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Michael Walzer

Guerre giuste e ingiuste

 


intervista di Maurizio Viroli rilasciata alla Princeton University il 23/05/1992

 da:

Professor Walzer, il dibattito sulla guerra giusta affonda le proprie radici nei classici della filosofia morale e politica. Può descriverci a grandi linee la concezione classica della guerra giusta?

La riflessione sulla guerra giusta è molto antica ed appare in forme e linguaggi differenti in ogni cultura complessa. Essa fu ripresa negli Stati Uniti durante la guerra nel Vietnam - di cui, per inciso, fui un netto oppositore.

La concezione classica è quella cattolica medioevale originatasi dalla cosiddetta "teologia morale". Essa si indirizza all'esperienza di coloro che, essendo impegnati nella guerra in qualità di leader politici o di soldati, sono costretti a prendere continuamente delle decisioni e a cercare una auto-giustificazione morale. Nessun leader politico, infatti, può mandare dei giovani ad uccidere ed essere uccisi, senza fornire loro delle ragioni morali, senza assicurarli che agiscono per una giusta causa.

Queste argomentazioni, che potranno forse apparire ipocrite, si fondano su una determinata dottrina che si compone di due parti, perché due sono gli aspetti della guerra che richiedono giustificazioni: da un lato, la sua legittimità, lo ius ad bellum, dall'altro, la sua condotta, lo ius in bello.

Può illustrarci allora queste due componenti di una guerra giusta?

Per quanto concerne la legittimità di una guerra ovvero la giustificazione delle cause e delle motivazioni della guerra, la dottrina classica ricorre al concetto di "autodifesa". La teoria della guerra giusta muove da un'analogia con la nostra comune comprensione del diritto individuale all'autodifesa: come è giusto che una persona difenda se od altri da una violenza, così è lecito che uno stato muova guerra per difendere se od un altro stato aggredito.

Lo ius in bello, invece, cerca di rispondere a domande riguardanti i limiti dell'azione di guerra, e stabilisce che i civili rimangano fuori dal combattimento.

Professor Walzer, nella prefazione del 1991 al Suo libro Guerre giuste e guerre ingiuste, Lei ha sostenuto che, sebbene durante la guerra del Golfo si facesse ampio ricorso alla terminologia della "guerra giusta", si verificarono delle aperte violazioni dello ius in bello. Può riferirci la Sua tesi in proposito?

Nel caso della guerra del Golfo, l'uso sistematico degli argomenti a favore della guerra giusta da parte dei leader politici e militari della coalizione, soprattutto degli americani, si è riflesso, anche se, dal mio punto di vista, in maniera molto incompleta, sulla condotta della guerra. Ciò suggerisce che c'è la necessità di combattere le guerre sotto il controllo internazionale, soprattutto là dove è necessario mobilitare l'aiuto di diversi Paesi. In questi casi, infatti, essendo impossibile appellarsi allo sciovinismo, all'orgoglio nazionale che sono alla radice del nazionalismo, ci si deve richiamare al principio morale, e ciò, sebbene produca per lo più ipocrisia, può, talvolta, contribuire ad affermare dei valori.

Sebbene non si sappia ancora molto riguardo a ciò che è realmente accaduto durante la guerra del Golfo, ho espresso molte riserve, sia durante il suo svolgimento che dopo, circa il modo in cui essa è stata condotta. Ho creduto che alcune decisioni che hanno dato forma alla campagna strategica del bombardamento, prese ufficialmente dalla coalizione, ma, in realtà, espressione della volontà americana, siano state criminalmente sbagliate.

Come è noto, la guerra, prima di iniziare a terra, fu combattuta per la maggior parte del tempo in cielo, e si diresse per lo più alle infrastrutture civili della società irachena. Si tratta di obiettivi che solo in alcuni casi possono essere considerati legittimi, là dove, ad esempio, si è trattato di ponti che consentivano i rifornimenti ad una armata sul campo. Al contrario, la distruzione di centrali elettriche o di impianti per il rifornimento d'acqua, costituendo un attacco ingiustificato alla società, non rientra affatto tra i casi previsti e giustificati dallo ius in bello.

Quale è la sua opinione riguardo al valore morale e politico del pacifismo?

I pacifisti scorgono nella teoria della guerra giusta un modo di argomentare che, definendo i limiti e i modi entro i quali la guerra va combattuta, finisce con l'accettarla e giustificarla. Personalmente, essendo cresciuto durante l'ultimo conflitto mondiale, credo che ci siano delle occasioni nella storia umana nelle quali è molto importante essere preparati a combattere.

Ci sono forme di aggressione, dominazione e di tirannia a cui è necessario opporsi con la forza, perché non esiste nessun altro modo di opporvisi, e non è possibile sopportarle neanche per un breve periodo. In un certo senso, quindi, io sono un nemico politico del pacifismo perché in esso vedo il rifiuto ad impegnarsi contro la tirannia e l'oppressione nell'unico modo in cui, talvolta, è possibile farlo. D'altra parte, riconosco che i pacifisti hanno il merito di dare forza a un ideale che tutti condividiamo, quello di un mondo dove la politica sostituisca la guerra. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di una mera utopia. Pacifista è chi crede, forse non a torto, che ciò sia possibile prima ancora che si realizzi.

