicesimo è tradizione e spiritualità».
Poi ci sono doveri di governo, pragmatismi ministeriali. Non tutto è fattibile e dicibile, specialmente se si diventa ministro degli Esteri, come è capitato al presidente di An, Gianfranco Fini. Buttafuoco lo vede «in una posizione intermedia, fra i moderni e tradizionalisti. Naturalmente gli impegni istituzionali e le alleanze del paese gli hanno imposto una misura. Ma non lo credo così prossimo alla Fallaci. In ogni caso, bene ha fatto il Secolo a sottolineare tensioni che esistono e sono rimaste un po’ ai margini. Perché chiunque di noi conosce un fatto: chi sa ascoltare il canto gregoriano è già predisposto ad ascoltare il canto del muezzin; e non può capirlo chi si è imbarbarito suonando le chitarre sul sagrato».
Adesso che la legislatura è più o meno all’ultima curva, anche in Alleanza nazionale si comincia a rimettere a posto alcune cose. Per esempio, dunque, l’amicizia col mondo arabo, di cui si è potuto dubitare per via dei più recenti flirt di Fini con Washington e Gerusalemme. Ed è anzi probabile che il partito pensi per sé a quel ruolo di interprete della politica ecumenico-mediterranea a lungo appartenuta all’Italia. Per Cardini, finiti i tempi «delle scelte politiche più redditizie», tornano quelli «della riscoperta della cultura cattolica e sociale del partito. E con questa cultura, che diavolo c’entra la Fallaci, fortemente laica, anti-islamica e per formazione di sinistra?».

LIBERO pubblica in prima pagina e a pagina 7 un commento di Renato Farina, "Se anche la destra molla Oriana", che riportiamo:

La Destra italiana ieri ha scaricato Oriana Fallaci. L'ha spedita lontano dagli occhi e dalla sua camicia nera. Un po' a Oriana dispiacerà, ma non troppo. Non ha mai voluto una patria ideologica, e quella lì poi non c'entra nulla con la sua storia famigliare e di giornalista. Lo scrisse proprio a Libero, nell'agosto del 2004. Polemizzava con Armando Plebe, illustre filosofo e nostro collaboratore, che l'aveva criticata e da cui si era sentita offesa. La sua prosa scandiva: «(...)anziché i miei giudizi sull'Islam e sull'invasione islamica, forse, al signor Plebe dà fastidio che nel libro "La forza della ragione" io illustri il mio non-rispetto per la Destra. Un non-rispetto che equivale il mio non-rispetto per la Sinistra. Forse lo irrita il fatto che nel libro "Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci" ricordi agli immemori che con la Destra non ho mai avuto nulla in comune e non avrò mai nulla in comune, che per la Destra non ho mai votato e non voterò mai. Io sono una rivoluzionaria » . Dispiace a noi, però. Contavamo di essere meno soli. Perché non è questione di etichette, di destra, sinistra o centro, ma di sostanza delle cose. Di sentimento del presente. Ora la Destra la rinnega attingendo dallo sgabuzzino dei veleni gettati in faccia ad Oriana dall'universo che va da Adel Smith alla sinistra no global. Non ci credete? Si legga questo brano di fantastica obliquità, perché non si dà addosso ad Oriana come persona umana, ma come cartina di tornasole. Letterale. Trascrivo: «È proprio utilizzando Oriana Fallaci come cartina di tornasole che si scopre una destra politica e culturale italiana assai diversa da come troppi osservatori la vorrebbero: ammantata da rancori e fobie, tendente più che a far prevalere il ragionamento a mobilitare le viscere... Si scopre - proprio a utilizzare il rapporto con gli scritti fallaciani - l'esistenza di una destra lontana dalle invettive, dalla xenofobia, da qualsiasi chiusura mentale. E da quello