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PAUL KRUGMAN, MENO TASSE PER TUTTI?, Prefazione a Meno tasse per tutti
di Salvatore Bragantini , Garzanti editore


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Non commetterò l’errore tipico dei parroci di campagna che, quand’ero ragazzo, tentavano di riassumere nel loro misero linguaggio la potenza espressiva delle parole del Vangelo. Mi asterrò quindi dallo sterile esercizio di riassumere le argomentazioni di Krugman, il quale espone con chiarezza e semplicità impareggiabili il programma di tagli fiscali di Bush (nel frattempo approvato dal Congresso) e gli effetti che esso avrà sul bilancio usa. Mi limiterò a qualche considerazione sulle grandi differenze fra la situazione italiana e quella americana che la lettura mette in luce, e sui punti che invece avvicinano le due realtà, richiamando solo ove questo sia indispensabile al discorso le argomentazioni di Krugman.
Comincio con una domanda purtroppo solo retorica: esiste in Italia un libro scritto da un economista di prima grandezza – molti ritengono da tempo Krugman maturo per il Nobel – che illustri con altrettanta chiarezza i grandi temi delle scelte di politica economica, spezzando il pane e rendendolo quindi consumabile anche dai non specialisti? La risposta è no, anche se non mancano certo, nel nostro paese, economisti di grande competenza e capacità didattica. Perché non ci regalano un quadro altrettanto chiaro? In queste condizioni, come può non dico l’elettore medio, ma una persona di buona istruzione desiderosa di approfondire la conoscenza del bilancio dello stato, capire da dove vengono, e dove vanno, i soldi di tutti? Non sarà anche questa separatezza dei «chierici» una delle cause dello scarso senso di appartenenza alla collettività che ci caratterizza?
Da questa mancanza discende un dibattito politico astratto, che dimentica i grandi problemi della società e corre dietro a slogan: è facile promettere «meno tasse per tutti», se nessuno costringe a chiedere esattamente quali tasse si intende toccare, per quali fasce di reddito, con quali aliquote, quali deduzioni d’imponibile e d’imposta, e a partire da quando. Ma soprattutto, quale sarà il costo complessivo della manovra e quali spese saranno ridotte per evitare che i tagli di imposte creino nuovi buchi di bilancio. Come dice Krugman, invece, il problema è tutto qui: se qualcuno vi promette meno tasse, non limitatevi ad annuire; chiedetegli quali categorie di spesa intende ridurre, di quanto e come. Noi ci accontentiamo, invece, degli slogan, il che ha permesso a Tremonti, in campagna elettorale, di spandere all’estero messaggi di prudenza fiscale, del tipo «lasciateci tempo, una volta al governo, per capire quante tasse potremo in concreto tagliare», mentre la propaganda elettorale casalinga continuava a fare promesse ampie ma vaghissime. Una singolare sorta di dumping applicato all’informazione politica: all’estero ci si confronta con i fatti (in politica) e con i concorrenti (nelle imprese), mentre a casa nostra c’è un mercato sicuro, e possiamo raccontare le favole. Così come il prezzo competitivo si pratica all’estero, finanziando l’operazione con i margini protetti del mercato domestico, alla stessa maniera si dice la verità ai circoli finanziari stranieri, potendo ottenere margini extra – le bubbole agli elettori – grazie alle anomalie dei nostri mezzi di comunicazione.
Il tradimento dei chierici e l’astrattezza delle discussioni politiche vanno allora di comune accordo: la lettura di questo agile libro è consigliabile a chi si chiede in cosa consista oggi, concretamente, lo spazio politico di una sinistra matura e responsabile, ma al contempo memore della propria storia e degli interessi che da lei si attendono una tutela intelligente. Lo splendido argomentare di Krugman indica una via percorribile per opporsi alla marea montante dell’egoismo familistico che teorizza la ricerca del benessere individuale come alfa e omega di una società moderna. Questa, signori, è politica con la P maiuscola, e di sinistra, qualcosa su cui costruire una grande piattaforma politica. Se non siamo in grado di produrre «in casa» qualcosa del genere, allora compriamoci due mesi del tempo di Krugman e chiediamolo a lui: saranno soldi spesi bene, meglio che per i consigli dei guru elettorali.
