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L´OFFENSIVA DEL RICATTO
GILLES KEPEL
 

  da Repubblica - 1 settembre 2004

 
IL sequestro dei due giornalisti francesi da parte del cosiddetto Esercito islamico in Iraq rientra nell´offensiva del ricatto nei confronti dell´Europa già iniziata la settimana scorsa con l´assassinio di Enzo Baldoni. Ma il sequestro dei due reporter apre un nuovo scenario: infatti diversamente dall´Italia, dalla Spagna, dalla Corea, dalle Filippine, paesi che sono già stati colpiti dai terroristi, la Francia non ha truppe in Iraq. Il pretesto della rivendicazione è stato l´abrogazione della legge francese che vieta i simboli religiosi a scuola e per il rispetto della laicità. Questo pretesto può sembrare di primo acchito incomprensibile; fino ad ora gli ostaggi erano legati sempre alla situazione sul terreno iracheno. Ma gli ultimi sviluppi mostrano che l´Iraq è entrato nell´occhio del ciclone in cui l´ha scaraventata l´occupazione americana. L´Iraq è ormai la «terra della Jihad» per eccellenza.
L´offensiva del ricatto contro l´Occidente




(SEGUE DALLA PRIMA PAGINA)
GILLES KEPEL
Accanto agli jihadisti iracheni, nelle aree sunnite vengono accolti gli islamisti internazionali venuti dall´Arabia Saudita, dalla Siria, dallo Yemen e dal Maghreb. Essi cercano ogni pretesto per rendere la loro lotta popolare nel mondo musulmano, per mobilitare le masse con un appello alla Jihad permanente. E in queste ultime settimane le tv satellitari arabe hanno reso popolari gli appelli delle organizzazioni islamiste di Francia, per esempio Uoif, Unione delle organizzazioni islamiche francesi, a manifestare contro la legge che proibisce il velo in occasione dell´inizio delle scuole che avverrà domani. Le immagini e i comunicati diffusi dalle tv arabe presentano primi piani di alcune delle poche migliaia di manifestanti, dando così la falsa impressione che milioni di musulmani abbiano preso parte alle dimostrazioni contro la proibizione del velo. E la propaganda degli islamici fa poi credere agli spettatori arabi che l´Islam sia perseguitato in Francia.
In realtà la legge sull´affermazione del principio di laicità ha impedito di portare i simboli religiosi nella scuola pubblica per rompere la spirale incontrollabile delle manifestazioni di intolleranza religiosa negli istituti, dove si stavano formando sempre più ghetti su base religiosa.
Alcuni alunni, influenzati da imam salafiti islamici, rifiutavano di sedersi accanto ai compagni «empi», francesi non musulmani. Le ragazze velate si riunivano tra loro in un angolo della classe. Dopo le immagini dei combattimenti tra israeliani e palestinesi è accaduto spesso che scolari ebrei fossero aggrediti fisicamente da compagni musulmani, fanatizzati dalle prediche degli imam radicali. Tale condizione rendeva il clima inaccettabile e l´insegnamento impossibile in molte scuole. Prendendo la decisione di far votare in Parlamento una tale legge, il governo francese ha voluto far cessare queste pratiche di proselitismo, ma ha così provocato l´ostilità dei gruppi salafiti e islamisti, che hanno lanciato la campagna in Francia e anche nel resto d´Europa. L´affaire ricorda il caso Rushdie del 1989, quando i militanti islamisti in Gran Bretagna avevano manifestato contro il libro "Versetti satanici" dello scrittore angloindiano; L´ayatollah Khomeini aveva preso la palla al balzo con la fatwa che decretava la morte di Rushdie. Allo stesso modo l´Esercito islamico ha pensato di potersi impossessare della rivendicazione degli islamisti francesi e trasformarla in ricatto attraverso il sequestro dei due giornalisti. Ma il cosiddetto Esercito che pensava di poter rilanciare la jihad con la sua strategia del terrore, non ha fatto che accrescere la fitna: termine usato dagli ulema, i dottori della legge islamica, per designare il caos, la discordia, la spaccatura all´interno dell´Islam.
In effetti le prese di posizione della Francia sull´Iraq e sul conflitto arabo-israeliano gli sono valse l´espressione di una grande solidarietà in Medio Oriente. A tal punto che anche i gruppi islamici più radicali, come gli hezbollah o Hamas palestinese, hanno chiesto la liberazione degli ostaggi francesi e considerano la loro eventuale uccisione come un danno alla causa degli islamici, l´esecuzione degli ostaggi li designerebbe alla vendetta delle popolazioni del mondo musulmano, e li isolerebbe dalle masse che sperano invece di mobilitare alla jihad.
La pressione sull´Esercito islamico in Iraq è immensa, anche se non sappiamo se gli elementi iracheni al suo interno saranno capaci di resistere a tale pressione o se invece gli elementi «internazionalisti» porteranno comunque a compimento la loro minaccia, poiché non tengono in alcuna considerazione le dinamiche interne all´Iraq. In questa situazione il presidente francese Chirac ha scelto come strategia di far entrare in campo gli amici della Francia nella regione. Tocca a loro mostrare se sono all´altezza di questo compito.