che Giancarlo Bosetti ha definito "organismo"». Mica male come valanga di improperi. Come scelta di un alleato. Proprio il Bosetti autore del libricino intitolato "Cattiva Maestra". Ma sì. Diciamocelo. Questo ripudio in pompa magna è una resa alla cultura dominante. Significa che una parte politica e culturale di solito anticonformista si associa a quella contraria e imperante (di sinistra, ovvio). E lo fa per esprimere il proprio ostracismo a Oriana. Mai in passato si era assistito a una convergenza così sonora tra gli opposti, che ora nuotano lieti e coordinati nel brodo del pensiero unico. Il certificato di cattiva condotta nei confronti della Fallaci occupa due pagine sul Secolo d'Italia, quotidiano ufficiale di Alleanza nazionale. Insomma: il massimo. non appare su un bollettino periferico. Il titolo è: "Oriana e la destra. Dov'è il feeling?". La domanda è retorica. Perché il feeling non c'è proprio. Ma la formula fa capire che ci si leva di dosso una diceria come fosse un'onta. Mai vista, mai sentita, mai piaciuta, neanche da lontano. La firma non è di un autodidatta ospitato per caso: trattasi di Filippo Rossi, che è dell'ambiente, lo frequenta e ne è voce autorevole. Con Luciano Lanna ha pubblicato un bel libro: "Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra" (Vallecchi, 2003). Ecco, ora sappiamo anche questo. Rossi mostra come gli intellettuali e i politici fascisti o comunque dell'area siano allergici all'«orianismo ». Ne fa un vero e proprio catalogo. Preceduto da un preambolo: «(C'è) uno stereotipo tanto diffuso quanto infondato: perché il fatto che Oriana Fallaci e le sue tesi "dure e pure" piacciano soprattutto alla destra italiana è una di quelle certezze mediatiche praticamente date per scontate senza nessuna verifica sul campo. Date per scontate, come uno stereotipo, ma fino a prova contraria. E la prova contraria non può che arrivare dalla sincera cronaca di una lontananza, dal freddo elenco di molti distinguo...: dimostrano tutt'altro». Che cosa? «Il minimo comun denominatore della destra è in realtà profondamente, forse intrinsecamente, antifallaciano ». E questo «a proposito di muliticulturalismo, civiltà euro- mediterranea, Islam». Anzi, la destra divisa su tante cose è unita nell'essere contro la Fallaci. (In questo peraltro essendo molto unita alla sinistra, e persino spesso con medesime parole). Spiega Rossi: «Sembra quasi che le mille anime della destra italiana, sia intellettuali che politiche, si ritrovino unite su una convinzione: l'assoluta indigeribilità delle ricette viscerali snocciolate da Oriana Fallaci». Viscerali, indigeribili: insomma, la Fallaci è un po' cannibale a quanto pare, evoca solo paragoni gastrici. Peraltro con affinità linguistica con il già citato Giancarlo Bosetti il quale insiste su «ingredienti orianisti fritti». Va be'. Insomma: fuori i nomi. Eccoli. Prima però c'è un intero movimento giovanile: "Gioventù identitaria", che organizza un campo base a San Severino e chiama gli aderenti a discutere sulle «Verità fallaci di Oriana». Segue Pietrangelo Buttafuoco, intellettuale e scrittore orgogliosamente fascista, ma apprezzato da tutti, sinistra compresa: «Lei è folcloristica, ma i suoi fan sono patetici». Commenta Rossi: «Questa penna frizzante è solo la punta di un iceberg fatto di una distanza siderale». A Buttafuoco vien dietro Franco Cardini. I suoi meriti? Aver dedicato un pamphlet pensato per contrastare "La rabbia e l'orgoglio", chiamandolo "La paura e l'arroganza". Ci sono leader politici di tutte le correnti di An in questo