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IRAQ: OTTO MILIONI ALLE URNE. IL TERRORISMO NON FERMA IL VOTO, 30 GENNAIO 2005

 

GLI IRACHENI SI SCOPRONO CITTADINI
EZIO MAURO
 

  la Repubblica - 1 febbraio 2005


Tutti i giornali liberi del mondo hanno pubblicato la fotografia delle donne irachene in fila al seggio elettorale in attesa di poter votare. Quell´immagine è un testa-coda tra due mondi, quello delle hijab nere lunghe fino ai piedi, che lasciano intravvedere soltanto una parte del volto femminile, e quello delle schede elettorali, che le donne tenevano in mano a Najaf e a Bagdad, davanti alle urne. Quei due mondi ieri si sono congiunti per un giorno in Iraq, ed è un bel giorno per la democrazia.
Per la prima volta non conta tanto il risultato del voto quanto il compiersi del vecchio rito democratico, nuovissimo in quella storia e in quella geografia, addirittura sacrilego in quella cultura, se è vero che Zarqawi alla vigilia aveva lanciato l´anatema di Al Qaeda proprio contro la democrazia: empia perché pretende di affiancare la sovranità popolare a quella divina trasformando i candidati in semidei, mentre il Dio di Bin Laden parla ai fedeli ma non riconosce il popolo e soprattutto non divide il comando.
Con il voto di domenica non si è certo insediata la democrazia in Iraq: ma la si è testimoniata in massa e in concreto, rivelando che non è soltanto un costume culturale dell´Occidente, ma un metodo per dar forma ai diritti che può dunque avere un significato anche in quelle latitudini. Di regola, ha spiegato Huntington, noi occidentali chiamiamo "universali" dei valori che per i non occidentali sono semplicemente nostri, cioè occidentali. In questo caso, verrebbe da dire, la democrazia dimostra di poter essere un valore più universale di quanto noi stessi pensiamo e soprattutto rivela - almeno potenzialmente - di poter trascendere l´Occidente, la sua esperienza storica e i confini della sua cultura, fuoriuscendo dal Novecento euroamericano dentro il quale sembrava confinata nella sua capacità espansiva e nella sua forza di conversione.

Gli iracheni alle urne scoprono di essere cittadini

Così come non ha insediato la democrazia, ma l´ha testimoniata con forza inattesa, nello stesso modo il voto non ha certo sconfitto e cancellato il terrorismo in Iraq, che ha colpito anche domenica e continuerà ad uccidere: ma ha sconfitto il terrorismo quando si fa partito della guerra civile, quando pretende di dettare i tempi e i veti dell´agenda civile e pubblica di una nazione dilaniata, quando vuole zittire con la simbologia definitiva, finale, dell´individuo-kamikaze il simbolo disarmato e per Al Qaeda intollerabile dell´individuo-elettore.
Quel simbolo è infatti l´inizio possibile dell´eversione democratica, perché segna l´ingresso nel mondo arabo del concetto di cittadinanza. Una cittadinanza spaventata, ancora rattrappita, mutilata dall´assenza sunnita, suscitata al voto da leader che in parte non credono affatto alla democrazia, ma oggi la usano come scorciatoia per il potere. E tuttavia una cittadinanza allo stato nascente, pronta a sfidare i cecchini e le vendette, i mortai e gli uomini-bomba. Dunque in qualche modo già cosciente di sé, con quella "dignità" che Bernardo Valli ha ben visto nelle strade di Bagdad, tra il coraggio, la paura, il rifiuto e l´euforia. Dignità politica che è coscienza dei gesti, intelligenza dei riti, cognizione dei simboli, dunque anche della posta immateriale in gioco, che va al di là dell´elezione dei 275 membri dell´Assemblea Nazionale. Potremmo dire che è la fondazione embrionale della civitas, l´avvio di un percorso di uscita dalla subalternità del suddito e del fedele che per partecipare deve farsi "martire", per battezzare con il voto un soggetto teoricamente capace di esercitare e rivendicare i suoi diritti.
Questo risultato avrà un effetto anche esterno, perché l´America che oggi celebra il seme democratico impiantato dal suo esercito in Iraq non potrà non essere conseguente nel lasciar spazio alle istituzioni nascenti del Paese, da rendere via via più autonomo. E l´Europa, dopo il giro di boa elettorale che azzera una fase e ne può fondare un´altra, inedita, deve sentire il dovere di prendervi parte con i suoi valori e le sue differenze, aiutando così gli Stati Uniti ad uscire dall´errore unilaterale: che ha prodotto risultati, ma resta tuttavia un errore.
Mi stupisce francamente che di fronte a tutto questo un pezzo della sinistra insista nel negare l´evidenza e cerchi di nasconderne il significato, spiegando in nome dell´occupazione americana che le elezioni non erano libere: mentre al contrario la libertà di voto veniva minacciata dai terroristi, maledetta da Al Qaeda, braccata dai kamikaze, conquistata con scelte individuali di coraggio civile dai cittadini che rispondevano al terrore uscendo di casa per cercare le urne. Mi domando: quale retropensiero inconfessabile nasconde questo ragionamento che impedisce a troppe persone di coniugare i valori della sinistra con il valore - semplice, concreto, evidente - di ciò che è accaduto in Iraq?
Essere contro la guerra così com´è stata impostata e condotta, contro l´unilateralismo di George Bush, contro una concezione della politica che riduce l´Occidente a un sistema di delega per la Superpotenza superstite non significa affatto cedere all´antiamericanismo, puntare sul tanto peggio, misurare gli eventi del mondo sul vantaggio che comportano per Bush e per la destra statunitense e di casa nostra. Questa è miseria politica, riduzione dei valori a puro strumento tattico di convenienza, da dosare secondo i leader, i Paesi e le alleanze, l´utilità contingente. Noi restiamo contro la guerra, le sue motivazioni fallaci, il suo metodo pericoloso e sbagliato. Ma pensiamo che come quando è caduto il tiranno, anche domenica 30 gennaio sia stato un gran giorno per l´Iraq: quando i cittadini hanno scoperto il voto, hanno voluto esercitarlo, hanno scelto di contare per la prima volta nel destino del loro Paese.


