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torna a Anni abbastanza crudeli

E' un Cacciari attento ma appassio­nato e coinvolto quello che parla di guer­ra e di pace.  Il filosofo teme il terrorismo che s'è presentato a New York ma, se possibile, teme ancor di più le sottovalutazioni che continuano attorno alle caratte­ristiche nuove di questa bestia feroce che, nella sua analisi, occupa il punto da cui muovere per spiegare tutto il resto e per decidere quali sono le posizioni giuste e quelle sbagliate.  Ed è un Cacciari severo quello che, a proposito della marcia di oggi ad Assisi, sbotta: «Mi rifiuto di pensa­re che ci siano scemi tali da andare lì a far casini, a prendere a ceffoni, anche metaforicamente, chicchessia.  Mi rifiuto di pen­sare che ci siano tali idioti.  Ad Assisi ci sarà solo una marcia che, svolgendosi sulla la base di nessuna o pochissima unità strategica, sarà una marcia e basta, cioè perfet­tamente inutile.  Hanno ragione quei ve­scovi secondo i quali la marcia sta diven­tando una passerella per manifestazioni o conflitti politici. Sarebbe il caso di farla tornare all'ispirazione spirituale e religio­sa che aveva all'inizio.

Cacciari dopo l'11 settembre s'è detto che il mondo sarebbe cambiato.  Le chiedo, dopo un mese, sta veramente cambiando?

«Sì.  Quell'attentato è stato veramen­te un evento epocale.  E' certo che s'è chiu­sa la belle époque della globalizzazione, quella straordinaria quanto idiota utopia che aveva influenzato tutti dopo il crollo del Muro, il convincimento che solo attra­verso un processo di crescita economica si potesse governare il mondo.  Per la pre­cisione: è finita l'utopia dell'economico al comando».

Cosa significa questo?

«E' palese.  Non c'è mai stato nell'economico nessun intervento tanto energico quanto quello fatto in questo mese da Bush.  Il liberista Bush ha deciso interven­ti di proporzione straordinaria a sostegno dell'economia.  L'11 settembre s'è chiusa la stupida utopia sulle ininterrotte miglio­ri sorti progressive, una specie di revival congressista privo di fondamenti.  Niente sarà come prima: o tutto diventerà tragicamente peggio, contraddittorio e conflit­tuale o si avvieranno tentativi ed esperi­menti per dare un ordine al mondo.  Un ordine che non assomiglierà né a quello di Yalta, né ad altri precedenti».

I primi segno sono a favore di qua­le di queste due possibilità?

«Sono contraddittori.  La politica americana ha compiuto in un mese grandi sforzi per ripensarsi: verso i paesi arabi, per costruire alleanze vaste.  Il discorso di Bush sulla Palestina è epocale.  Sono se­gnali positivi.  Ma c'è sempre il pericolo che il protrarsi dell'azione militare faccia esplodere focolai ingovernabili di terrori­smo, guerriglia, destabilizzazione politica nei paesi arabi moderati.  E tutto questo può portare a esiti catastrofici».

Il suo ragionamento significa che gli americani hanno scelto una strategia sbagliata?

«No, no.  Ritengo, a differenza di altri, movimenti e persone, che bisogna ragionare con calma e capire che la reazio­ne militare era inevitabile per almeno due motivi.  Intanto, gli Usa non potevano es­sere attaccati in quel modo e non reagire immediatamente.  Chi ragiona diversamente è un'anima bella che non ha però niente da dividere con la politica.  La seconda, siamo di fronte a un terrorismo globale e ben radicato, certamente in Afghanistan con basi logistiche e altro, e in altri paesi oltre che in pezzi di apparati deviati.  Quindi, l'azione militare non solo era politicamente inevitabile ma probabilmente alla fine potrebbe risultare anche utile nel disarticolare la rete terroristica.  Però, ogni giorno potrebbe destabilizzare paesi arabi moderati».

Una contraddizione drammatica. Come se ne esce?

«O l'azione militare è pensata all'interno di una strategia politica (come sempre la guerra deve essere se è ragionevole) oppure è inutile e dannosa.  Mi chiedo: questa guerra è pensata all'interno di una strategia?»