Gli usa hanno una reputazione da cicale: le famiglie si indebitano anche per consumare, e questo suggerisce l’idea di una società che non pensa al proprio futuro. È un’immagine errata, come risulta chiaro qui. È vero che, se il debito per pensioni verso i cittadini americani dovesse essere coperto con le stesse modalità di quello dei fondi aziendali (cioè con i rendimenti dei contributi già versati dagli interessati), mancherebbero all’appello per la piena copertura delle pensioni circa 10.000 miliardi di dollari, cioè una cifra dell’ordine di dieci volte il nostro ingente debito pubblico; ma è anche vero che sulla base del sistema in vigore, nel quale le pensioni di oggi sono pagate con i contributi pensionistici versati oggi da chi lavora (e non con le rendite accumulate grazie ai contributi versati nel passato dai pensionati attuali), il sistema americano avrà un attivo di ben 3.000 miliardi di dollari al 2011, quando i «baby boomers» andranno a godersi il sole della Florida. Il debito sommerso, però, spaventa gli americani, che, teneroni, guardano con preoccupazione a quel 2038 nel quale il tesoretto del 2011 sarà finito. Non c’è bisogno di essere Quintino Sella per provare un qualche brivido di ammirazione per un paese che, con tutti i suoi stranoti difetti, mostra purtuttavia di guardare al bilancio pubblico, e per il tramite di questo al proprio futuro, in una prospettiva di lungo termine.
Perché – e questa mi sembra un’altra differenza fra Italia e usa – i calcoli su quanto si possa alleggerire la bolletta fiscale sono svolti, sia dallo staff di Bush sia, su posizioni contrapposte, da Krugman, in una prospettiva decennale, ecco allora che la tenzone si situa in un quadro temporale decisamente insolito per il nostro paese, e forse per l’Europa in generale.
In verità, la ragione per cui Bush ha scelto i tempi lunghi è puramente strumentale e si lega alla strategia nella quale i repubblicani inquadrano la loro campagna per i tagli fiscali; strategia nella quale la gradualità nell’entrata a regime della riforma è essenziale. Partiamo dal fatto che il vero scopo della campagna di Bush non è tanto quello di ridurre le tasse dei ricchi – anche se la cosa certo non dispiace. Il fine che si vuole raggiungere è la riduzione permanente del ruolo dello stato nell’economia, solo che ridurre i programmi di spesa non è elettoralmente pagante, perché i cittadini si spaventerebbero: meglio prospettare ai bimbetti il taglio delle tasse, misura gradita sotto tutti i cieli, e della quale il taglio dei programmi di spesa sarà solo l’inevitabile conseguenza. Se poi si fa in modo di tagliare le tasse ai ricchi molto più che alla classe media (dove sta la maggioranza degli elettori), si otterrà un effetto ancora più duraturo. Finché la maggior parte dei cittadini ha grandi benefici dallo stato e paga poche tasse, gravanti invece con aliquote fortemente progressive sui più ricchi, non reclamerà la riduzione del ruolo dello stato nell’economia; se invece l’elettore medio paga molto di più di quanto riceve, allora la spinta per la riduzione del «big government» si fa fortissima. Ecco che la riduzione delle tasse deve essere sbilanciata nettamente a favore dei più ricchi, per acquisire il consenso della maggioranza alla riduzione del peso del «big government». Ma – e qui torniamo alla scelta dei tempi lunghi – per poter sedare le preoccupazioni per gli effetti sul bilancio usa, bisogna poter diluire i tagli «affogandoli» nel confronto con entrate e spese del prossimo decennio, ipotizzati peraltro in modo ottimistico.
