torna a Tracce/saggi ed articoli


Galimberti Umberto, La lunga durata: che cosa significa invecchiare, in La Repubblica 6 gennaio 2001

Se il fine di invecchiare fosse quello di morire, avrebbe ragione Montanelli: una bella eutanasia al momento giusto come gesto di restituzione della dignità dell'individuo nei confronti delle indifferenti leggi di natura. Ma James Hillman ne La forza del carattere (Adelphi, pagg. 322, lire 32.000) dice che il fine di invecchiare non è quello di morire, ma di svelare il nostro carattere che ha bisogno di una lunga gestazione per apparire, a noi stessi prima che agli altri, in tutta la sua peculiarità. Il carattere ha bisogno di quegli anni in più che la lunga durata della vita oggi ci concede per vedere quello che le generazioni che ci hanno preceduto, fatte alcune eccezioni, non hanno potuto vedere, e precisamente quello che uno è, al di là di quello che fa, al di là di quello che tenta di apparire. È chiaro che se per tutta la vita siamo fuggiti da noi stessi, quasi fossimo il nostro peggior nemico, non c'è nessuna consolazione a conoscerci nella vecchiaia, dove il rapporto che ciascuno ha con se stesso, per chi non è abituato o lo ha sempre evitato, diventa un rapporto spaventoso. Ma in questo caso tanto valeva farla finita prima, perché già da prima non aveva alcun senso una vita vissuta a propria insaputa, come capita ai più, soprattutto in Occidente, dove le categorie egemoni, che sono poi quelle della funzionalità e dell'utilità, fanno invecchiare davvero male. Non si invecchia infatti solo per degenerazione biologica ma anche e soprattutto per ragioni culturali, e precisamente per l'idea che la nostra cultura s'è fatta della vecchiaia, come di un tempo inutile che ha nella morte il suo fine, in attesa del quale, grazie alla medicina e ai servizi sociali, sopravvive tutta quella schiera di mummie animate, paradossi sospesi in una zona crepuscolare. A che servono? Che scopo hanno? Sono queste idee, che connettono la vecchiaia all'inutilità e l'inutilità all'attesa della morte, a rendere in Occidente la vecchiaia terribile, non solo per il singolo individuo, ma anche per la società che, non meno del singolo individuo, si dà da fare per ridurre le cause dell'invecchiamento o ritardarne per lo meno l'arrivo.
I costi sociali, dalle pensioni all'assistenza, sovvertono il ritmo produttivo delle società avanzate che, impreparate, si trovano di fronte a una lotta di classe imprevista. Non più tra poveri e ricchi, ma tra vecchi che non vogliono lasciare e giovani che non sanno come incominciare. Qui la biologia incomincia a raccontare un tipo di storia molto allarmante, ma, dice Hillman, la psicologia, potrebbe raccontarne un'altra se solo allargasse il suo campo e, invece di curare solo individui, si mettesse a curare le idee malate con cui gli individui visualizzano se stessi e le fasi della loro vita. Un lavoro che forse i filosofi potrebbero fare meglio degli psicologi, se è vero che la filosofia è un continuo correttivo di idee stantie, divenute egemoni per forza d'abitudine, per eccesso di pratica e condivisione, in fondo per la pigrizia del pensiero. E allora proviamo a fare come Socrate che, rivolgendosi al vecchio Cefalo, chiede: "Da te ascolterei volentieri un giudizio sulla vecchiaia: se davvero essa è un periodo triste della vita, o se qualche altra cosa tu abbia da dirci". Cefalo inizia a far le lagnanze della vecchiaia, quelle lagnanze che nascono dal ricordo della giovinezza. Pessima prospettiva perché, così visualizzata, la vecchiaia non può apparire che come causa di tutti i mali. Cefalo ne fa l'elenco che però non convince Socrate: "Mio caro Cefalo, di tutti questi mali c'è sì un'unica causa, ma essa non è la vecchiaia, bensì il carattere dell'individuo". Cosa ci insegna questa storia? Che si può benissimo disfare la connessione vecchiaia-morte per ricostruire l'antica connessione vecchiaia e svelamento del carattere che nella vecchiaia appare nella sua unicità, facendoci finalmente conoscere quel che davvero in fondo siamo nella nostra specifica tipicità. In questa prospettiva "vecchio" non vuol più dire "rudere in attesa della morte", ma può assumere quel carattere unico e tipico delle cose che ammiriamo, come le vecchie navi, le vecchie case, le vecchie fotografie nella loro unicità e non riproducibilità. Questo è il nesso vero da cogliere nella vecchiaia, non quello deprimente vecchiaia-morte. La morte infatti non è un oggetto a cui la nostra psiche possa applicarsi, perché la morte non ha una psicologia. Che si muore lo può dire la logica, la metafisica, la teologia, ma non lo può dire mai la nostra psiche, perché la morte è inattingibile al nostro vissuto psichico, e prendere a prestito dalle metafisiche e dalle teologie della morte una nozione che la nostra psiche non riesce a sperimentare significa contorcere la nostra psiche e costringerla a pensare e a vivere il Nulla di cui è assolutamente incapace.