Risposta

«Dai segnali della politica e della di­plomazia americane mi pare che abbiano in mente la necessità di una strategia globale: Palestina, alleanze molto ampie, non mi pare abbiano detto ora si fa la guerra e si risolve tutto, mi pare che stia­no dimostrando che questa consapevolezza di guerra dentro una strategia esiste.  Detto questo, se la guerra dovesse andare avanti a lungo il pericolo maggiore è che possa destabilizzare non i paesi arabi ditta­torialmente governati come Siria, Iran e anche Pakistan, ma Palestina ed Egitto.  Lo dico perché i nemici principali di Bin Laden sono i paesi arabi moderati.  Se non destabilizza quei paesi sa che perde.  Lui l'ha detto nel suo proclama: gli ipocriti sono questi.  Ipocriti è una definizione tec­nica, nel Corano sono coloro che si fingo­no credenti».

Cacciari, con che Terrorismo dob­biamo fare i conti?

«Ecco, bisognerebbe capirlo bene pri­ma di schierarsi a favore o contro quel che accade in Afghanistan.  Intanto, si arti­cola con una presenza anche in Stati na­zionali e agisce su scala globale come nessun altro di quelli precedenti che hanno sempre operato su scala nazionale.  Oggi c'è, per la prima volta, una rete veramen­te internazionale, globalizzata, presente nei paesi arabi ma soprattutto in quelli occidentali. Bin Laden o chi per lui ha sfruttato in modo diabolicamente intelligente il fatto che l'Islam è ormai in ogni posto.  Senza quella presenza non avrebbe­ro potuto fare gli attentati dell'11 settembre.  Secondo, sui fini del terrorismo non c'è sufficientemente chiarezza.  Brigate rosse, terrorismo basco o irlandese hanno avuto una politica tutta dentro lo stato, magari per colpirlo al cuore, ma in ogni caso la loro è stata una lotta per conquista­re un paese.  Bin Laden vuole conquistare l'America o l'Inghilterra?»

Certo che no, ma allora che vuole?

«Mandare all'aria il fattibilissimo fon­damento politico e sociale del nostro svi­luppo economico.  Che sta accadendo?  Se ci dovesse essere un altro mega attentato l'economia americana non tirerebbe più, il cavallo smetterebbe di bere.  Ci sarebbe un crollo della produttività.  L'obiettivo del terrorismo è, prima di tutto e soprat­tutto, economico.  I più saggi l'hanno notato immediatamente, dico quelli che ope­rano a Wall Street.  Spero lo abbia capito anche il governo americano».

Ma perché Bin Laden vuol manda­re tutto all'aria?

«Ecco, questo è il punto che i pacifi­sti dovrebbero ben capire.  Bin Laden at­tacca prima di tutto i paesi arabi.  Secon­do, mentre Bin Laden fa tutti i giochi che vuole, non si sa bene a favore di chi, lui è personaggio oscuro, di sicuro c'è che il crollo economico sarebbe un disastro apo­calittico per i paesi dei poveri.  Per loro facciamo poco e mi auguro che questo cambi.  Ma un ipotetico crollo li anniente­rebbe.  Allora bisogna avere il coraggio di dire che questo terrorismo è il nemico numero uno dei poveri e del terzo mon­do, non dell'America o dell'Occidente.  Ed è un grande nemico dell'islamismo ortodosso.  Bisogna che lo capiscano i miei amici del movimento pacifista.  Non possono non capirlo».

Lei è stato un interlocutore del movimento antiglobal ma nessuno di loro accennerebbe questa analisi.

«Ma no.  Bisogna discutere seriamen­te. Non bisogna rompere con loro inse­guendo l'arcaicità della maggioranza e an­che di alcuni esponenti dell'Ulivo che par­lano di comunisti e cattocomunismi.  Non sono antiamericani.  Ritengono che l'intervento armato sia inutile e dannoso, il prologo di una azione solo militare. Io non sono d'accordo.  Li invito a ragionare sulla natura di questo terrorismo nemico dei paesi poveri e le conseguenze che può avere se non viene stoppato.  Su questo bisogna ragionare e non contrapponendo­si alla Cossiga o alla Berlusconi».

Ma quali sono le componenti reali del momento?

«Lì ci sono posizioni, secondo me sbagliate, con le quali è necessario discute­re. Ma c'è un'altra cosa che sarebbe irrealistico non riconoscere: i nostri sedicenti realisti si devono ficcare in testa che soprattutto tra le masse giovanili c'è sempre stato e sempre ci sarà, per fortuna, biso­gno e sete di giustizia. irrealistico, non comprenderlo.

Queste esigenze, queste utopie che spesso non si riesce a tradurre in chiave politica è una delle grandi tragedie del­l'agire politico, non si risolvono attaccan­do o insultando.  Bisogna discutere, insistere. E' una fatica che va fatta e rifatta per mediare queste esigenze che appaiono astratte rispetto all'etica della responsabili­tà».