Ne esce il quadro di una destra usa fortemente ideologizzata, che vede nei tagli fiscali uno strumento, certo gradito anche in sé, ma pur sempre uno strumento, utile a disegnare una società più individualistica; al confronto, la nostra destra pare ancora aliena da queste astrattezze e più interessata a cogliere il beneficio privato e il dividendo elettorale delle promesse effettuate in dumping.
Paul Krugman dimostra che i tagli fiscali di Bush, presentati come misura anti-recessione, sono in questa prospettiva del tutto inutili, data la gradualità nell’entrata a regime sopra detta. Essi sono invece il tentativo di ricacciare indietro il paese per quanto riguarda i livelli di spesa pubblica e di servizi sociali. Il supposto dilagare del «big government», mostra Krugman, è un’altra leggenda metropolitana, dato che il livello delle spese discrezionali, escluse quelle per la difesa, è oggi inferiore alla fine degli anni Cinquanta, regnante Eisenhower. Bush, secondo Krugman, vuole un ruolo nella storia degli usa, quello del grande conservatore che ha annullato il «New Deal» di Franklin D. Roosevelt.
E qui veniamo alle similitudini fra la nostra situazione e quella americana. Esse riguardano anzitutto alcune delle motivazioni della vittoria di Bush e di quella di Berlusconi. Come mostra l’autore, una non secondaria ragione della vittoria repubblicana negli usa è consistita nella capacità del vincitore di presentarsi come una persona normale, contrapposta sia ai professionisti della politica sia ai boriosi intellettuali, nei confronti dei quali il popolo elettore si è vendicato con il voto.
La seconda somiglianza sta nel fatto che da noi, come negli usa, l’elezione ha mandato a casa governi che avevano ben operato; nel nostro caso una serie di governi, che in cinque anni avevano governato da molto bene a così così, raggiungendo comunque traguardi che solo cinque anni fa parevano fuori portata. Il merito dell’azione di Clinton, lamenta Krugman, è rimasto estraneo alla contesa elettorale, e qui è obbligatoria una citazione letterale: «C’è qualcosa nella crociata fiscale che induce i suoi paladini a trascurare piccole cose, per esempio dire la verità sui loro propositi... Quale che sia la ragione, le argomentazioni a favore dei tagli delle tasse risultano stupefacenti per la loro disonestà intellettuale... Sarebbe grave se questo stile di governo riuscisse a imporsi, perché creerebbe un precedente per le future amministrazioni» (pag. 20). E ancora: «Ormai è chiaro: anche le persone che dovrebbero essere molto preparate – per esempio giornalisti e commentatori televisivi – non conoscono le nozioni più elementari relative al governo federale: da dove vengono i soldi, dove vanno, come funziona la sicurezza sociale. E se gli elettori hanno le idee confuse, è difficile biasimarli: la maggior parte delle persone è costretta a occuparsi della propria vita quotidiana e non di politica; dal canto loro, i politici hanno fatto del loro meglio per confonderci e la stampa non ha fatto nulla per costringere i politici a essere onesti» (pagg. 20-21). Non si può che constatare come le parole e le preoccupazioni dell’autore siano ancor più applicabili all’Italia che agli usa. Ed è questa un’altra ragione per cui questo libro dovrebbe essere letto e meditato con attenzione in Italia. Sia le abbondanti promesse elettorali della coalizione vincente, sia l’atteggiamento di diligente allineamento alle posizioni americane da questa in più occasioni esibito, inducono a temere che veramente il film americano sarà al più presto replicato sui nostri schermi. Il quadro che ci si profila, se questo avverrà, è ben delineato da Paul Krugman. Anzitutto i pericoli di sfondamento del bilancio pubblico italiano, privo dei margini di sicurezza derivante dal forte surplus usa. Quel che potrà avvenire al nostro bilancio se le promesse elettorali dovessero essere mantenute non ha bisogno di molte spiegazioni. A meno che, come sembrerebbe logico a prima vista, lo spazio di recupero non venga individuato, Krugman docet, tagliando sulla sanità, o sull’istruzione, o sulle pensioni, o sugli investimenti. Peccato che queste vie siano tutte precluse dal tenore delle promesse elargite senza risparmio in campagna elettorale.