corteo: da Adolfo Urso a Gianni Alemanno. Entrambi convinti antifallaciani, dice Rossi. Non hanno mai polemizzato direttamente con la scrittrice ma predicano il «pluralismo comunitario», che sarebbe un multiculturalismo in salsa di destra. Un'avversione generalizzata ad Oriana che è documentata - sostiene il quotidiano di partito - da un fatto: nella raccolta di firme promossa da Libero perché Ciampi la nominasse senatore a vita, «gli esponenti di An non brillano certo per presenza. Giusto qualche nome: Gustavo Selva, Daniela Santanché, Paolo Landi Di Chiavenna... e davvero pochi altri». Ancora intellettuali. Si indica Marcello Veneziani, il quale non sappiamo se gradisca la compagnia, ma dirà lui. Intanto Rossi assicura: «Altro che affinità: sembra quasi che la destra e Oriana ragionino agli antipodi». E via con Marcello de Angelis e la rivista Area. Ne saltiamo qualcuno e andiamo a Ivo Germano, il quale vorrebbe addirittura scomunicare la Fallaci, perché, come Charles Maurras dell'Action catholique, «punta a usare la simbologia cristiana per difendere un mondo laico, individualista e utilitarista». Qui, se mi si permette, Maurras non c'entra un bel nulla con la Fallaci. Lei non usa niente. Si domanda un sacco di cose. È colpita da Papa Ratzinger. Come si fa a pretendere di entrare così nel cuore delle persone? Ne manca uno: lo diciamo per ultimo, Gianfranco Fini. Viene nominato come capo degli antifallaciani. Non ha mai detto nulla. Ma lo è - per usare un avverbio marxista - "oggettivamente". È stato infatti criticato dalla Fallaci per le sue tesi sulla Turchia e sul voto agli immigrati. Cara Oriana, devi rassegnarti, sei senza patria. Forse però c'è un intero popolo, i milioni che ti leggono e ti amano, a non avere patria politica. E qui sta il problema della nostra Italia.

Anche IL FOGLIO dedica un editoriale al tema, "Fallaci Bashing", che riportiamo:

Il mondo è sempre stato pieno di cretini affaccendati, di maligni, di invidiosi che s’impiantano come parassiti sul corpo vivo di qualche idea forte, che respira, cercando di estrarne la linfa vitale attraverso la negazione ossessiva della sua virtù, della sua libertà. Segno sicuro di squalificante viltà culturale è l’attacco paranoide a Oriana Fallaci, che continua instancabilmente. Una scrittrice che ovviamente può essere come tutti criticata, che ha come tutti molti difetti, primo tra i quali un allegro e furbo egocentrismo, e manca però dei guasti capitali della mediocre cultura giornalistica italiana: l’ignavia, l’indifferenza, il formalismo, la dissimulazione disonesta. La Fallaci parla alle moltitudini che la leggono e si occupa di cose serie, che i lettori di questo giornale conoscono bene: l’islam, il multiculturalismo, la bioetica, la vita e le passioni e i sentimenti e le questioni esistenziali del mondo occidentale, del mondo moderno. Sa che cosa sia una notizia, per esempio l’11 settembre. Sa che cosa sia una tendenza di lungo periodo, per esempio l’immigrazione islamica e l’islamismo politico insediati in Europa. Reagisce alle cose che accadono con veemenza morale, in uno stile molto personale che comunica visioni, paure, ipotesi aperte su quel che è noto e su quel che è ignoto: da Terri Schiavo al mito eugenetico del bimbo sano. Succede che sbagli, incespichi, balbetti, ma non cade mai nel nullismo mediocre dei saputelli. Cerca, racconta, commenta con una libertà di tono inaudita, che dà i brividi ai tiepidi, gela il sangue ai conformisti, ma incuriosisce il mondo, passa in ogni lingua, provoca sollecitudine e interesse nel Papa.
