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La maledizione del Caucaso

di SERGIO ROMANO

Vent’anni fa, quando pochi occidentali avrebbero saputo trovare la Cecenia e l’Ossezia su una carta geografica, le due maggiori potenze avevano le stesse preoccupazioni. Gli Stati Uniti tenevano d’occhio il gigante sovietico e si organizzavano per meglio neutralizzare le sue minacce in Europa, in Africa e in Asia. L’Urss temeva la politica di Ronald Reagan e cercava di bilanciare la forza americana con programmi missilistici e spaziali. La Russia era impantanata nella guerra afghana, ma le sue difficoltà erano simili a quelle che gli americani avevano dovuto affrontare in Vietnam.

Ciascuno dei due grandi aveva paura dell’altro, ma sapeva di poter contare sulla solidità del proprio sistema nazionale e poteva fare fronte al potenziale nemico senza essere costretto a guardarsi continuamente le spalle. Oggi la situazione è cambiata. Le due potenze hanno spesso posizioni diverse, ma nessuna delle due si sente minacciata dall’altra, e ambedue hanno ottime ragioni per andare d’accordo. Ne hanno dato una prova spettacolare quando a Pratica di Mare, nel 2001, fu permesso alla Russia di mettere un piede all’interno della Nato.

Ma l’America di Bush e la Russia di Putin non possono godersi i frutti della distensione e stanno affrontando crisi in cui ciascuno dei due leader può perdere credibilità politica e reputazione storica. Fra la ricostruzione dell’Iraq e la normalizzazione della Cecenia esiste un evidente parallelismo. A Mosca, come a Washington, si spera che il problema venga risolto con le stesse ricette: un nuovo governo, una Costituzione, consultazioni popolari. E anche a Mosca, come a Washington, i programmi politici stanno tragicamente fallendo. Ciò che è accaduto ieri in Ossezia colpisce direttamente Putin e allarga i confini della crisi cecena. Indirettamente impegnata in Georgia, la Russia sta nuovamente combattendo da ieri sul fronte ingusceto ed è alle prese con un Caucaso sempre più burrascoso.
I terroristi che si sono asserragliati in una scuola di Beslan a 15 chilometri da Vladikavkaz, capoluogo dell’Ossezia del Nord, sono ceceni. Ma è probabile che i Servizi di sicurezza russi, quando le prime notizie sono giunte sui loro tavoli, si siano chiesti se i guerriglieri di Beslan non fossero per caso ingusceti. Anche questi ultimi sono nemici dei russi e protagonisti nell’autunno del 1991 di una sanguinosa rivolta.

Mentre i ceceni, sotto la guida del generale Dudayev, proclamavano la loro indipendenza da Mosca, gli ingusceti combattevano per riconquistare le loro case occupate dagli osseti dopo la Seconda guerra mondiale. Perdettero e vennero brutalmente repressi senza che il mondo, allora preoccupato da ciò che accadeva in Somalia e in Croazia, si accorgesse delle loro sventure. Ebbero soltanto la magra soddisfazione, qualche anno dopo, di avere un ruolo di protagonisti in uno degli ultimi romanzi di John Le Carrè («La passione del nostro tempo», edito in Italia da Mondadori), dove un giovane veterano della guerra fredda, congedato dal Servizio segreto di Sua Maestà, corre ad arruolarsi sotto le loro bandiere e muore in combattimento.

Debbo chiedere al lettore, a questo punto, di dare un’occhiata a una carta geografica del Caucaso. Se riuscirà a trovarne una abbastanza grande e particolareggiata, scoprirà che di Ossezie ne esistono in realtà due: una meridionale, incorporata dai sovietici nella Georgia, e l’altra, a nord del Caucaso, incuneata tra Cecenia e Inguscezia dove si sono verificati per l’appunto gli avvenimenti di ieri. Se la parola Ossezia non gli dice nulla cerchi di ricordare le immagini confuse che apparivano occasionalmente sugli schermi televisivi nel corso dell’estate da una regione montana e boscosa mentre il giovane presidente georgiano cercava di ridurre all’obbedienza gli osseti del Sud e accusava i russi di fomentare la loro politica secessionista.