La sanità, per cominciare. In campagna elettorale ci è stato detto che essa dovrà essere rivoluzionata seguendo il modello lombardo, noto per la generosità dei suoi sfondamenti di spesa che toglievano il sonno a Piero Giarda. Acqua passata, e largo al privato, perché eroghi generose prestazioni che solo il pubblico potrà pagare, in piena coerenza con una filosofia che disprezza sì tutto quel che lo stato fa, ma non certo le risorse che esso deve continuare a fornire, e anzi in misura crescente. Sarà allora la scuola la vittima sacrificale immolata sull’altare del mantenimento degli equilibri di bilancio? Quella pubblica molto probabilmente, ma solo perché le risorse a essa sottratte possano essere dirottate verso la scuola privata (recte confessionale, rectius cattolica): difficile allora che da questa parte ci sia trippa per gatti. L’appoggio della curia non viene gratis, e l’unico creditore che non si può pensare di prendere in giro è l’istituzione più longeva del pianeta. E pazienza se si arrabbierà qualche parruccone, di quelli che ancora si attaccano a dettagli come il famoso inciso «senza oneri per lo stato» contenuto in un testo come la Costituzione, messo a punto, oltre cinquant’anni fa, da altri barbogi, del tutto ignari di internet, inglese e impresa. Se poi fra i barbogi ci fosse anche l’inquilino del Quirinale, dovrà starsene ben tranquillo.
Per le pensioni, poi, strada sbarrata. La prevedibile opposizione sindacale verrà certamente strumentalizzata oltre misura, cercando di far dimenticare la promessa, in verità convenientemente vaga, di darci «pensioni più dignitose». Non è comunque nel dna dei vincenti la linea dura con le vecchiette, alle quali è anzi probabile che venga prospettato un futuro di cieli azzurri, con nuvolette sparse, come nelle convention elettorali. La carota è per loro, il bastone sarà tutto per i loro adorati nipotini, collaboratori saltuari senza protezione alcuna, che per la pensione dovranno fare come per il resto: arrangiarsi da soli, in una società che inneggia sì alla flessibilità del lavoro (per quella del capitale azionario c’è tempo), ma che ancora richiede il cedolino dello stipendio a chi voglia prendere in affitto una casa. Niente posto fisso, niente casa, chissà cosa ne pensano alla cei, dove hanno così a cuore le famiglie.
Quanto agli investimenti in infrastrutture, per la verità da lungo tempo latitanti, è difficile pensare che si possa spremere altro da quel lato, anche senza ricordare le mirabolanti promesse di grandi lavori pubblici, dal ponte sullo Stretto in su.
Dovunque ci si volga, ci si imbatte in una promessa elettorale, per di più incisa nella pietra del contratto firmato nel salotto televisivo di Vespa da Berlusconi in persona. Questi dovrà ricorrere alla propria leggendaria abilità manovriera per venirne fuori. Ma alla fine dei conti è probabile che ci saranno i tagli delle entrate, ma non i tagli di spesa. Se poi qualche superstite seguace della teoria di Laffer dovesse sostenere che i tagli fiscali stimoleranno l’offerta, e che di conseguenza non si formerà alcun buco nei conti, sarà bene che si legga con attenzione le parole di Krugman in materia. Sono balle, ci dice, alle quali è augurabile che nessuno dia retta, in primo luogo coloro stessi che, per comodità politica, le propalano. Come dicono gli americani: «You don’t have to believe in your own bullshit», quando sai di dire una stupidaggine, è bene che almeno tu non ci creda.