La paranoia anti-Fallaci, l’Oriana bashing di tanti libretti e di tante chiacchiere benpensanti che non valgono più nemmeno la pena di una citazione, mostra a quale livello di piattezza, di banalità, di chiusura culturale possa arrivare quella specie di pensiero unico che passa il tempo a confortare se stesso, a immaginarsi buono nella grondante ansia di solidarietà, accogliente e dialogante senza la preoccupazione malsana dell’identità, nascondendo il fiele dentro il miele. Nel Diario di Bernanos è l’immenso curato di Torcy a spiegare: “Le bon Dieu n’a pas écrit que nous étions le miel de la terre, mon garçon, mais le sel”. Ecco, la Fallaci è per il mondo della cultura laica quel grano di sale che brucia e che irrita la ferita aperta del pensiero debole e indifferente. Chissà che non si trovino un paio di persone intelligenti, e ce ne sono anche in un establishment evanescente come quello italiano, disposte a usare le loro idee, non tanto a difesa di Oriana, che si difende benissimo con il suo silenzio e con la sua scrittura torrenziale, quanto a difesa del nostro diritto a non annegare nella stucchevole, mielosa caciara dei Fallaci-bashers.

Pubblichiamo infine un articolo di Jacopo Tondelli pubblicato dal RIFORMISTA, "Quando Arik diceva alla fallaci: "Mai Palestina" "sull'intervista di Oriana Fallaci ad Ariel Sharon nel 1982.

Ecco il testo:

«Ma i palestinesi uno Stato ce l’hanno! La Palestina c’è già e si chiama
Giordania. Per questo non c’è bisogno di creare un nuovo Stato di Palestina, né ora né mai. La Giudea, la Samaria e Gaza staranno dove sono, in Israele. Punto e basta». Così, 23 anni fa, parlò Ariel Sharon. Così, in poche frasi incalzate da un’intervistatrice aggressiva e coraggiosa, spiegò la più semplice, brutale,“pulita” delle soluzioni: che i palestinesi, se davvero esistono, si spostino tutti di qualche decina di chilometri verso est. Meglio - ovvio - se spontaneamente. Agli ebrei la Palestina storica, la terra che va dal Mediterraneo al Giordano, e ai palestinesi il resto del mondo. Per carità, non che il transfer immaginato nei primi anni Ottanta da Arik fosse un’idea nuova. Era anzi il programma storico di una parte della destra israeliana, e a suo tempo aveva solleticato addirittura il padre della patria David Ben Gurion.Ma espressa da un ministro della Difesa in carica,quattordici anni dopo i Sei terribili Giorni del 1967, e proprio mentre Israele marciava su Beirut,assumeva tutto un altro tono. Con i muscoli di Tel Aviv ben in vista davanti al mondo, l’idea di “traslocare” i palestinesi mise a molti una gran paura, e a qualcuno un certo appetito. Era l’estate del 1982 e Beirut prendeva fuoco dopo che il ministro della Difesa Sharon aveva probabilmente commesso il più grave errore strategico della sua grandissima carriera di militare, decidendo l’invasione del Libano. Così parlava Arik,e a raccogliere le sue parole era il taccuino di Oriana Fallaci. Lei progressista, lei filopalestinese, lei pronta ad esplodere di indignazione e di rabbia prima che, venti anni più tardi, a queste si accompagnasse l’orgoglio. Nel 2002, con le polveri del Ground Zero ancora sospese, Oriana quasi rinnegò quella militante intervista con la storia, e ricordò in Sharon un senso di pietà e vergogna della violenza sconosciuto agli arabi, rimproverandosi di aver difeso i palestinesi più di quanto meritassero. Per un attimo solo fu così in piena sintonia con Sharon che, proprio in quei mesi, rimpianse pubblicamente di non aver fatto uccidere Arafat allora, nel 1982, quando aveva il Raìs a tiro e ancora lontano dalle protezioni diplomatiche riservategli poi in qualità di quasi-capo di un quasi-Stato. Ironia della storia, anche Sharon avrebbe rinnegato quell’intervista pochi mesi più tardi, a cominciare dal dicembre 2003. Come una raffica di mitra sparata a freddo, Arik iniziò a parlare del ritiro da Gaza e della nascita di uno Stato palestinese.Che evidentemente ancora non esisteva ma che, in questi mesi, si è avvicinato ad ampi passi, seguendo il cammino improvviso che ha portato il premier lontano dalla statica immagine del falco. Fu sempre in quel 1982, peraltro, che il nome di Sharon conobbe suo malgrado una sgradevole quanto duratura notorietà planetaria. Gli «Sharon boia» e «Sharon=Hitler» spuntarono