Il prossimo libro del Prof. uscirà in Italia a fine settembre per I tipi di Laterza con il titolo Fitna, la guerra nel cuore dell´Islam


LA POSTA IN GIOCO
NON E’ RESISTENZA, SOLO TERRORISMO
di ANGELO PANEBIANCO

dal Corriere - 1 settembre 2004

In Iraq è in atto una «resistenza nazionale» contro le truppe d'occupazione occidentali e i loro «fantocci» (il governo provvisorio iracheno)? E' questa la vera spiegazione di ciò che sta accadendo? Questa tesi è sostenuta oggi da due diversi gruppi di persone. In primo luogo, la difendono con sincerità alcune persone serie, con le quali, evidentemente, vale la pena di discutere. In secondo luogo, la affermano tutti coloro che usano l'Iraq per fini di politica interna. In Italia, questi ultimi sono intere legioni, ben rappresentate, sui mass media, da quelli che, ispirandomi alla raffinata penna di Eugenio Scalfari, definirò «imbrattacarte». Per gli imbrattacarte, e quelli che li seguono, la questione irachena non è altro che la continuazione della «guerra contro Berlusconi» con altri mezzi. Per costoro, è bene che le cose vadano male per gli occidentali in Iraq, che Bush vi incontri il suo Vietnam, soprattutto perché Berlusconi è alleato di Bush e una sconfitta militare del secondo danneggerebbe politicamente anche il primo. Per questo, nobilitano come «resistenti» le bande irachene in armi. Non avrebbero tutto sommato nulla da ridire se in Iraq, alla fine, vincesse Al Qaeda. Tutto va bene se può servire a... «fregare Berlusconi».
Costoro non vanno sottovalutati perché sono in tanti, e la stupidità ha sempre svolto un ruolo rilevante, e per lo più catastrofico, nella storia umana, ma, certo, non c'è nulla da discutere con loro.
E' invece con gli argomenti delle persone serie, come Napoleone Colajanni ( Il Sole 24 ore )o come Barbara Spinelli ( La Stampa ) che bisogna confrontarsi. Scrive Colajanni che negare che in Iraq ci sia, oltre al terrorismo islamista, anche una vera e propria «resistenza» contro le truppe di occupazione significa negare l'evidenza. Per avvalorare la tesi del «governo fantoccio» (Colajanni non usa questa espressione ma il senso è proprio quello) egli ricorda che l'attuale premier del governo provvisorio iracheno, Iyad Allawi, è «un ex agente della Cia», il che - scrive Colajanni -- «non è un particolare indizio di indipendenza». Fatta da un antifascista di solida e antica tempra, questa notazione mi è parsa assai bizzarra. Allawi era un fiero oppositore della dittatura di Saddam Hussein e pertanto la Cia lo ha sostenuto. E allora? Se è per questo, l'Oss (il servizio segreto americano, progenitore della Cia) appoggiò, durante la Seconda guerra mondiale, fior di resistenti italiani al nazifascismo. Dov'è la differenza rispetto ad Allawi? Erano anche loro fantocci degli americani? Né convince la tesi di Colajanni secondo cui il fatto che coloro che sfilavano dietro l'ayatollah Al-Sistani, il leader spirituale degli sciiti, scandissero slogan anti-americani, sarebbe un prova che nel Paese è in atto un movimento di resistenza (armata) contro gli invasori. I fatti, per fortuna, hanno una loro durezza. Sistani gode dell'appoggio della schiacciante maggioranza degli sciiti (e gli sciiti costituiscono, a loro volta, la maggioranza degli iracheni) e Sistani appoggia il governo provvisorio, non vuole che gli occidentali se ne vadano, e fortissimamente vuole che si arrivi alle elezioni.
Che la popolazione sia esasperata anche perché, abbattuto il regime di Saddam Hussein, gli americani hanno fatto molti gravi errori (per esempio, non sono riusciti a riattivare le infrastrutture necessarie al ripristino di una vita civile normale) è certo, come testimoniano tutti i reportage più obiettivi. Ma questo non avvalora la tesi della «resistenza».
Barbara Spinelli, a sua volta, scrive che in Iraq ci sono sia «resistenti» che terroristi islamici e che a noi spetta il compito di «separare le eventuali ragioni dei resistenti iracheni dalla politica dell'irrazionalità che caratterizza il terrorismo». Le «eventuali ragioni»: la vaghezza dell'espressione, mi permetto di osservare, sembra testimoniare l'imbarazzo e la difficoltà a mettere davvero a fuoco queste «ragioni». Già, quali sarebbero le «ragioni» di questa supposta resistenza? In Iraq sono previste elezioni nel 2005, l'insediamento definitivo di un governo eletto nel gennaio 2006 e la conseguente partenza delle truppe occidentali. Per cosa si batterebbero dunque questi «resistenti»? Impedire le elezioni? Impedire che le truppe occidentali se ne vadano? Non c'è in Iraq un esercito di occupazione destinato a stare lì indefinitamente (l’Iraq non è la Cecenia). Ci sono invece truppe che smaniano per andarsene via e che lo faranno di sicuro, e di corsa, se i cosiddetti «resistenti» non riusciranno ad impedirlo mandando a carte quarantotto il processo di formazione di un sistema di governo costituzionale.
Dov’è dunque la resistenza? Oltre al «normale» marasma che non poteva non seguire a una feroce, lunghissima dittatura, c'è il terrorismo islamico d'importazione, ci sono le manovre degli Stati confinanti (che temono le ripercussioni di una eventuale stabilizzazione dell'Iraq), ci sono i nostalgici del vecchio regime, e c'è la questione sunnita (il fatto che i sunniti, antico e arrogante gruppo religoso dominante, devono dolorosamente acconciarsi a vivere in un Iraq a maggioranza sciita). Ma che c'entra tutto questo con la «resistenza all'occupante»?
In Iraq c'è una sola cosa che noi occidentali possiamo fare: appoggiare con tutte le nostre forze il governo provvisorio e tentare che il processo di normalizzazione costituzionale non venga interrotto dall'azione delle bande armate (ma lo capiranno mai i francesi e i tedeschi?). Solo così possiamo fare coincidere il nostro interesse particolare e l’interesse generale: difendere le residue speranze di un Iraq democratico e difendere noi stessi dalla furia del fanatismo pseudo-religioso.
Angelo Panebianco