Insomma, il buco ci sarà, grande o piccolo a seconda di tantissime circostanze, ma in primis del livello dell’attività economica. Questi sono anni buoni, in usa certo, ma anche in Italia (proprio così, anche in Italia, basta dare un’occhiata appena non distratta ai bilanci aziendali) e, ricorda l’autore, è semmai il momento nel quale si deve mettere fieno in cascina per i tempi grami. Sarà importante tenere gli occhi bene aperti, anche se questo è forse l’unico campo nel quale l’Unione Europea potrà svolgere una efficace sorveglianza. Non fosse per l’intervento dell’Ue, rischieremmo di fare come gli usa. Il responsabile del Bilancio usa sotto Reagan, Stockman, ha ammesso successivamente che i tagli fiscali di Reagan furono decisi pur sapendo che il roseo scenario di previsioni sul quale essi si innestavano era totalmente infondato: e gli usa ci hanno messo quindici anni a recuperare quell’avventura. Speriamo che la Santa Unione Europea ci risparmi esperienze simili. Quanto ai tagli, quelli di Bush sicuramente, e quelli di Berlusconi molto probabilmente, saranno pesantemente sbilanciati, a favore non dei benestanti ma dei super ricchi. Il tutto grazie soprattutto all’abolizione dell’imposta di successione, la misura di gran lunga più «sbilanciante» del programma di Bush, promessa a gran voce anche in Italia da Berlusconi, evidentemente dimentico anche lui del fatto che l’uguaglianza dei punti di partenza è una meta fondamentale di una democrazia liberale, si badi bene, e non socialista.
Questa incredibile sperequazione, che va contro secoli di discussioni sulla redistribuzione del reddito per via fiscale, è però accuratamente nascosta dal Tesoro usa che tenta deliberatamente di confondere le acque, occultando le cifre più significative e diffondendo, invece, numeri fuorvianti, in quanto da un lato incompleti, e dall’altro costruiti tenendo insieme realtà che vanno viste distintamente. Si veda la colpevole omissione, nei calcoli del governo americano, degli effetti dell’eliminazione dell’imposta di successione, nonché l’astuta ma menzognera insistenza sui vantaggi che il piano comporta per la «tipica famiglia americana» (che poi tale non è affatto), grazie alla quale si cerca di far passare in secondo piano il vero dato chiave, che invece Krugman analizza bene: come verrà distribuito, nelle diverse classi di contribuenti, il risparmio d’imposta del piano? Ebbene, come spiega il libro, la verità che si tenta di nascondere è che circa il 40 per cento del totale delle tasse non più dovute sarà tolto alla bolletta fiscale dell’1 per cento dei contribuenti americani – naturalmente l’1 per cento più ricco.
La situazione di quasi monopolio informativo che si profila da noi ci deve far riflettere: se la mitica stampa americana non riesce a ottenere i dati corretti, cosa riusciremo a sapere noi, cittadini di un paese già di per sé poco interessato ai numeri (come il confronto con il quadro di Krugman dimostra), quando l’etere, al quale il 90 per cento dei concittadini si rivolge per le informazioni, sarà davvero sotto il controllo di un solo soggetto? La campana di Krugman suona anche per noi, quando sentiamo questi rintocchi: «L’amministrazione [Bush] ha anche deliberatamente cercato di confondere il pubblico. Questo non è soltanto un problema di politica economica; è un problema di onestà» (pag. 118). E poi: «Non conosco nessuna precedente amministrazione che abbia cercato di vendere i suoi programmi economici sulla base di tante false pretese. Se riuscissero a farla franca, sarebbe una vergogna e un pericoloso precedente» (pag. 128). Sarà bene ruminarci sopra. La cosa è tanto più rilevante se si considera il peso centrale, per non dire quasi esclusivo, ormai assunto dalle scelte di politica economica nel dibattito politico. Esso non può che aumentare ulteriormente l’importanza di un’adeguata informazione di supporto al giudizio su queste scelte, nonché di saggi che, come questo di Krugman, consentano anche ai non specialisti di votare sulla base di informazioni serie: di far irrompere, cioè, la forza rinfrescante del ragionamento fondato sui fatti, negli ambienti chiusi, regno degli slogan astratti, quando non addirittura del tutto vuoti o, peggio ancora, pieni di qualcosa che non si dice perché non si può dire.