"Invecchiando - scrive Hillman - io rivelo il mio carattere, non la mia morte", dove per carattere devo pensare ciò che ha plasmato la mia faccia, che si chiama "faccia" perché la "faccio" proprio io, con le abitudini contratte nella vita, le amicizie che ho frequentato, la peculiarità che mi sono dato, le ambizioni che ho inseguito, gli amori che ho incontrato e che ho sognato, i figli che ho generato. "Onora la faccia del vecchio" è scritto nel Levitico (19,32), perché la faccia è il primo segnale da cui prende le mosse l'etica di una società.
E a quale etica si ispira l'Occidente se la faccia che invecchia è modificata chirurgicamente, repressa dalla cosmesi e il carattere è sepolto sotto una falsificazione? Se la vecchiaia non mostra più la sua vulnerabilità, dove reperire le ragioni della pietas, l'esigenza di sincerità, la richiesta di risposte sulle quali poggia la coesione sociale? La faccia del vecchio è un bene per il gruppo, e soltanto a Dio, ma giusto perché è solo, è concesso di nascondere il suo volto. Bisognerebbe, per il bene dell'umanità, "proibire la chirurgia cosmetica e considerare il lifting un crimine contro l'umanità" perché, oltre a privare il gruppo della faccia del vecchio, finisce per dar corda e sostegno a quelle categorie: il biologismo e l'economicismo, che regolano la cultura occidentale e rendono la vecchiaia più spaventosa di quello che è. Non vogliamo con questo negare che i vecchi non vadano incontro a processi degenerativi, né che la loro vita appaia inutile se misurata sul criterio dell'efficientismo che regola la cultura dell'Occidente, semplicemente vorremmo spostare questi tratti dal primo piano sullo sfondo e riordinare la scala delle priorità, perché, se è vero che la vecchiaia è un'afflizione, ci piacerebbe sapere se questa afflizione non è generata o almeno incrementata dall'idea che ci siamo fatti della vecchiaia. Finché consideriamo ogni tremito, ogni macchiolina epatica sulla pelle, ogni nome dimenticato esclusivamente come indizio di declino, affliggiamo la nostra mente tanto quanto la sta affliggendo la vecchiaia. Il ripetersi spesso, ogni volta che vediamo la nostra faccia allo specchio, di questa diagnosi negativa su quanto ci sta accadendo dimostra la potenza dell'idea alla quale abbiamo legato e imbrigliato l'ultima parte della vita. E allora il lifting facciamolo non alla nostra faccia, ma alle nostre idee e scopriremo che tante idee convenzionali e soprattutto occidentali, che offrono rifugio alla tirannia della vecchiaia, in realtà servono per nascondere a noi stessi e agli altri la forza del nostro carattere, con il risultato di morire sconosciuti a noi stessi e agli altri. E allora, se è vero che rimanendo legati a idee biologistiche ed economicistiche, così diffuse in Occidente, queste ci influenzano negativamente agendo su di noi come patologie, non è il caso, arrivati a 50 o a 60 anni, di incominciare un altro tipo di terapia: la terapia delle idee.
Alla mente le idee piacciono, e nella vecchiaia bisogna coltivare idee, ma non per ritardare il declino delle funzioni cerebrali come si è soliti dire, perché le idee non sono semplici vitamine o utili integratori. Le idee tengono desta la mente solo se la mente modifica le sue idee. Rigirandole e smontandole la mente le tiene vive e, invece di lasciarle logorare e irrigidire nei luoghi comuni, nelle convenzioni, le sostituisce, le cambia. Nella vecchiaia c'è tutto il tempo per questo lavoro, ma ci vuole grinta e capacità di resistenza, in una parola: la forza del carattere. Ogni libro è costruito sulle idee. Questo libro di Hillman in particolare. La capacità di intrattenere idee trovandone piacere è sempre stata una delle giustificazioni per scrivere, per leggere libri e per tenerseli cari. Ma forse, e da questo libro lo apprendiamo in modo esplicito, produrre idee è semplicemente la giustificazione del vivere. E questa è la ragione per cui, in fondo, la morte non ci riguarda.