sui muri di mezzo occidente, all’improvviso sventolare delle kefiah come fossero bandiere di liberazione e rivoluzione. La folle notte di Sabra e Chatila, con le falangi maronite in libera entrata e licenza di uccidere al campo profughi, sembrò costargli la carriera. Mentre la malafede del mondo costruì la bugia di una strage ordinata da Sharon in persona, fu il suo stesso paese a metterlo all’indice sulla base dell’inchiesta della commissione Kahan. Perché il ministro della Difesa ha il potere e la responsabilità politica di evitare che certe cose accadano, tanto più nel mezzo di una campagna militare, quella del Libano, che lui aveva caldeggiato contro il parere di molti. Quel 1982 sembra oggi lontano secoli, e per capirlo basta vedere chi allora erano i nemici di Arik,e chi sono stati in questi mesi di rivoluzione i suoi migliori alleati. Tra i primi firmatari della petizione che ne chiese ed ottenne le dimissioni, c’era il nome di Galia Golan. La cofondatrice di «Peace now» l’estate scorsa è stata tra le personalità pubbliche più attive nell’organizzazione dei comitati pro-ritiro, quelli che distribuivano nastri blu da attaccare alle macchine, quelli che manifestavano a Tel Aviv contro il fanatismo messianico dei coloni. Comitati pro- Sharon,insomma,zeppi dei suoi avversari storici, di tanti che credevano che sarebbero morti orgogliosi
di non avergli mai stretto la mano e di increduli, riluttanti, pacifisti. Con tanti complimenti da parte di Avraham Yeoshua, Amos Oz e David Grossmann. Perché i cromosomi del leader si vedono nella capacità di farsi seguire, ammirare, difendere, magari cambiando seguaci e sostenitori. O obbligando gli avversari di prima a cambiare opinione di fronte a proposte epocali, che in coscienza non si possono rifiutare. E a Sharon tutto questo non è mancato mai.
Come spesso capita a queste leggende mediorientali contemporanee, i primi anni della sua vita sono avvolti dalle nebbie della mitologia. Da dove viene Ariel Sharon? La biografia tradizionale lo voleva nato in Russia nel 1928 col cognome tedesco di Scheinermann, da una famiglia di socialisti trasferitisi in Palestina nel 1942. Ma un’affascinante quanto improbabile versione alternativa, lo descriveva addirittura figlio dell’Uzbekistan, e cresciuto con la sindrome da accerchiamento proprio di quella generazione di ebrei caucasici, stretti tra bolscevichi e musulmani, che ne avrebbe accompagnato la psicologia politica fino alla vecchiaia. La storia ufficiale e corroborata da testimonianze molteplici, tuttavia, racconta che Ariel è nato nel 1928 nella Palestina mandataria, nel Moshav di Kfar Malal, nel mezzo della pianura costiera di Sharon. Da quell’area già descritta nella Bibbia, la famiglia Scheinermann
ha preso il cognome con cui Arik si è fatto conoscere al mondo, seguendo l’esempio dei tantissimi che, rigettando il cognome famigliare, volevano in
realtà lasciarsi alle spalle la Diaspora,con il suo carico di sofferenze e persecuzioni. E forse, chissà, anche per scacciare la tentazione della nostalgia scritta in Yiddish che un grande figlio di Israele, Amos Oz,
ricorda presente e viva nella sua casa di bambino figlio di ebrei europei.