Non basta. Vi fu un momento verso la fine degli anni Novanta in cui la guerra cecena si spostò in Daghestan dove un uomo politico di Grozny, Shamil Basayev, cercò di provocare una specie di guerra santa per la creazione di uno Stato islamico del Caucaso Settentrionale. Se il suo disegno si fosse avverato, l’Inguscezia avrebbe fatto parte di una nuova repubblica musulmana, alleata con l’Afghanistan dei Talebani. Fu quella, incidentalmente, una delle ragioni per cui Vladimir Putin, da poco chiamato a presiedere il governo del Cremlino, decise di esordire in politica con una guerra che ricorda quelle della Grande Caterina e di Nicola I negli anni in cui l’orso russo scendeva verso i mari caldi e conquistava instancabilmente, una dopo l’altra, le terre del Caucaso e dell’Asia Centrale. Ceceni, ingusceti, osseti, georgiani, daghestani, per non parlare di azeri, armeni e altre popolazioni meno note: ecco i pezzi di un complicato puzzle geopolitico e georeligioso che non cessa di bollire e ribollire sulle frontiere meridionali dello Stato russo. In ciascuno di questi Paesi vi è un conflitto e ogni conflitto è legato all’altro, come sulla scacchiera di un grande domino, da ragioni politiche, confessionali o economiche. Dove noi abbiamo visto in questi ultimi anni soltanto una questione cecena vi è in realtà una mezza dozzina di conflitti etnico-religiosi.

Per mettere un po’ d’ordine nel puzzle occorre tornare alla guerra civile fra i Bianchi e i Rossi dopo la rivoluzione d’Ottobre. Quando le due fazioni si scontrarono in queste terre, la popolazione si divise: mentre i due maggiori gruppi islamici (ceceni e ingusceti) cedevano alle lusinghe di Lenin e si schieravano con i bolscevichi, gli osseti cristiani collaborarono con i Bianchi. In apparenza, quindi, vinsero i ceceni e gli ingusceti. Ma i primi non ebbero l’indipendenza, per cui si erano tante volte audacemente battuti in epoca zarista, e i secondi scoprirono rapidamente che gli osseti, nonostante la sconfitta, erano ancora i favoriti di Mosca nella regione. Qualcuno sostenne che Stalin era di origine osseta. Ma è più probabile che il «meraviglioso georgiano» preferisse semplicemente dividere per meglio imperare.

Il risultato della politica staliniana fu che i musulmani durante la Seconda guerra mondiale fecero esattamente l’opposto di ciò che avevano fatto dopo la rivoluzione d’Ottobre. Quando i tedeschi misero piede nella regione, i ceceni e gli ingusceti, come i baltici al Nord, decisero che Hitler era meglio di Stalin. Fecero una scommessa sul cavallo sbagliato e pagarono duramente il loro errore. La vendetta di Stalin consistette nell’adozione di un provvedimento che l’Unione Sovietica aveva già applicato con successo in Ucraina all’epoca della collettivizzazione della terra: le popolazioni «colpevoli» furono costrette ad abbandonare le loro case e vennero trasferite con la forza al di là degli Urali, soprattutto nel Kazakhstan.

Non esiste in Occidente una storia di quel tragico esodo, ma chi vuol sapere come andarono le cose può leggere il grande saggio di Robert Conquest sull’olocausto ucraino pubblicato recentemente in Italia dalla Fondazione Liberal («Il grande raccolto»). Molti vennero uccisi nelle operazioni di polizia che precedettero l’esodo, molti altri morirono nei carri bestiame durante il viaggio. Nel libro di John Le Carré un funzionario sovietico racconta al protagonista, dopo una bottiglia di vodka, il dramma della sua famiglia. Sono pagine letterarie scritte da un autore di romanzi di successo. Ma hanno il tono della verità.

La destalinizzazione aprì per quei popoli un periodo di speranza. Dopo avere denunciato al Congresso del partito i crimini di Stalin, Krusciov permise alle popolazioni espulse di ritornare. Ma quando gli ingusceti rimisero piede nella loro terra scoprirono che una parte di essa (la provincia del Prigorodny, alle porte del Caucaso Settentrionale) era stata data agli osseti e che le loro case erano abitate ormai dai loro vecchi nemici. Passarono alcuni decenni e il Soviet Supremo della Repubblica russa adottò nell’aprile 1991 una legge apparentemente generosa, ma imprecisa e difettosa, sulla «riabilitazione dei popoli repressi». Gli ingusceti la considerarono insufficiente e si fecero giustizia da soli cercando di riprendere possesso dei villaggi perduti. Ricordo una manifestazione silenziosa a Mosca intorno al monumento di Puskin: un semicerchio di donne ossete vestite di nero che alzavano sulle loro teste come altrettanti stendardi le fotografie dei figli, dei padri, dei fratelli e dei mariti morti nei combattimenti. Come altre volte in passato, i russi intervennero in aiuto degli osseti e repressero la rivolta ingusceta.
Da allora ci siamo occupati soltanto di Cecenia. Non potevamo fare diversamente. Le due guerre, la distruzione di Grozny, i massacri hanno dominato lo schermo della nostra attenzione ed escluso dal nostro sguardo le questioni «minori». Ma d’ora in poi faremo bene a ricordare che non esiste soltanto una questione cecena e che nell’imbrogliata matassa del Caucaso le crisi formano un intreccio che la spada di Putin, sinora, non è riuscita a tagliare.

2 settembre 2004