Quel che è grave è che ciò avviene in un periodo nel quale, un po’ ovunque in verità, ma soprattutto in Italia, si diffonde la convinzione che ogni lira di tasse pagata sia una lira indebitamente percepita dallo stato, quasi questo non erogasse, a fronte dei pagamenti che riceve, anche dei servizi ai cittadini. I quali servizi, se talvolta sono di qualità scadente, altre volte (si veda per esempio la classifica delle prestazioni sanitarie nei diversi stati) sono di ottimo livello. È un atteggiamento deleterio, che dimentica due cose importanti: anzitutto, come dice Krugman, che sprechi e intrallazzi funestano ogni grande organizzazione, comprese le tanto decantate imprese private; poi che questo stato «nemico» è lo stesso che ci ha protetto dalle malattie e dai soprusi dei prepotenti, ci ha istruito sottraendoci all’ignoranza e comunque ci ha tenuto nell’ambito di un consorzio civile che non fiorisce spontaneo nei prati, essendo il risultato di secoli di esperienze. Scrivono due giuristi americani, Holmes e Sunstein, nel loro bel libro intitolato Il costo dei diritti (Il Mulino, 2000): «Gli americani sembrano dimenticarsi facilmente che i diritti e le libertà del singolo dipendono dal vigore dell’azione pubblica, poiché senza un governo effettivo i cittadini americani non potrebbero godersi, come fanno, i propri beni, ed è anzi certo che essi godrebbero di pochi o di nessuno dei diritti garantiti loro dalla Costituzione». E ancora: «Tutti i diritti impongono alle finanze pubbliche oneri economicamente quantificabili, sia i diritti sociali sia il diritto di proprietà; la tutela della libertà negoziale comporta costi pubblici non meno della tutela del diritto all’assistenza sanitaria; il diritto alla libera manifestazione del pensiero non meno del diritto a un’abitazione decente». Come recita il sottotitolo del libro, insomma, la libertà dipende dalle tasse. E se è folle pensare che solo una società supertassata può essere interamente libera, è però certo che una società con troppo poche tasse (o addirittura senza tasse) è una società senza libertà. Gli unici cittadini liberi sarebbero allora quelli in grado di affrontare con la propria fortuna personale i costi necessari a vivere in libertà.
Ho richiamato all’inizio una nostra grave malattia: la mancanza del senso di appartenenza a una collettività legata da una storia e da valori comuni. Ebbene, questa non è destinata a diminuire dopo la stagione che si profila, del tutto dimentica di questi semplici ma basilari concetti. Certo, nella storia nessuna meta è mai acquisita per sempre, tanto meno si è obbligati, figurarsi, a vivere in una democrazia liberale: un sistema politico, va ricordato, che è solitamente il frutto di lotte secolari, che nel nostro paese ha avuto bisogno, per affermarsi, di robusti aiuti esterni. Buttiamoci pure, se davvero lo vogliamo, dalla roccia salda di questa democrazia, per dolcemente naufragare, come periodicamente fanno i «lemming», seguendo ancestrali istinti: nel nostro caso l’istinto del familismo amorale, per il quale il nostro paese è spesso (e giustamente) biasimato all’estero. Ricordiamo però che l’impatto con l’acqua gelida sarà durissimo, come durissima sarà la reazione di chi per effetto di queste misure vivrà, in Italia o in America, in un mondo più ingiusto: lo dimostrano gli argomenti di Paul Krugman. Nell’eventualità che davvero la ragione si assopisca propongo, in via del tutto provvisoria, che il nuovo sistema abbia il nome di plutocrazia familistica.