Erano gli anni in cui il tessuto sociale ebraico andava costituendosi, nella Palestina amministrata dagli inglesi, anche se la nascita di uno Stato degli ebrei era ancora soltanto una meta ideale, posta sulla linea di un orizzonte lontano. Quelle prime generazioni di “sabra” - di ebrei nati in Palestina - si forgiavano al mito del nuovo ebreo. Avrebbero dovuto crescere come combattenti israeliani, agricoltori forti, patrioti veri, finalmente lontani dallo stereotipo dell’intellettuale ebreo gracile e sifilitico di Vienna o Berlino, inconsapevole carne da macello per l’odio antisemita che montava
rapido nel Vecchio Continente. Ed è innegabile che,a suo modo,di quella nuova antropologia ebraica Ariel Sharon sia stato un prototipo ben riuscito. Alla prima occasione buona, nella guerra di indipendenza del 1948, scrisse infatti il proprio nome di ventenne sulle pagine ancora intonse della storia israeliana. Nell’Haganà comandava un’unità della Brigata Alexandroni, preposta
al controllo della piana costiera che da Haifa arriva fino a Tel Aviv. Controllava insomma la sua terra, il suo Moshav, la sua famiglia, quando il 7 dicembre firmò la prima azione di attacco a convogli arabi. Un punto di
rottura nella strategia dei combattenti ebrei, che iniziarono da quel momento
ad abbandonare una tattica di difesa e conservazione, per chiudere i conti con gli arabi passando all’attacco. Nei documenti dell’epoca non c’è in verità traccia di Ariel Sharon: il giovane comandante si chiama per tutti «Arik». Da allora il nome di battaglia gli è rimasto cucito addosso come un vezzo, uno scudo, una protezione. Potere di un mito fondativo - la guerra d’indipendenza del ’48 - forte e vicino nel tempo come nessun altro in occidente,e di una filiera ininterrotta di guerre che non hanno consentito mai, a Sharon e al paese intero, di dismettere la mimetica e di far uscire i campi di battaglia dai giornali per relegarli ai libri di storia. Nella guerra di Seuz del 1956, infatti, Sharon è ancora in campo in prima linea, al comando della 202esima
Brigata. Guerra strana, quella di Suez, in cui il giovane ufficiale rischia di compromettere per sempre una promettente carriera. A Mitla disobbedisce agli ordini dei superiori e forza la mano in un’azione ad alto rischio: quaranta dei suoi rimangono uccisi sul campo.È una pagina infelice e in buona parte ancora oscura, nell’onorata carriera di un grande uomo d’armi,che gli costò la sospensione dagli incarichi per alcuni anni. Fino al 1962, quando a guida suprema dell’esercito arriva Yitzhak Rabin e la carriera militare di Sharon riprende la sua ascesa fino al grado di generale maggiore. Giusto in tempo per
combattere dal vertice della piramide gerarchica di Tsahal la più simbolica
delle guerre che hanno segnato la breve storia d’Israele, quella dei Sei Giorni,
e per essere promosso a comandante dell’esercito per gli stanziamenti nel Sud d’Israele dopo la vittoria-lampo del 1967. La carriera militare sembra finire col pensionamento del 1973, lo stesso anno in cui contribuisce a fondare il Likud. Ma è proprio da pensionato richiamato in servizio per la guerra
del Kippur che invece Sharon scrive le pagine più alte della sua carriera di
stratega. Ancora una volta comanda un’unità armata sul fronte egiziano. Si
incunea in una breccia tra le truppe nemiche arrivando addirittura a cento
chilometri dal Cairo, e obbligando gli egiziani a difendersi. Proprio nel momento più critico per l’esercito israeliano che, per la prima volta dal 1948, rischiava seriamente di uscire sconfitto sul campo dalle truppe arabe.