Pace e guerra, riflessioni dopo la svolta
BAGDAD, IL VOTO CHE CAMBIA TUTTO
di GIANNI RIOTTA
 

  dal Corriere - 1 febbraio 2005


Non c’è bisogno di cambiare idea sulla guerra per lavorare ora alla pace. Non è necessario approvare l’intervento in Iraq contro Saddam Hussein, per gioire con i milioni di coraggiosi cittadini e cittadine che han votato, da Bagdad, al Kurdistan, alle aree sciite, perfino tra le trincee fumanti di Falluja. Comunque abbiano giudicato l’assalto a Bagdad, le coscienze si emozionano davanti a milioni di polpastrelli colorati di indaco, conferma del primo voto libero di un popolo sfortunato. Così, ieri, quotidiani già ostili alla guerra hanno registrato con enfasi la straordinaria domenica di libertà acerba, dal parigino Le Monde che parla di «vittoria di Bush» e «primo passo» verso la democrazia, al New York Times persuaso che «i coraggiosi iracheni abbiano votato al di là delle più ottimistiche previsioni» e che sia «l’ora di gioire». Né Le Monde , né il New York Times , hanno mutato le loro, negative, opinioni sul presidente George W. Bush. Ammettono però, con pragmatismo, che non si possono abbandonare gli iracheni. Di converso, il giornale dei falchi irriducibili, il Wall Street Journal , converge al centro, chiamando gli Usa «alla diplomazia... e al compromesso politico». Davanti alle code intrepide degli iracheni ai seggi, le polemiche furiose di due anni fa si rivelano caduche, inadatte a comporre un dramma storico, aperto d’un tratto alla speranza. Chi avesse ancora dubbi sulla strategia dei ribelli, legga il manifesto del capo terrorista Abu Musab al Zarkawi: «Guerra senza quartiere contro i princìpi della democrazia e tutti coloro che li difendono». Altro che «scontro delle civiltà», Occidente contro Oriente! Per al Zarkawi, noi occidentali e gli elettori iracheni siamo alleati, e insieme dobbiamo essere puniti.
E’ quanto hanno compreso le voci libere decise a sostenere, senza reticenze, la lenta emancipazione dell’Iraq, dai filosofi Ignatieff e Walzer, ai saggisti Hitchens e Berman, ai premi Nobel per la Pace Wiesel e Ramos-Horta, al fondatore di «Medici senza Frontiere» Kouchner, perfino al Dalai Lama. E’ ora che anche i leader riformisti della sinistra italiana si pronuncino, in concreto, sui passi per costruire un Iraq libero e stabile. Certo, molti nodi restano avviluppati, dal rapporto degli sciiti di Al Sistani con la teocrazia, al ruolo dei sunniti, all’indipendenza curda, il petrolio e le basi americane: ma sono problemi da risolvere, come tanti prima, dall’Irlanda del Nord a Timor Est, con trattative e dialogo. Rassegnarsi all’immobilismo, sulla falsariga di Parigi e Berlino, gioverà poco al consenso del centrosinistra, e nulla alla sua ambizione di rappresentarsi come erede degli ideali di libertà e giustizia.
Non c’è bisogno di acrobatici revisionismi, né sono richiesti tortuosi atti di autocritica per riconoscere che in Iraq s’è voltato pagina, partecipando, con realismo, alla ricostruzione, materiale e politica, a partire dalla missione di peace-keeping di Nassiriya. Il compito di far chiarezza riguarda i leader realisti che vogliono raccogliersi intorno all’ex presidente europeo Prodi, ed è Piero Fassino a disporre, per primo, di una tribuna propizia, il congresso dei Ds, per chiamare i tanti che, in buona fede, sventolarono le bandiere arcobaleno della pace a un nuovo, e non meno nobile, impegno: costruire la pace, schierandosi, «senza se e senza ma», dalla parte degli iracheni in umile coda per votare e contro i boia che complottano nell’ombra. Domenica a Bagdad un ragazzo che ha perduto le gambe in un attacco terrorista, ha atteso a lungo per votare e poi ha detto a un cronista: «Non sarei mancato a nessun costo, avessi dovuto strisciare fin qui». Si può restare indifferenti davanti a gente così?
griotta@corriere.it