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La società? un grande campo rieducativo

 
Sono due soli i paesi europei che sono schierati con l’Italia sulla linea dell’integrazione totale dei disabili nelle classi scolastiche: Spagna e Portogallo. Gli altri adottano sistemi misti con scuole e classi speciali. Poiché è irragionevole pensare che la stragrande maggioranza degli stati europei siano incivili, converrebbe riflettere pacatamente, senza pregiudizi e anatemi. So di un’associazione spagnola di genitori di bambini down in cui si discute molto dell’inclusione e le opinioni non sono affatto univoche: molti pensano che l’inclusione dipenda dalle caratteristiche del soggetto e, in certi casi, ritengono più vantaggiosa una collocazione in classi separate. Ripeto: bisognerebbe avere l’equilibrio per discuterne, come si suol dire, “laicamente”. Noi invece siamo impantanati nell’ideologia più radicale, per cui non mi attendo altro che una scarica di anatemi sulla rubrica di questa settimana.
Sono rimasto attonito leggendo l’osservazione di due pedagogisti che si sono dimessi dall’Osservatorio ministeriale sull’integrazione per protestare contro la carenza di fondi per il sostegno: «Nella scuola italiana ci sono ormai 600mila bimbi migranti che, sommati ai disabili fanno quasi 800mila bambini». Quindi “migrante” e “disabile” apparterrebbero alla medesima categoria. Trovo conferma di questo approccio nelle osservazioni con cui Clara Sereni commenta la sua difficile esperienza personale di madre di un disabile: «Nel clima attuale la diversità fa paura: migranti, zingari, matti… E io, che in quanto a essere “altro” sono pure ebrea, osservo con preoccupazione questa perdita di memoria storica». Quindi, a disabili e migranti vanno sommati zingari, matti, ebrei e, come si può immaginare, molte altre categorie. Questo esercito di “diversi” assume dimensioni quantitative imponenti, quasi maggioritarie nella scuola, il che spiega perfettamente perché la preparazione delle maestre nelle Facoltà di scienze della formazione consista ormai quasi esclusivamente di materie psico-pedagogiche-relazionali e di pedagogia speciale (quella che si occupa appunto dei “diversamente” abili). Le materie disciplinari sono ridotte ai minimi termini, fino a casi estremi in cui sono rese opzionali con pediatria o neuropsichiatria infantile.
È una scuola elementare ridotta a un immenso deposito di “diversità”, in cui il maestro è tendenzialmente una sorta di infermiere delle varie situazioni di “alterità” che compongono l’umanità. Emerge la visione di una società incapace di guardare in faccia la sofferenza e la malattia e di curarla con il senso della realtà che è l’unico modo in cui può esprimersi l’autentica solidarietà. È una società che all’abbandono, all’isolamento del malato perché non si veda l’“orrore” della malattia, trova come unica alternativa l’idea ipocrita e politicamente corretta che siamo tutti malati, tutti “altri” e tutti “diversi” (da chi?), tutti “diversamente abili”. Anche essere ebreo o immigrato (migranti sono gli uccelli) diventa una disabilità.
Inutile dire che i fautori di questa cupa visione hanno come riferimento costante don Milani e l’idea che il sostegno non vada dato al singolo ma al collettivo. E non stupisce che vadano a ripescare persino Makarenko, quel pedagogista sovietico che predicava anch’egli l’educazione del collettivo contro ogni approccio rivolto alla persona. La discussione sull’inclusione è aperta, ma questa visione è agghiacciante. E poi dicono che abbiamo la migliore scuola elementare del mondo: in un’ottica collettivista della società vista come un immenso campo rieducativo, forse sì.
(Tempi, 30 ottobre 2008)