Lei ha avuto modo di dire che "non c'è nessun mondo di cui essere cittadini". Che cosa ha voluto intendere con ciò?

Così come non posso essere amico di ogni uomo e di ogni donna del pianeta, non posso nemmeno essere concittadino di tutti. Le comunità sono necessariamente particolari, sono creazioni storiche che avvengono nel tempo e che generano una fedeltà che è intimamente connessa con la loro particolarità e longevità. Esse non sono comunità istantanee, sono esistite per lunghi periodi di tempo, sono state - per così dire - tramandate di padre in figlio. Solo all'interno di comunità di questo tipo, che, come tali, possono essere di differenti generi, noi acquisiamo la nostra identità politica e veniamo a sviluppare un senso di fedeltà.

L'universo, la terra, il mondo, non sono affatto delle comunità. Una eventuale comunità politica che si dovesse costituire in futuro a causa dell'interdipendenza economica o della crisi ambientale sarà talmente grande che è difficile immaginarla altrimenti che come una sistemazione strumentale per qualche scopo. In un tale ambito, un impegno più profondo richiederà, comunque, una certa decentralizzazione e una politica più particolaristica.

Il mondo, quindi, non è il terreno del mio impegno. Con ciò non voglio dire che io non mi senta responsabile verso la sua sopravvivenza come pianeta abitabile, e non abbia impegni verso i movimenti sociali e i partiti politici che lottano a tale scopo.

A mio avviso, i più profondi sentimenti di attaccamento che abbiamo stanno diventando - o meglio, devono necessariamente essere - più stretti dell'intero globo. Non a caso, stanno rinascendo le più diverse forme di particolarismo. Credo che il contenuto umano dei nuovi tribalismi e nazionalismi consista, in fondo, in una richiesta di libertà politica autoregolata. In tutti questi "ismi" si annida l'esigenza di una democrazia nella politica internazionale, ovvero di porre fine all'imperialismo, all'egemonia, alla dominazione.

L'autodeterminazione è un valore universale, ma di genere molto speciale. Asserendo, infatti, il valore dell'autodeterminazione, si richiede anche la libertà di tutti i differenti soggetti che si autodeterminano, e non si possono non riconoscere, quindi, molti generi diversi di società. Dal mio punto di vista, l'universalismo va affermato, ma come "universalismo ripetitivo". Esso cioè deve "ripetere" le differenze e proteggere ogni membro dell'umanità nella sua particolarità.

Professor Walzer Lei, come alcuni intellettuali, prova nostalgia per la pace che la "guerra fredda" garantiva prima della caduta del muro di Berlino ? O, al contrario, crede che oltre ad una "guerra giusta" vi debba essere anche una "pace giusta" ?

Nel lungo periodo della guerra fredda sono scoppiati terribili conflitti in Corea e in Vietnam, in differenti parti dell'America Centrale, nel Medioriente, in Afghanistan, in India e in Pakistan. Il cosiddetto "equilibrio del terrore" manteneva la pace in Europa, non certo nel resto del mondo. Credo, quindi, che non dovremmo lamentarci della fine della guerra fredda, sebbene, oggi in Europa, gli assestamenti risultano essere molto difficili.

Penso alla pace giusta in un linguaggio che è tratto dall'esperienza europea del XVI e del XVII secolo, poiché mi sembra che ci siano alcune significative somiglianze tra le guerre religiose di quel periodo e i conflitti nazionalisti del nostro tempo. Le guerre religiose ebbero fine con la dottrina della tolleranza, che non aboliva le differenze di fede, ma si limitava a stabilire dei confini, a fornire spazi entro i quali le comunità dei credenti potessero praticare la loro religione, produrre le loro istituzioni senza paura.

Oggi, dovremmo cercare l'equivalente della tolleranza religiosa nel contesto del conflitto nazionale, definendo e proteggendo degli spazi. Tali spazi dovranno essere di vario tipo, possono identificarsi con le regioni autonome, così come con gli Stati sovrani, oppure prendere la forma del pluralismo culturale, delle associazioni volontarie nella società civile, e, quindi, solo in alcuni casi comportano necessariamente una separazione politica e un'indipendenza statale. Occorre proteggere gli spazi con confini sicuri per tutti i gruppi nazionali, religiosi, etnici che sentono la necessità di questo tipo di sicurezza.

Non vedo un'altra forma equivalente alla tolleranza che non sia la definizione di confini, perché il nostro è un mondo in cui i buoni steccati fanno buon vicinato. I principi della pace, insomma, coincidono con quelli dell'autodeterminazione. Sottolineo che questi ultimi hanno molte possibili realizzazioni, non una sola. Se ogni gruppo etnico, ogni comunità religiosa richiedesse uno stato sovrano insorgerebbero difficoltà insormontabili. Da molte parti del mondo, però, giunge testimonianza che esistono modi di fornire spazio e sicurezza all'interno degli stati multinazionali attraverso l'autonomia regionale e il pluralismo culturale. La via verso la pace è dunque quella che passa per la definizione di confini che rispondano alle diffuse esigenze di autodeterminazione.