A quel punto Arik è davvero un eroe di guerra in pensione,devotamente ringraziato da un paese che forse gli deve la sua stessa sopravvivenza, e uno
stratega studiato in tutte le accademie militari del mondo. Il politico Sharon
nasce lì, con l’ingresso alla Knesset nel 1973 e le tante, improvvise svolte di
una carriera in cui solo la durezza di posizioni sulla questione palestinese
sembrava fare da tratto unificante. Fonda il Likud ma poi ne esce; lavora con i laburisti durante il governo Rabin di metà anni Settanta ma è il Labour stesso a non volerlo tra le sue fila; sostiene la colonizzazione nei Territori occupati ma poi fredda i coloni ebrei del Sinai decidendone, nei primi anni
Ottanta, la smobilitazione.Fatto di non poco conto, si confronta in due decenni
con personalità di primissimo piano - Begin, Rabin, Shamir - senza mai riuscire
a metterne in crisi le leadership. Arriva infine alle soglie della vecchiaia con un passato glorioso di militare alle spalle ma, apparentemente, senza un futuro di statista e quando un fiume di entusiasmo, latte e soprattutto miele travolge il mondo per gli accordi di Oslo, per Arik pare proprio finita. Neanche la morte tragica di Rabin gli restituisce spazio, in un Likud che preferisce il vento nuovo e il fare telegenico di Bibi Netanyahu. E se Arafat a
Camp David avesse sottoscritto le offerte di Barak e la buona volontà di Bill Clinton, di Sharon ci saremmo tutti dimenticati da un po’. Perché furono proprio il cinismo e la spregiudicatezza del suo nemico di sempre a innescare
la miccia che, in pochi mesi, riportò Sharon ai vertici della politica israeliana e alla ribalta del mondo. Un mondo ingenuo o male informato, che volle credere alla favoletta di una seconda Intifada a base di kamikaze, innescata dai passi di Sharon sulla Spianata delle Moschee alla fine dell’estate del 2000. La seconda Intifada nasceva altrove, da una leadership palestinese autocratica, corrotta, incapace di parlare il linguaggio della politica e del compromesso. Il fallimento di Barak e il terrore per le strade di Gerusalemme aprirono così la via a Sharon, e alla prima vera opportunità politica della sua vita il vecchio guerriero non ha fallito. Non ha temuto di sfidare i pregiudizi del mondo, e di usare la mano pesante di fronte alla tragedia del terrorismo fino a costruire il Muro. Presto bollato come Muro dell’Apartheid o Muro di Berlino dalle propagande arabe o europee, sarebbe stato comodo e forse anche prevedibile che Sharon si fermasse lì. Come molti altri prima di lui,ha capito l’insostenibilità e forse anche l’ingiustizia della colonizzazione. Ma come nessun altro prima, ha saputo agire per risolverla. Spiazzando tutti, ancora una volta.A fronte dello storico ritiro da Gaza, l’aver spaccato senza troppe remore un partito schiavo dei suoi errori può sembrare oggi cosa da poco, non fosse che inventarsi il centro in un paese che dalla sua nascita ne ha fatto a meno sa di impresa epocale. Qualche anno fa, quando ancora era un falco, Sharon ha pubblicato un’autobiografia intitolata Il Guerriero. La vita politica israeliana, vi è scritto, è come una ruota che gira incessantemente, e quel che oggi sta sotto domani sarà sopra. Ancora non sapeva, probabilmente, che la più forte incarnazione di questa ingenua metafora doveva ancora arrivare. Con lui minacciato di morte, come già Rabin, a sgomberare i coloni e a fondare un partito «per fare la pace coi palestinesi». Di fronte a un mondo in attesa, senza sorrisi sarcastici o sconcertati per la parola «pace» stampata come un manifesto sulla sua bocca: solo con la prudente, timorosa speranza che forse, forse, forse, questa è davvero la volta buona.

 

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